Laicità ed etica pubblica

di Paolo Bonetti
da www.italialaica.it, 13 maggio 2010

La questione morale, di fronte agli episodi di corruzione che vengono quotidianamente alla luce, è di nuovo al centro delle discussioni giornalistiche e, più in generale, dell’opinione pubblica del nostro paese. Si parla di nuova tangentopoli, si fanno confronti con la prima Repubblica, si dice che oggi la corruzione ha un carattere di arricchimento personale assai maggiore di quanto non fosse allora, quando si rubava non soltanto per sé, ma anche, in primo luogo, per il proprio partito. A questo proposito, prima ancora di stabilire se questa diversità di comportamenti sia veramente tale e non soltanto il frutto di quelle illusioni prospettiche in cui ci capita sovente di cadere quando giudichiamo il passato, andrebbe ricordata l’ovvio principio morale che non bisogna rubare, quali che siano i motivi, pubblici o privati, che ci spingono al furto, in particolare quando abbiamo la responsabilità di gestire il denaro pubblico.

Tuttavia, a costo di passare per incalliti e astratti moralisti, bisognerebbe ricordare anche che c’è un legame stretto fra morale privata ed etica pubblica e che, quando la prima è rilassata e permissiva, anche la seconda inevitabilmente ne soffre e si deteriora. Inoltre, va subito detto che il tono morale di un paese è in larga parte dato da quello delle sue classi dirigenti, dal loro stile di vita, dalla loro cultura o incultura, dalla loro tendenza alla sobrietà o alla pacchiana ostentazione della ricchezza e del potere anche nelle circostanze che riguardano gli aspetti più intimi e privati dell’esistenza. Un dirigente politico o amministrativo, ma anche un imprenditore, un sindacalista, un giornalista di grido o un professore universitario non possono esercitare con correttezza il loro ruolo pubblico, se contemporaneamente la loro vita privata e anche quella della loro famiglia si svolge all’insegna dell’arroganza e delle piccole o grandi prevaricazioni.

Insomma, per dirla volgarmente, non si può predicare bene e razzolare male. Quando una classe dirigente, compresa quella ecclesiastica, pensa di poter chiedere austerità e sacrifici ai cittadini, vivendo la propria vita privata senza un minimo di decoro, è inevitabile che tutto il tessuto sociale inesorabilmente si disgreghi e ciascuno badi soltanto a farsi gli affari propri a spese degli altri e della collettività. Nel Satyricon di Petronio c’è un personaggio, che ricorda tanto certi protagonisti della scena politica, sociale e mediatica del nostro tempo, che esclama per assolversi: ma se questo lo fa Giove, perché non dovrei farlo io povero ometto? Di qui la necessità che chi si crede Giove o pensa, in terra, di fare le veci di Giove, controlli se stesso e tenga scrupolosamente fede a quei valori che vorrebbe inculcare agli altri.

Direi che c’è un’etica pubblica laica strettamente legata a quella privata, che può essere praticata da tutti, credenti e non credenti, e che si chiama etica della responsabilità. Quando si dice, magari con un eccesso di solennità, che bisogna avere, in ogni circostanza della vita pubblica il senso dello Stato, s’intende proprio questo, che bisogna essere lucidamente consapevoli delle conseguenze prevedibili delle nostre azioni, di come esse incidano sempre sulla vita degli altri e di come, più in alto ci troviamo nella scala sociale, più devastanti possono essere gli effetti del nostro egoismo personale o di quello della corporazione a cui apparteniamo e dei cui interessi ci occupiamo, trascurando allegramente quelli dell’intero paese.

E non si venga a dire che questo è moralismo, perché la corruzione finisce col devastare anche quel mondo degli interessi economici che apparentemente sembra trarne profitto. Una secolare diseducazione religiosa e civile ha fatto sì che noi italiani si sia portati molto spesso a confondere la libertà con l’arbitrio, l’individualismo con l’anarchismo nel senso deteriore del termine, la creatività con la mancanza di rispetto per quelle regole senza le quali essa si riduce semplicemente alla tradizionale arte di arrangiarsi, che non per nulla anche nei sondaggi ottiene un alto indice di gradimento.

L’etica laica è, invece, un’etica severa, senza essere per questo ascetica e tanto meno bigotta. È l’etica – rivendichiamola con coraggio, senza paura delle accuse e dei dileggi – del mazzinianesimo e dell’azionismo, di quelle minoranze illuminate che hanno fatto, pur fra molti e per certi aspetti inevitabili errori, il Risorgimento e la Resistenza, di cui oggi troppo spesso si parla con un’acredine e con un risentimento che sono soltanto l’espressione della nostra decadenza morale. Decadenza pubblica, ma anche privata, decadenza che si manifesta in tanti dei nostri comportamenti quotidiani. Si parla continuamente, a proposito dei partiti politici, della necessità di radicarsi. Ma radicamento in cosa? Forse nei vizi della nazione per avere un facile consenso elettorale?