Crisi, le (non) strategie della Lega

di Pierfranco Pellizzetti
da il Fatto Quotidiano, 14 maggio 2010

Esiste una ricetta leghista per la fuoriuscita dal declino economico, almeno in quel sesto del Paese dove i Lumbard sono diventati egemoni e il cui modello produttivo era di tipo distrettuale?

Da tempo l’economista Tito Boeri raccoglie elementi al riguardo e le risultanti sono negative: né ricette né – tanto meno – disegni strategici. Solo provvedimenti a pioggia di modesta entità per rafforzare una penetrazione elettorale: l’allentamento selettivo della (crescente) pressione fiscale come i trasferimenti finanziari occulti e discrezionali. Tipo la Cassa Integrazione in deroga che – scrive Boeri – “ha dato più risorse al tessile della bergamasca che a molte altre aziende che avevano altrettanto bisogno di aiuto (e un futuro meno improbabile) in altre parti del paese”.

Provvedimenti erogati sul metro dell’appartenenza che svolgono un’esclusiva funzione di tampone. Intanto la crisi avanza, con i licenziati che praticano forme estreme di protesta e si ripetono perfino i suicidi degli imprenditori falliti. Insomma, un inutile placebo che non scioglie i nodi strutturali di un modo di produrre ferito a morte dalle sue stesse contraddizioni interne: lo scarsissimo orientamento all’innovazione, la competitività giocata sull’arrangiamento e sul basso costo del lavoro, i vincoli monetari che impediscono di giocare la carta delle svalutazioni dei tassi del cambio.

Cose già ripetute fino alla nausea. Con un limite: le analisi economiche non sono l’approccio migliore per evidenziare i prevalenti aspetti politico-culturali della vicenda.
Perché qui sta la forza del messaggio leghista: in uno sfascio dove non si sa letteralmente dove sbattere la testa, l’unica via di salvezza pare quella di barricarsi in casematte fortificate aspettando l’imprevedibile dopo della buriana.

In assenza di meglio, logico che gente tra il disperato e l’atterrito presti ascolto ai propagandisti delle comunità chiuse; quelli che le celebrano nella cadenza locale, magari bevendo un’ombra sui tavoli della comune osteria. Ciò che i fini politologi chiamano “radicamento nel territorio”: la fuga nello strapaese diventata alta politica.

Questa è la sedicente ricetta che va imponendosi. Con effetti di devastazione che rendono impossibile individuare una reale uscita di sicurezza. Effetti che hanno la loro matrice proprio nella stessa concettualizzazione del mitico “territorio”. Visto che se si sbaglia il modello di rappresentazione, le deduzioni ricavate sono depistanti.

Il territorio raccontato dalla narrazione leghista è uno spazio delimitato da fattori meta-economici che variano dall’etnos alla parlata. Il mito della Padania, di cui si intenderebbe preservare l’intima purezza attraverso forme sempre più marcate di isolazionismo. Appunto, la chiusura in uno spazio perimetrato.

Ma, a fronte di queste visioni rudimentali, esiste una concettualizzazione opposta, se vogliamo meticcia e tendenzialmente cosmopolitica, che si traduce nell’idea di comunità di progetto. Lo spazio non è più quello del sangue e del dialetto; semmai quello delle interdipendenze economiche, da far emergere attraverso strategie coalizionali in cui gli alleati mettono a fattor comune conoscenze e abilità, vantaggi posizionali e infrastrutture dedicate. Dunque, territori che si aprono grazie a visioni condivise sul proprio futuro che si traducono in alleanze, interne ed esterne: fiducia interna e complementarità esterne.

Insomma, grandi disegni di sviluppo/progresso ottenuti grazie a specializzazioni d’area. La via percorsa dai territori vincenti nel concerto europeo, tradotta in scelte mirate. Tanto per fare un esempio: la vicina Nizza è passata da 300mila abitanti a oltre un milione grazie a politiche per l’hi-tech, certo supportate da precise scelte trasportistiche, ma che mettevano a frutto un bene che anche noi italiani avremmo a disposizione: la qualità climatica, in una rivisitazione mediterranea della californiana “sun belt”; la “fascia del sole”, che si sta rivelando una preziosa miniera a cielo aperto in questa fase che taluno definisce post industriale (e che invece è solo un modo diverso di produrre: leggero, intelligente e consapevole delle irrinunciabili problematiche ambientali).

Anche in questo caso un’operazione politica e culturale, prima ancora che economica, ma orientata in senso opposto a quanto ci vogliono indurre forze politiche intenzionate a ridurre ogni problematica all’unico formato in cui sono capaci di ragionare e muoversi: il comune rustico di antica memoria.

Progetto privo di qualsivoglia ragionevolezza, che consolida le tendenze al declino anche perché presuppone l’allontanamento dall’area più avanzata dello spazio europeo e – in particolare – dall’asse forte Parigi-Berlino, cui da tempo si è agganciata pure Madrid. È forse un caso che ormai non si parli più del fantomatico “corridoio Cinque”, che doveva collegare Kiev e Lisbona attraversando il nord d’Italia, e si prospetta la diagonale Duisburg-Algesiras, che ci taglia drasticamente fuori?