Se la fede diviene presunzione di superiorità morale

di Michele Turrisi
da www.aifr.it

Non c’è pace tra le nazioni senza pace tra le religioni.
Non c’è pace tra le religioni senza dialogo tra le religioni.
Non c’è dialogo tra le religioni senza una ricerca sui fondamenti delle religioni.
(Hans Küng)

La realtà dei fatti ci dimostra abbastanza chiaramente che fede in Dio e moralità non sempre coincidono. Le due cose purtroppo non vanno necessariamente di pari passo. Sappiamo benissimo che non basta essere credenti per essere persone migliori, spiritualmente e moralmente. Magari fosse così! Staremmo certo tutti meglio, vista l’altissima percentuale di credenti nel mondo (ben i cinque sesti della popolazione). Eppure, ancora oggi accade che i cosiddetti «senza Dio» vengano da più parti dipinti a tinte scure. Atei e agnostici non possono, per principio, predicare/praticare nulla di veramente buono. Da costoro non può quindi venire alcun apporto positivo per una sana visione etica.

Ci sono certo importanti eccezioni. Per esempio, alla domanda: «Il cristianesimo di speciale cosa può offrire?», il noto teologo cattolico dissidente Hans Küng ha risposto così: «Molto. Naturalmente va capito che anche nelle altre religioni si trovano tanti valori e che una visione etica e spirituale si nutre anche dell’apporto che viene dagli agnostici, dagli scettici, dagli atei. Insomma, il cristianesimo non può pretendere di cambiare da solo il mondo…» (da una intervista di Marco Politi – “la Repubblica” del 10 marzo 2005). Per Sergio Quinzio – filosofo della rivelazione, eminente esegeta della tradizione giudaico-cristiana, portatore di una fede (nel Dio biblico) tanto salda quanto inquieta, tra la Croce e il Nulla, in virtù della quale però ha potuto parlare con e ai non credenti – si può anzi dire che «il credente ha bisogno dell’incredulo, in assenza del quale, com’è troppe volte accaduto, la sua fede si trasforma in tranquillo e non di rado ottuso sistema di certezze. “La fede che non si espone costantemente alle possibilità dell’incredulità – ha scritto Heidegger – non è neppure una fede”. Se è vero, oggi di fede ce n’è ben poca. L’opportunità di confrontarsi con i non credenti non mancherebbe infatti a nessuno, ma la fede cristiana continua a presentarsi soprattutto come lo schieramento di coloro che hanno una risposta pronta per ogni domanda, tanto che le domande gli appaiono superate e del tutto inutili, anzi senz’altro colpevoli» (S. Quinzio, La speranza nell’apocalisse, Paoline, Roma 1984, p. 148).

Ebbene, negli ultimi tempi mi sono chiesto fino a che punto si possa fondatamente sostenere, da parte dei credenti, che l’etica dei non credenti sia inevitabilmente a rischio, oltre che di «qualità inferiore». Ciò che propongo qui è una libera riflessione su di un episodio biblico (l’incontro del patriarca Abramo con altre culture), una riflessione che interpella Voltaire e attinge pure a una tanto splendida quanto clamorosa testimonianza di Albert Schweitzer. Direi che la tesi di fondo è scontata. Come giustamente è stato osservato: «Noi siamo cresciuti in una società che ha come modello morale il Vangelo con i valori del Discorso della montagna: beati i poveri di spirito, i miti, coloro che piangono, coloro che hanno fame e sete di giustizia, i misericordiosi, i puri di cuore, i pacifici, i perseguitati a causa della giustizia. A cui vanno aggiunti i comandamenti: ama il prossimo tuo come te stesso, ama il tuo nemico. […] Nell’Europa cristiana non c’è stata gente migliore che in altre civiltà» (così Francesco Alberoni sul “Corriere della Sera” del 19 settembre 2005). Da appassionato investigatore delle Scritture mi premeva tuttavia fondare quella tesi da un punto di vista particolare: dall’interno del Testo Sacro. Ci sono riuscito? Ai gentili lettori la facile sentenza!

Abramo – si sa – è il più grande e il più venerato dei patriarchi: è considerato padre spirituale da Ebrei, Cristiani e Musulmani. La Bibbia ne decanta le virtù; ma talvolta non ne sottace le miserie. E proprio da queste ultime muoverò per svolgere qualche considerazione sul pregiudizio infamante che, oggi come ieri (e chissà per quanto ancora!), colpisce inesorabilmente liberi pensatori in generale e non credenti in particolare (ma spesso anche solo diversamente credenti): quello secondo cui costoro in fondo sarebbero – poverini, magari inconsapevolmente! – portatori sani di immoralità, dato che non hanno alcun «timore di Dio» né, di conseguenza, una coscienza morale illuminata e preservata da principi «superiori» (insomma: no God, no moral). Abramo, l’«amico di Dio» (Lettera di Giacomo 2,23) nonché l’uomo di fede per antonomasia, non era immune da questo pregiudizio: quando infatti, durante le sue peregrinazioni, si imbatteva in una comunità dove non si adorava il suo stesso Dio, stava all’erta e temeva il peggio, perché era sicuro di trovarsi in mezzo a gente senza scrupoli, disonesta e debosciata. È vero che dovette ricredersi, come si vedrà più avanti; ma poiché non ne seguì autentico ravvedimento, il gene di quel pregiudizio non fu «disattivato», anzi venne trasmesso ai discendenti (vicini e lontani), essendo il patriarca riconosciuto come “il padre di tutti i credenti” (così è chiamato da san Paolo in Romani 4,16).

Due vicende della vita di Abramo risultano particolarmente illuminanti. La prima è narrata in Genesi 12,10-20 (cito da La Bibbia. Traduzione interconfessionale in lingua corrente [LDC/ABU, 2000]): «Una grave carestia colpì la terra di Canaan. Per evitarla Abram emigrò in Egitto. Prima di arrivarci disse a Sarai, sua moglie: “Tu sei una donna molto bella. Quando gli Egiziani ti vedranno penseranno che sei mia moglie, allora mi uccideranno e lasceranno in vita te. Ti prego, di’ a tutti che sei mia sorella. Così, grazie a te, invece di uccidermi, mi tratteranno bene”. Infatti, appena giunsero in Egitto, gli Egiziani videro che Sarai era bellissima. Alcuni funzionari la notarono e lodarono la sua bellezza parlandone con il faraone. Così fu portata al palazzo reale e a causa sua trattarono molto bene Abram: gli regalarono pecore, buoi, asini e asine, serve e servi e cammelli. Ma il Signore colpì il faraone e la sua casa con gravi malattie perché aveva preso Sarai, la moglie di Abram. Il faraone allora chiamò Abram e gli disse: “Che cosa mi hai combinato? Perché non mi hai fatto sapere che è tua moglie? Mi hai raccontato che era tua sorella e hai lasciato che io la prendessi per moglie! Ora riprenditela e vattene!”».

Questo racconto – commenta La Bibbia di Gerusalemme (anche nella nuova edizione [Dehoniane, 2009]) – «porta il segno di un’età morale in cui la coscienza non riprovava sempre la menzogna e in cui la vita del marito valeva di più dell’onore della moglie. L’umanità, guidata da Dio, ha preso coscienza della legge morale solo progressivamente». «Si ricordi» – avverte premurosa in nota la Bibbia CEI (1974) – «che la morale dell’Antico Testamento non era perfetta e delicata come quella evangelica». Evidentemente imbarazzati per l’atteggiamento del patriarca, alcuni commentatori intendono comunque giustificarlo, anche se non pienamente: appoggiandosi su Genesi 20,12, tengono a precisare che Sara era effettivamente sorella di Abramo, benché per parte di padre soltanto; e quindi il sotterfugio di lui di far passare Sara come sua sorella non era in fondo una menzogna. Il movente di Abramo – fanno osservare – non era di speculare sulla bellezza e l’onore della moglie a scopo di lucro disonesto, bensì unicamente di avere salva la vita. Fu quindi una debolezza dovuta al timore di ritorsioni; non certo un peccato di falsità: «[Abramo] ha perciò taciuto un lato della verità, senza affermare il falso, cosa lecita per gravi ragioni. Egli temeva di essere ucciso. Difatti Dio al versetto 17 difende Abramo» (così La Sacra Bibbia edita dalle Paoline [1958], nota a Genesi 12,13). Esclude l’imbroglio anche la Bibbia Piemme (1995): «Il patriarca è uomo, e ha delle preoccupazioni per la sua vita. Il ripiego che sceglie non è una menzogna, perché Sara era veramente sua sorellastra» (nota a Genesi 12,10-20). Come pure è stato osservato: «Del resto il testo narra ciò che avvenne, senza dare un giudizio sul fatto» (così La Sacra Bibbia a cura di Giuseppe Ricciotti [Salani, 1940]).

Ma altri commentatori sono di diverso avviso. C’è chi non si preoccupa di additare la «spudoratezza» con cui Abramo non esita a mettere in pericolo la moglie Sara né a mettere in crisi la promessa divina di una loro lunga e benedetta discendenza (cfr. per es. il commento della Bibbia Oscar, ideata e diretta da Vito Mancuso [Mondadori, 2000]); scrive a quest’ultimo proposito Jack Miles (cfr. il suo Dio. Una biografia, Garzanti, Milano 1996, pp. 60-73) che il curioso atteggiamento del patriarca in realtà esprime una «sfida» ai piani divini. C’è poi chi esorta fraternamente a riflettere sul fatto che persino nel padre della fede ci fu grande disonore e colpevole incredulità: «Ahimè, che cosa avverrà a una fede debole, quando anche la fede forte è così scossa! […] Se coloro che credono fanno quello che è ingiusto e ingannevole, specialmente se agiscono con la menzogna…» (cfr. il commentario disponibile QUI). E c’è chi considera un «inganno» bell’e buono il tentativo di Abramo di nascondere la vera relazione che esisteva tra lui e Sara, definendo in generale «stolta» la condotta del patriarca in questo episodio della sua vita (cfr. Investigare le Scritture – Antico Testamento, commentario a cura del Dallas Theological Seminary, La Casa della Bibbia, Torino 2001, pp. 49-51; di «inganno» parla anche La Bibbia. Via Verità e Vita [San Paolo, 2009]: cfr. la nota al passo in questione). È arduo giustificare il modo di agire del padre dei credenti, ignorare la sua menzogna e il fatto di aver sacrificato l’onore della moglie e di averne ricavato protezione e ricchezze dal Faraone. Diversamente che in tante altre circostanze non meno gravi e rischiose, questa volta Abramo non dimostra né coraggio, né altruismo, né tanto meno fede nell’Onnipotente. Egli si rivela bugiardo (agisce infatti con premeditazione) nonché un compagno non esemplare. A differenza di quello di Abramo, il modo di agire del Faraone si dimostra onesto: il patriarca aveva accettato i suoi regali e ciò l’aveva confermato nell’opinione che Sara fosse sorella di Abramo. (E poi, francamente, non si capisce mica perché Dio intervenga contro il Faraone e invece nessun rimprovero sia mosso ad Abramo; anzi, in apertura del capitolo 13 si esaltano pure le sue ricchezze, tra le quali ci sono anche i doni del Faraone. Ma tant’è!).

Su questa vicenda non possiamo ignorare qui quel che ebbe a osservare un insigne e spregiudicato lettore delle sacre carte: «Egli [Abramo] portò con sé a Menfi sua moglie Sara, che era estremamente giovane, e quasi una bambina in confronto a lui, dal momento che aveva solo sessantacinque anni. Poiché era bellissima, egli decise di trarre profitto dalla sua bellezza: “Fingete di essere mia sorella, le disse, affinché mi si faccia del bene per causa vostra”. Avrebbe potuto dirle piuttosto: “Fingete di essere mia figlia”. Il re si innamorò della giovane Sara, e donò al presunto fratello molte pecore, buoi, asini, asine, cammelli, servi e serve: prova ne è che l’Egitto era già allora un regno assai potente e civilizzato, e conseguentemente assai antico, e che vi si ricompensavano magnificamente i fratelli che andavano a offrire le loro sorelle ai re di Menfi» (Voltaire, Dizionario filosofico, voce «Abramo», p. 7). (Assai illuminante al riguardo è la prospettiva de La Bibbia delle donne. Un commentario, Claudiana, Torino 1996, vol. I, pp. 42-43). Ma su cosa poggiava l’assoluta certezza di Abramo che i loschi Egiziani avrebbero bramato quella magnifica straniera fino a ucciderne anche il marito pur di assicurarsela? Lo sentiremo tra poco dalla bocca dello stesso patriarca.

La seconda vicenda, pressoché identica alla prima (per la critica solo un’altra versione del racconto precedente), è narrata nel cap. 20 dello stesso libro biblico. Ma in questo caso Abramo, interrogato, confessa il perché delle sue prevenzioni verso gli «altri». Abramo si mosse da Mamre verso il sud di Canaan e si fermò tra Kades e Sur. Abitò come straniero a Gerar. Quando parlava di sua moglie diceva che era sua sorella. Perciò Abimelech, re di Gerar, mandò a prenderla per sé. Di notte Dio apparve in sogno ad Abimelech e gli disse: «Tu devi morire perché ti sei presa questa donna che è già sposata». Abimelech però non aveva ancora avuto alcun rapporto con lei. Perciò disse: «Signore, sono innocente; perché vuoi colpire me e il mio popolo? Abramo stesso ha detto che era sua sorella e anche lei lo ha confermato. Io quindi ho agito in buona fede e con intenzioni oneste». […] Abimelech si alzò di buon mattino, chiamò tutti i suoi consiglieri e raccontò loro l’intera vicenda. Tutti furono spaventati. Allora Abimelech fece chiamare Abramo e gli disse: «Che cosa mi hai combinato? Che cosa ti ho fatto di male, io, per esporre me e il mio popolo al rischio di un peccato così grave? Nessuno dovrebbe comportarsi così!» [grassetto mio]. Abimelech disse ancora ad Abramo: «Che intenzioni avevi quando hai fatto questo?». Abramo rispose: «Mi sono detto: Sicuramente in questo luogo non vi è alcun rispetto di Dio! Perciò mi uccideranno pur di avere mia moglie» [grassetto mio]. […] Allora Abimelech restituì Sara ad Abramo e insieme gli regalò pecore e buoi, schiavi e schiave. E gli disse: «Guarda, questo è il mio territorio. Va’ a stabilirti dove preferisci». A Sara disse: «Ecco, io ho dato a tuo fratello mille pezzi d’argento. Questo dono dimostra ai tuoi e a tutti che sei innocente. Così tutti sapranno che non hai fatto nulla di male».

Immagino – ma forse m’illudo! – che dovette rimanere proprio di sasso (almeno lì per lì) il prevenuto monoteista Abramo di fronte a cotanta mitezza, magnanimità e onestà d’intenti e d’azione da parte di un losco cananeo idolatra. Il quale, nonostante tutto, conferma la propria ospitalità all’ingrato straniero. Dopo aver letto questo racconto Voltaire non seppe trattenersi dal commentare così: «Abramo, cui piaceva viaggiare, si recò nell’orribile deserto di Cades con la moglie incinta, sempre giovane e sempre bella. Un re di quel deserto non mancò di innamorarsi di Sara come era accaduto al re d’Egitto. Il padre dei credenti si servì della stessa menzogna che in Egitto: spacciò la moglie per sua sorella, e da tale affare ebbe ancora pecore, buoi, servi e serve. Si può dire che questo Abramo divenne ricchissimo alle spalle della moglie. I commentatori hanno prodotto un numero prodigioso di volumi per giustificare la condotta di Abramo…» (Voltaire, Dizionario filosofico, cit., p. 7).

Abramo è dunque “recidivo”; e il suo del tutto ingiustificato pregiudizio nei confronti di chi non adora o, più semplicemente, nemmeno conosce “il Dio di Abramo” non viene minimamente intaccato da queste esperienze. Egli nega l’evidenza, mantenendo intatta l’assurda prevenzione contro i popoli di diverso orientamento religioso (proprio un pluralista ante litteram, nevvero?). Non solo: incontrastato, il pregiudizio di Abramo passa purtroppo al figlio Isacco; questi infatti, in circostanze simili, seguirà fedelmente le orme del padre (cfr. Genesi 26). E però la condotta del patriarca – sostengono gli avvocati difensori – non deve scandalizzarci, perché egli vive e opera in altri tempi, in un’età morale in cui la sensibilità degli uomini per l’inganno era molto meno acuta della nostra. Ebbene, una siffatta spiegazione/giustificazione risulta penosa in quanto ignora l’eloquente dato testuale, sorvolando spudoratamente sulla reazione delle vittime dell’inganno, ossia del Faraone nel primo caso (Genesi 12,18-19) e di Abimelech nel secondo (Genesi 20,9). Con totale – nonché pienamente legittima – franchezza costoro esprimono al patriarca tutto il loro biasimo, e gli danno una lezione di onestà; lezione che chi si considera spiritualmente discendente di Abramo dovrebbe tesaurizzare.

Ma c’è di più. Dal re e dalla gente di Gerar Abramo riceve pure una lezione sul pregiudizio (peccato però ch’egli non l’abbia valorizzata!). Per lui gli abitanti di Gerar sono gente senza timore di Dio; ergo, senza morale o scrupoli di sorta. A Gerar «non vi è alcun rispetto di Dio»; perciò non può esserci pace e sicurezza per lui in quel luogo. Ne è talmente sicuro da ideare e attuare un piano per sfuggire alla supposta malvagità di quella gente. Abramo giudica senza conoscere, ma – lo abbiamo visto – deve ricredersi. Ora, sicuramente Abimelech e la sua gente erano diversi da Abramo e dal suo clan per usi, costumi e credenze. L’errore di Abramo però consistette nell’identificare la diversità con l’inferiorità (errore, per la verità, in cui tutti rischiamo costantemente d’incorrere). Per lui quella gente non poteva conoscere e praticare la giustizia, visto che non serviva il suo stesso Dio. Presso gente politeista non poteva che regnare la dissolutezza mista alla violenza. Abramo giudicava a priori impossibile che si osservassero la decenza e la virtù anche al di fuori del suo gruppo. (Eh sì, la stolida presunzione di superiorità – etnica, morale, spirituale – non è solo appannaggio dei nostri tempi!). Ma si sbagliava di grosso. Non è necessario qui scomodare Spinoza con la sua incisiva esposizione di prove scritturali contro l’idea che ai Patriarchi e al Popolo Eletto Dio abbia riservato – su tutto, in assoluto e in eterno – una «luce» speciale (cfr. Trattato teologico-politico, cur. di A. Dini, Milano 1999, pp. 147-169). Sarebbe invece sufficiente tener conto di quanto ammette una fonte non certo sospetta di disamore per il Testo Sacro: «Oggi non appare più tanto drastica l’antitesi: “Qui la sublime fede in un unico dio – là il bizzarro brulicare di dèi”. […] Pure la concezione della sublimità di figure divine regali non era estranea alle religioni di altri popoli che abitavano in prossimità della Terra Santa. E quindi dobbiamo concludere che anche altrove non c’era dissolutezza. Anche al di fuori dei confini di Israele si conosceva la responsabilità, la decenza, la legge, l’ordine, l’etica e la morale; e anche altrove le norme della condotta umana trovavano un’espressione adeguata, nello spirito e nella lettera, alla legge sacra di Israele. Ancora una volta possiamo dire: la Bibbia aveva ragione; ragione nella misura in cui ha tramandato anche nei suoi testi legislativi, il cui nucleo principale sono i dieci comandamenti, una parte autentica – convalidabile mediante paralleli – della storia della civiltà e dei costumi dell’antico Oriente. Certo, il quadro che ne emerge ci rende oggi più difficile salvaguardare il diritto accampato un tempo circa l’unicità della legge biblica, e ciò può confondere molti. Ma non possiamo sottrarre nessuno a questo stato di incertezza» (W. Keller, La Bibbia aveva ragione, edizione riv. cur. di J. Rehork, Garzanti, Milano 1979, pp. 142-143 [corsivo mio]).

Ancora oggi viene di continuo e da più parti ribadita la terrificante sentenza: una società senza (il nostro) Dio si autodistrugge, inesorabilmente! Per molti ne consegue che bisogna diffidare dei non credenti e contrastare le scellerate istanze laiche. Per il bene di tutti – si capisce. Una cosa però è tragicamente vera: né l’amore per Dio né la credenza nell’inferno eterno hanno mai impedito (storicamente e ancora) a coloro che li professano entrambi di concepire e compiere i delitti più esecrabili. Eppure si ripropone la tesi che solo chi crede in Dio rispetta la vita (ma cosa non è stato fatto e non si fa proprio in nome di Dio!); e alla domanda «In cosa crede chi non crede?» tanti credenti continuano a rispondere con sfacciata sicumera: «Ma in nulla! Se Dio non esiste, allora tutto è possibile, opinabile, lecito… Non ancorati a Dio, il valore della vita e la dignità umana restano senza fondamento…». Un uomo e credente d’eccezione come Albert Schweitzer ha affermato invece: «Se domani giungessi alla conclusione che Dio non esiste, e che non esiste l’immortalità, e che la morale non è che un’invenzione della società […] ciò non mi turberebbe affatto. L’equilibrio della mia vita interiore e la consapevolezza del mio dovere non ne sarebbero intimamente scossi. Riderei di cuore e direi: Sì, e allora? […] Questo mi riempie di sereno orgoglio» (Lettere 1901-1913). Di più: «Quando il pensiero si inoltra per la sua strada, deve essere preparato a tutto, anche ad arrivare all’agnosticismo [Nichterkennen]. Ma se anche la nostra volontà d’azione fosse destinata a combattere una lotta senza fine e senza successo con una concezione agnostica del mondo e della vita, questa dolorosa disillusione sarebbe pur sempre preferibile alla rinuncia a pensare. Poiché questa disillusione significa già purificazione [Läuterung]» (Kultur und Ethik). Mi chiedo se verrà mai il tempo in cui i credenti di tutte le specie e latitudini vorranno e sapranno far proprie queste parole. Mi lascia però ben sperare il fatto di vedere riprodotte e apertamente valorizzate su una autorevole rivista teologica (“Protestantesimo”, n. 3/2002 – pubblicata dalla Facoltà Valdese di Teologia) queste e altre fondamentali affermazioni di Schweitzer.

Si potrebbe obiettare che il mio è un modo molto poco rispettoso di trattare le vicende bibliche e che non sta bene citare un “blasfemo” Voltaire che accusa di menzogna e opportunismo il padre dei credenti, la cui condotta invece non viene affatto stigmatizzata dall’autore sacro. Ora, sono più che noti i fatti in virtù dei quali Abramo eccelle per coraggio, altruismo, mitezza e fedeltà. Eminente è il posto che egli occupa nella Bibbia, dove è additato come esempio eccellente di fede e modello di virtù. Gesù stesso raccomandava di imitare le opere di Abramo (cfr. Vangelo di Giovanni 8,31-40). Tuttavia, in sintonia con l’indicazione biblica di 1 Corinzi 10,6.11 ritengo che si possa e debba trarre insegnamento non solo dalla grandezza di Abramo ma anche dalle sue défaillance. Inoltre, non si dice sempre – e giustamente! – che una delle più interessanti caratteristiche di autenticità della Bibbia consiste proprio nel fatto che essa non mitizza i suoi eroi (nemmeno quelli più grandi: i campioni della fede), svelandone anzi gli atti e i pensieri più ignobili? Molti credenti, però, sono affezionati a una descrizione sempre e comunque mitica/celebrativa dei fatti e dei personaggi della Bibbia. Vale a mio avviso per la storia biblica quel che Sergio Quinzio con matura lucidità osservava a proposito della storia della chiesa e dei secoli cristiani: «Non si tratta di sollevare con compiacimento i veli che nascondono le miserie dei secoli cristiani, ma di guardare in faccia la realtà, perché Dio, come diceva Giobbe, non ha bisogno di essere difeso dalle nostre pietose menzogne. E noi siamo tentati invece, oggi non meno di ieri, di fingere per gli altri e prima ancora per noi stessi un’immagine della chiesa che non susciti problemi e tranquillizzi» (S. Quinzio, Incertezze e provocazioni, La Stampa, Torino 1993, p. 138). Ovviamente, non è corretto valutare il passato sulla base degli attuali parametri etici. Il fatto è che in quel particolare frangente Abramo peccò di falsità. E l’inganno era nettamente condannato anche in quell’età morale (del resto la reazione delle vittime del «complotto» non lascia dubbi in proposito). Sorvoliamo pure sul fatto che sposare la propria sorellastra sarà considerato un’infamia dalla legge mosaica (cfr. Levitico 18,9 e 20,17). Rimane sempre la domanda: com’è possibile che Abramo abbia così spregiudicatamente indotto all’adulterio la sua adorata Sara? Ci risiamo, erano altri tempi!

Tuttavia la questione di fondo per me è un’altra: in base a quali elementi il patriarca pensa sistematicamente male dei diversi che incontra sul suo cammino? Egli non ha elementi. Del resto, mica ne occorrono a chi si affida al pregiudizio! Il pregiudizio ostacola l’ascolto, l’apertura verso gli “altri”; impedisce di pensare che ogni persona è tutto un mondo da scoprire; e chiude molte porte di accesso alla verità. Sebbene Abramo non ne avesse le prove, era ugualmente sicuro che i malvagi re dei corrotti popoli cananei non avrebbero avuto il minimo scrupolo ad assassinarlo pur di avere la bellissima Sara. Paradossalmente, sarà invece un piissimo re d’Israele – il re «secondo il cuore di Dio», autore di Salmi, il modello di tutti i re del Popolo Eletto nonché il tipo del Messia – a organizzare e portare a termine un’azione così vergognosa. Ecco, sono convinto che nel caso del Faraone e di Abimelech (come pure in quello di Giobbe e del buon Samaritano) i credenti dovrebbero ravvisare tra l’altro questo prezioso ammonimento: anche al di fuori del cosiddetto «popolo di Dio» esistono e si praticano sani principi. Se ci si crede migliori degli «altri» (di coloro che professano un’altra religione o non ne professano alcuna) occorre dimostrarlo. Con i fatti. Perché credere in Dio, osservare con scrupolo i precetti religiosi, difendere zelantemente l’ortodossia… non è affatto garanzia di buona condotta, di fidata sensibilità morale o di maggiore umanità. Così come la mancanza di fede non implica l’assenza di degni valori morali. Cosa fa allora la differenza? Sacrosanto il criterio indicato dal Maestro di Nazareth: «È dai frutti che si conosce la qualità dell’albero» (Vangelo di Matteo 12,33).

Concludo parafrasando un famoso Salmo. Se stolto è chi dice che Dio non c’è, meno stolto non è chi pensa: Dio parla solo con me, o solo con la mia Chiesa, o la mia civiltà.