Banche armate: la finanza che non conosce crisi

di Luca Kocci
da Adista Notizie, n. 41 – 22 Maggio 2010

È salito al vertice della delle “banche armate” – ovvero gli istituti di credito che forniscono servizi finanziari alle industrie armiere ottenendo notevoli compensi di intermediazione – il gruppo Ubi (Unione Banche Italiane), nel cui Consiglio di Sorveglianza siede, non a caso, Pietro Gussalli Beretta, vicepresidente di Beretta Holding Spa, la principale azienda italiana, e una delle prime al mondo, produttrice di armi leggere: con 1 miliardo e 231 milioni di euro Ubi Banca è il gruppo che – soprattutto con il Banco di Brescia e per una piccola quota con il Banco di San Giorgio – nel corso dell’anno 2009 ha movimentato più soldi per conto delle industrie italiane che hanno esportato armi all’estero. Nel 2008 l’impegno di Ubi Banca era inferiore ai 250 milioni.

“La nostra policy – spiega ad Adista Damiano Carrara, responsabile Corporate Social Responsibility di Ubi – non è volta ad azzerare l’impegno del gruppo nei confronti del settore che anzi consideriamo importante per la difesa dell’ordine pubblico interno e internazionale secondo i principi della Costituzione italiana, ma a regolare gli interventi secondo criteri di valutazione delle singole operazioni oggettivi e trasparenti, condivisi con varie organizzazioni sociali attente a questi temi”. “Tutte le transazioni sono state effettuate nel pieno e rigoroso rispetto di tale codice di comportamento: il 97% degli importi autorizzati riguarda Paesi dell’Unione Europea, come si può leggere anche nel bilancio sociale consultabile sul sito, e ha come oggetto la fornitura di componenti, ricambi e manutenzioni per aeromobili e di aeromobili non armati. Inoltre sono state declinate operazioni per un importo complessivo di 7,1 milioni di euro, in quanto dirette verso Paesi non ammessi dalla policy”.

Principi e informazioni che tuttavia non possono più essere verificate, come spiega Giorgio Beretta, analista della Rete Italiana Disarmo e per anni animatore della Campagna di pressione alle “banche armate” promossa dalle riviste Missione Oggi, Nigrizia e Mosaico di Pace: “Da quando, due anni fa, il governo ha eliminato dalla Relazione sull’import-export di armi il lungo e dettagliato elenco delle singole operazioni effettuate dagli istituti di credito, è impossibile giudicare l’operato delle singole banche. Nessuno mette in dubbio il resoconto delle banche, nel caso di Ubi anche abbastanza dettagliato, ma senza quell’elenco le loro affermazioni mancano del riscontro ufficiale che solo la Relazione può fornire”.

“Banche armate”: affari per quasi 6 miliardi di euro

La Relazione del governo – pubblicata circa due mesi dopo la divulgazione di un più sintetico Rapporto che ha evidenziato il grande aumento (+ 61%) delle esportazioni di armi italiane nel mondo soprattutto verso Paesi extra Unione Europea e Nato (v. Adista n.30/10) – segnala che nel 2009 sono state autorizzate 1.628 transazioni bancarie per un totale di oltre 4 miliardi di euro, a cui va aggiunto poco più di un miliardo e 700 milioni per “programmi intergovernativi di riarmo (cioè i grandi sistemi d’arma costruiti in collaborazione con altri Paesi, come ad esempio il cacciabombardiere Joint Strike Fighter per cui l’Italia spenderà almeno 15 miliardi nei prossimi anni).

Dopo Ubi Banca, sempre per quanto riguarda il capitolo esportazioni, la seconda “banca armata” è la tedesca Deutsche Bank con 913 milioni di euro, seguita dal gruppo italo-francese Bnl-Bnp che ha movimentato 904 milioni di euro, e che è anche la banca convenzionata con l’Ufficio Nazionale per il Servizio Civile (v. Adista n. 3/10). “Il recente crescente attivismo della banca tedesca nel settore – nel 2004 realizzava operazioni per soli 700mila euro – e soprattutto la totale mancanza di direttive pubbliche per quanto riguarda il settore dell’industria militare e dell’export armiero fanno oggi della Deutsche Bank uno dei principali attori in questo particolare business”, commenta Beretta. “Vien da chiedersi cosa intenda quando sul proprio sito la banca afferma che ‘per Deutsche Bank la Responsabilità Sociale d’Impresa non è un’opportunità per fare beneficenza, ma un investimento nella società e nel proprio futuro’.

Se l’investimento è fatto coi proventi dell’export militare, il futuro lo vedo… plumbeo”. E per Beretta “stupisce anche il crescente volume d’affari nel settore da parte di Bnp Paribas: dai poco più di 300mila euro del 2002 si passa agli oltre 804 milioni di euro del 2009 autorizzati a Bnp Paribas Succursale Italia”, ovvero Bnl. “Il Codice Etico della Bnl – aggiunge Beretta – limiterebbe l’operatività della banca nell’export di armi ai soli Paesi della Nato e dell’Ue. Inoltre, stando al principio secondo cui il Gruppo Bnp Paribas adotterebbe nei vari Paesi lo ‘standard più elevato’ in materia di responsabilità sociale, tale limitazione dovrebbe applicarsi anche alla sua filiale italiana. Ma né nei bilanci sociali della Bnl e ancor meno in quelli del Bnp Paribas si rintraccia una cifra o un Paese verso cui le due banche hanno svolto operazioni di armi”.

Questi tre gruppi bancari, da soli, coprono i tre quarti del mercato finanziario relativo alle esportazioni. Seguono circa 20 banche, sia italiane che estere, con importi assai inferiori. Fra gli istituti italiani si notano il gruppo Intesa San Paolo con 186 milioni (a cui però andrebbero aggiunti anche i 47 milioni della Cassa di Risparmio di La Spezia, facente parte dello stesso gruppo) e Unicredit con 146 milioni. A seguire Cassa di Risparmio di Genova e Imperia (23 milioni), Banca Popolare Commercio e Industria (15 milioni), Banca Antonveneta (quasi 9 milioni) e poi Banca Popolare dell’Emilia Romagna, Banca Valsabbina, Banca Popolare dell’Etruria e del Lazio, Credicoop di Cernusco sul Naviglio e Banca Popolare di Milano con importi intorno ai 5 milioni di euro ciascuno.

Giorgio Beretta: oltre le banche, attaccare anche i “governi armati”

Se dalle esportazioni si passa a considerare i “programmi intergovernativi”, i primi due posti sono saldamente occupati da Intesa San Paolo (806 milioni) e Unicredit (702 milioni), leader incontrastati di questo settore – nonché banche di riferimento per le attività della Conferenza Episcopale Italiana e della Caritas Italiana (v. Adista n. 5/10) – che da anni fanno pubbliche e solenni dichiarazioni di disimpegno dal sostegno alle industrie armiere e puntualmente si ritrovano in vetta alla clas-sifica. “Nel caso delle esportazioni definitive, dove comunque si ha una diminuzione del 12% rispetto allo scorso anno, si tratta di transazioni relative a operazioni avviate prima dell’entrata in vigore del nostro codice di comportamento, esteso progressivamente alle banche entrate negli anni nel Gruppo Intesa Sanpaolo” spiega ad Adista Valter Serrentino, responsabile dell’Unità Corporate Social Responsibility di Intesa San Paolo.

“Inoltre aggiungo che la principale operazione supportata, che rappresenta oltre il 60% dell’importo totale delle autorizzazioni, è relativa alla fornitura di 3 navi cacciamine alla Marina Militare finlandese. Le operazioni relative ai programmi intergovernativi invece si riferiscono ad accordi pluriennali, anch’essi stipulati prima dell’entrata in vigore del codice di comportamento, che manifesteranno i loro effetti nei nostri bilanci anche per i prossimi anni. Crediamo quindi di aver mantenuto coerentemente gli impegni che abbiamo preso nei confronti sia dei nostri clienti, sia della società civile”.

“Se non è ingiustificata la sottolineatura da parte degli istituti di credito che questi programmi intergovernativi per la loro specificità ineriscono la stessa politica di difesa dell’Italia – replica Beretta – ciò dovrebbe attivare la società civile in maniera ancor più decisa nel chiedere conto innanzitutto al governo della sensatezza delle spese per questi sistemi militari che, oltre che incredibilmente dispendiosi, hanno anche una chiara propensione offensiva, come nel caso del programma per il Joint Strike Fighter”.
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Italia: record di 4,9 miliardi di export di armamenti, in “revisione” la legge 185/90

di Giorgio Beretta
da www.unimondo.org

L’industria militare italiana fa il botto. Ammontano infatti a 4,9 miliardi di euro le autorizzazioni all’esportazione di armamenti rilasciate dal Governo nel 2009 alle aziende del settore con un incremento di ordinativi internazionali (il 61%) sconosciuto ad altri settori dell’industria nazionale. Ed hanno superato quota 2,2 miliardi di euro le effettive consegne di materiali militari. Un duplice record che annovera il BelPaese tra i big player in quello che il “Rapporto della Presidenza del Consiglio sull’esportazione di materiali militari” pubblicato ieri definisce il “mercato globale” degli armamenti (pg. 25).

Un nuovo record ottenuto soprattutto grazie alla commessa da oltre 1,1 miliardi di euro da parte della Al-Quwwat al-Jawwiyya al-Sa’udiyya, la Reale Aeronautica Saudita per i caccia multiruolo Eurofighter Typhoon (EFA). Un colossale e torbido affaire reso possibile a seguito dello stop alle investigazioni richiesto e ottenuto dall’allora Primo Ministro britannico Tony Blair su tutta la faccenda collegata all’affare Al Yamamah (la Colomba) che ha visto coinvolta la BAE Systems. Un caso che è stato per anni – ed è tuttora – nel mirino della stampa britannica ma di cui quasi nessun organo di informazione – a parte Unimondo – ha parlato in Italia. Utile spendere qualche parola per capire i retroscena della vicenda.

Nel dicembre del 2006 l’Arabia Saudita aveva infatti minacciato di sospendere i negoziati commerciali col governo britannico per l’acquisto di 72 nuovi caccia Eurofighter dal gruppo BAE Systems: il contratto da 10 miliardi di dollari era stato sospeso per l’irritazione dei sauditi nei confronti proprio dell’inchiesta avviata dal Serious Fraud Office (SFO), l’Ufficio anti-frodi britannico, sulle tangenti che sarebbero finite nei conti svizzeri della famiglia Reale saudita, all’interno di un ventennale contratto di scambio di “armi per petrolio” tra Ryad e la Gran Bretagna. L’indagine riguardava i fondi neri, pari a 114 milioni di dollari, usati dalla compagnia per corrompere dignitari dell’Arabia Saudita, pagando tra l’altro prostitute, Rolls-Royce e vacanze in California: l’intervento di Tony Blair – che aveva giustificato la sua presa di posizione adducendo motivi di “sicurezza nazionale” e “l’immenso danno agli interessi del paese” se l’indagine fosse proseguita – aveva messo fine all’inchiesta sulla BAE e – nonostante le proteste delle associazioni britanniche – aveva riaperto le trattative tra il consorzio Eurofighter e il governo saudita per l’acquisto dei 72 caccia Eurofighter (EFA – El Salaam).

Sgombrato il campo dall’inchiesta giudiziaria britannica (che però è stata ripresa dal Department of Justice degli Stati Uniti che lo scorso febbraio ha sanzionato la BAE per 400 milioni di dollari per “reati di corruzione”), l’Arabia Saudita ha riaperto le trattative per acquistare 72 caccia Eurofighter (EFA) dal gruppo di cui la BAE Systems è il prime contractor e che vede la partecipazione dell’italiana Alenia Aeronautica alla quale lo scorso anno, appunto, è stata autorizzata dal Ministero degli Esteri l’esportazione di componenti per l’EFA-SALAM all’Arabia Saudita per circa 1,1 miliardi di euro.

E che Nord Africa e Medio Oriente siano i principali clienti dell’industria militare italiana lo conferma lo stesso “Rapporto della Presidenza del Consiglio” (Tabella 5 in .pdf): verso quest’area geopolitica sono state rilasciate autorizzazioni all’esportazione di armamenti per oltre 1.9 miliardi di euro pari al 39,5% del totale. Tra i maggiori acquirenti spiccano oltre all’Arabia Saudita (1,1 miliardi di euro di commesse, pari al 16,3% del totale), il Qatar (317,2 milioni di euro) soprattutto per la fornitura di elicotteri EH 101 SAR dell’Agusta, gli Emirati Arabi Uniti (175,9 milioni), il Marocco (156,4 milioni) e la Libia (111,8 milioni) per citare solo i principali.

Nell’insieme primeggiano – e preoccupano – le autorizzazioni verso i Paesi del Sud del mondo che totalizzano più di 2,6 miliardi di euro (pari al 53,2%) mentre quelle verso Paesi della Nato-Ue si fermano a 2,3 miliardi di euro pari al 46,8% (si veda Tabella 1, in .pdf). Oltre alle già citate autorizzazioni verso il Medio Oriente, vanno segnalate quelle verso l’Asia (416,2 milioni pari all’8,5% del totale) tra cui emergono quelle verso l’India (242,8 milioni di euro) per l’acquisto da Fincantieri di una nave logistica classe “Etna”; l’America Centro-meridionale (100,3 milioni di euro pari al 2%) e l’Africa centro-meridionale (51 milioni di euro in gran parte per commesse dalla Nigeria).

Ma ancor più preoccupante è la sparizione dal Rapporto per il secondo anno consecutivo della Tabella delle autorizzazioni rilasciate alle banche per le operazioni d’appoggio all’esportazione di armamenti: dal Rapporto si apprende solo l’ammontare complessivo (4 miliardi di euro di cui circa 3,7 miliardi per operazioni di esportazione definitiva) ma – nonostante le proteste delle associazioni – nessuna menzione delle banche a cui sono stati autorizzate tali operazioni. La Tabella delle operazioni bancarie dovrebbe essere riportata dalla più ampia Relazione al Parlamento, ma non ci sono segnali che il Ministero guidato da Tremonti intenda ripristinare il dettagliato elenco delle singole autorizzazioni rilasciate alle banche (cioè l’elenco di “Riepilogo in dettaglio suddiviso per Istituti di Credito”) che dall’entrata in carica del Governo Berlusconi è stato “sostituto” con altri elenchi (per Aziende, per Paesi destinatari, per numero MAE) sottraendo alla società civile e alle campagne la possibilità di controllo sulle singole operazioni effettuate dalle banche.

Resta infine tutto da vedere come il Governo intenderà muoversi per quanto riguarda il cosiddetto “riordino” della normativa nazionale relativa al controllo dell’esportazione di armamenti e cioè della Legge 185/90. Il Rapporto della Presidenza del Consiglio afferma che il “processo di integrazione europeo nel campo della difesa e la progressiva razionalizzazione e ristrutturazione dell’industria europea” avrebbe portato ad un “radicale cambiamento” dello scenario tanto che “il quadro normativo italiano è risultato sempre più inadeguato” (pg. 23). Proprio per questo – e per recepire nella legislazione nazionale le recenti Direttive e Posizioni Comuni europee – la Presidenza del Consiglio intende “operare per la finalizzazione del processo di revisione della normativa nazionale” (pg. 34), cioè ad “un intervento correttivo di tutta la normativa in vigore” (pg. 24).

Sarà da vedere, soprattutto, se e in che modo saranno coinvolte in questo processo le associazioni della società civile che – va ricordato – fin dagli anni Ottanta sono state promotrici di una legislazione rigorosa e trasparente sull’esportazione di armamenti (la Legge 185/90) che è stata alla base del Codice di Condotta dell’Unione Europea. Il Rapporto riafferma la volontà di “continuare il dialogo con i rappresentanti delle Organizzazioni Non Governative” (pg. 36).

Le associazioni della Rete Italiana Disarmo hanno ripetutamente richiesto negli anni scorsi di essere informate con puntualità e precisione su tutta l’ampia materia non solo del controllo delle esportazioni di armamenti, ma anche sulle annunciate modifiche alla legislazione vigente. Ed intendono formalizzare questa richiesta alla Presidenza del Consiglio la quale già dallo scorso anno ha costituito presso l’Ufficio del Consigliere Militare (PCM/UCPMA) un apposito “Gruppo di lavoro” tra i cui compiti figura appunto quello di verificare “l’opportuna strada perseguibile per un intervento correttivo di tutta la normativa in vigore” (pg. 24). Una strada che, visto i casi giudiziari che stanno tuttora coinvolgendo le aziende militari britanniche, non può permettersi di abbassare il livello di controlli, di trasparenza pubblica e di informazione istituzionale soprattutto per quanto riguarda il settore bancario.
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Ci siamo tanto armati

di Gianni Ballarini
da www.nigrizia.it

Dal Rapporto annuale sull’import ed export di armi in Italia emerge non solo un boom di autorizzazioni nel 2009, ma anche un costante flusso di denaro che affluisce nei conti delle banche che appoggiano il business. È poi dichiarata la volontà dell’esecutivo di modificare la legge 185 del 1990, togliendo molti vincoli al commercio armato. A rischio la trasparenza del mercato.

Dal Rapporto 2009 del presidente del consiglio dei ministri sui lineamenti di politica di governo in materia di esportazione, importazione e transito dei materiali d’armamento spiccano, sostanzialmente, 3 notizie: il boom dell’export; un flusso costante sui conti correnti delle banche che operano in Italia in appoggio alle industrie della difesa; la volontà decisa della lobby armiera e dell’esecutivo di mettere mano alla legge 185 del 1990, che ha disciplinato con i paletti della trasparenza una materia così ostica come quella del commercio delle armi.

Per quanto riguarda il primo punto ce ne siamo già occupati nei giorni scorsi. Resta il dato clamoroso di una crescita che supera il 60% rispetto al 2008 (escludendo i progetti intergovernativi), con un export autorizzato di armi che sfiora i 5 miliardi di euro (4.914.056.415,83 euro). L’Africa non rappresenta la fetta principale del business armiero italiano. Ma la crescita, soprattutto nei paesi del Maghreb, è davvero imponente negli ultimi anni. Si va da un giro d’affari di poco più di 22 milioni nel 2006 ai 300 attuali (vedi tabella). E la nostra industria rifornisce paesi ad alto rischio di conflitti come l’Algeria (venduto anche del materiale inquietante come “agenti tossici, chimici, biologici e gas lacrimogeni”) e la Libia – al Nord – e la Nigeria nell’area subsahariana.

Un capitolo a sé stante merita l’attività degli istituti di credito in relazione alle transazioni bancarie in materia di esportazione-importazione e transito di materiali di armamento. Per il secondo anno consecutivo non è stata pubblicata la tabella (né parziale, né completa) che riporta le indicazioni delle singole operazioni autorizzate dal ministero dell’Economia e delle Finanze agli istituti di credito, relative all’esportazione di armi italiane nel 2009. Una tabella significativa per tutte le associazioni della società civile e per i singoli correntisti, perché consente loro di poter verificare se agli annunci di una parte del mondo bancario di abbandonare questo business corrispondono, poi, dei fatti concreti.

I pochi dati emersi dal Rapporto, che anticipa la più corposa Relazione della Presidenza del Consiglio, confermano tuttavia un trend sostanzialmente costante dei flussi finanziari di pagamento autorizzati da Roma agli istituti di credito che prestano i propri uffici per queste operazioni. Nel periodo considerato sono state autorizzate 1.628 (1.612, nel 2008)

transazioni bancarie, il cui valore complessivo è stato di circa 4.095 milioni di euro, contro i 4.285,01 del 2008. Una leggera flessione che testimonia, tuttavia, come sia ancora una manna dal cielo il mercato armiero per quel mondo finanziario in asfissia da una crisi economica che stenta a genuflettersi.

In questo contesto, rimangono assai flebili quelle voci capaci di rompere la crosta che si fa sempre più spessa della disattenzione pubblica sul tema banche armate. Perché dopo anni di timori e titubanze, gli istituti di credito, anche quelli che negli ultimi anni hanno promesso conversioni “pacifiste”, nel 2009 hanno continuato a spalancare le porte al business armato.

E per venire incontro alle esigenze di questo mondo – grandi imprese, banche, lobby politico-economica – l’esecutivo sta dichiaratamente annunciando da tempo che è giunto il momento di un bel restyling alla legge 185 del 1990, proprio in occasione del suo ventesimo compleanno. Lo stesso Rapporto è infarcito di espressioni minacciose verso quella normativa dipinta come tra le più innovative a livello continentale. Un cambio di rotta giustificato, secondo il club armato, dal cambiato quadro normativo europeo, dopo l’approvazione della direttiva che facilita il trasferimento intra-comunitario dei prodotti militari.

Così, si legge nel documento della Presidenza del Consiglio, è diventata una «necessità aggiornare l’attuale legge, salvaguardando rigorosamente i suoi principi, ma rendendola più consona alle mutate esigenze del comparto per la difesa e la sicurezza sia a livello istituzionale che industriale». È già stato istituito un gruppo di lavoro con il compito di «adeguare la normativa al processo di trasformazione del mercato della difesa».

Già disegnata la legge di domani. Meno vincoli. Meno lacci e lacciuoli. E, soprattutto, meno trasparenza.