Permesso di soggiorno a punti: approvata l’ultima follia xenofoba

di Alfred Breitman
da www.aprielonline.info, 21 maggio 2010

Qualcuno spieghi in base a quale criterio il migrante può essere punito in misura gravissima (l’espulsione lo condurrà in un Paese da cui è già fuggito, quasi sempre a causa di un’emergenza umanitaria; contemporaneamente, i suoi familiari resteranno soli in Italia, esposti a qualsiasi pericolo) in base a un regolamento che non dovrebbe avere valore giuridico? Per punire le colpe ci sono già le leggi dello Stato e i tribunali: togliere ulteriori “punti-vita” diventa una condanna la cui natura sfugge al buon senso, una condanna senza diritto alla difesa e senza giudice

E’ stato approvato al Consiglio dei Ministri il “permesso di soggiorno a punti”. Con i “punti” da assegnare e togliere agli immigrati, come facevano alcuni negrieri con gli schiavi delle piantagioni di cotone, l’Italia tocca il fondo della xenofobia. La scusa per emanare tale aborto è stata: “E’ uno strumento che esiste già in Canada”.

Non è vero, perché il soggiorno a punti canadese, elaborato dal team del ministro per l’Immigrazione Jason Kenney dopo aver ascoltato le opinioni di tutte le ong e degli specialisti nei fenomeni dell’immigrazione e della convivenza fra etnie ospitanti e migranti, è un sistema che aiuta l’immigrato a inserirsi positivamente presso la comunità ospitante, apprendendone le leggi, le usanze, la Storia, la cultura e le caratteristiche.

Il welfare canadese funziona come un orologio e chi entra nello Stato si trova davanti un percorso che lo può condurre a una piena integrazione e anche a raggiungere posizioni di grande prestigio e responsabilità. Chi invece fa fatica a comprendere il nuovo tessuto sociale, viene seguito e sostenuto; in particolare i bambini e l’uinità dela famiglia sono in cima al novero delle attenzioni da parte delle Istituzioni.

In Italia avviene il contrario e manca completamente un sistema di welfare, sostituito dalla demagogia intollerante, come se i programmi di integrazione togliessero qualcosa alla cittadinanza. Il percorso a punti diventa quindi un micidiale calvario e a ogni “stazione” il migrante si trova a temere di perdere ogni diritto. Qui da noi tutto è ostile, per lo straniero.

Mentre una Direttiva europea fissa a dieci anni il periodo massimo di permanenza in uno Stato per ottenere la cittadinanza, per esempio, da noi i dieci anni devono essere di residenza e le autorità controllano che tale periodo sia trascorso esaminando i certificati storici di residenza, senza tenere conto che per uno straniero, specie se povero, è quasi impossibile avere sempre casa con regolare contratto, lavoro con regolare assunzione, tessera sanitaria ecc.

Ma anche nel caso miracoloso che i dieci anni siano dimostrabili, dal momento della domanda, che si può presentare solo allo scadere del decimo anno di residenza, all’accettazione della stessa passano altri quattro anni. Se si considera che durante il primo anno di permanenza nessuno ottiene la residenza, occorrono minimo 15 anni, in Italia e da nessun altra parte nel mondo, per avere la cittadinanza.

Per non parlare del permesso di soggiorno, il cui rinnovo è sempre una tappa tragica per l’immigrato. Basta perdere il lavoro o non riuscire a trovare casa con affitto regolare (per gli stranieri l’abitabilità è quasi una chimera e i requisiti richiesti scoraggiano i proprietari dall’affittare loro gli appartamenti) per diventare in un amen “clandestini” e quindi, in basa alla Legge 194, criminali, soggetti a retate, arresto, detenzione fino a sei mesi nei Cie (carceri-lager per immigrati) ed espulsione.

Ma torniamo ai “punti”, che in Italia sono veri e propri “punti-vita”, come nei giochi di ruolo e nei videogame. Qualcuno spieghi in base a quale criterio il migrante può essere punito in misura gravissima (l’espulsione lo condurrà in un Paese da cui è già fuggito, quasi sempre a causa di un’emergenza umanitaria; contemporaneamente, i suoi familiari resteranno soli in Italia, esposti a qualsiasi pericolo) in base a un regolamento che non dovrebbe avere valore giuridico?

Per punire le colpe ci sono già le leggi dello Stato e i tribunali: togliere ulteriori “punti-vita” diventa una condanna la cui natura sfugge al buon senso, una condanna senza diritto alla difesa e senza giudice. Inoltre, mettere nelle mani di insegnanti di lingue (magari leghisti), vigili urbani, forza pubblica e chissà chi altri il destino di uomini, donne e bambini è una grave violazione della Costituzione e delle Carte sui diritti fondamentali.

Ma vi è una cosa che va ripetuta e sottolineata mille volte: chi viene punito fino a ritrovarsi a zero punti, viene espulso e il provvedimento colpisce anche i figli (che restano senza sostegno o sono costretti a tornare in Paesi dove esiste crisi), la moglie (o il marito), le persone per cui lo straniero lavora (si pensi a una badante).

Quando mogli e figli restano in Italia da soli, rimangono loro la prostituzione o la schiavitù per sopravvivere. A questo proposito, i casi di donne costrette a “prestazioni speciali” in cambio di assunzione (o di una casa con regolare contratto di affitto) sono ormai la regola, visto che il permesso di soggiorno è diventato vitale.

La legislazione e i provvedimenti riguardanti l’immigrazione in Italia sono folli. Il soggiorno a punti è solo l’ultima sadica e scriteriata invenzione di un potere xenofobo, dettato nelle sue linee da puro odio razziale e da cancellare, prima che qualcuno, irresponsabilmente, lo prenda a modello fuori dall’Italia.

La legge 194 sull’immigrazione sta producendo a propria volta effetti devastanti; persone lungosoggiornanti -protette da una Direttiva europea contro la discriminazione – vengono imprigionate nei terribili Cie ed espulse se perdono il permesso di soggiorno, magari dopo vent’anni che vivono qui (è successo).

Certo, un giorno l’Italia si vergognerà di ciò che ora accade, ma sarebbe tempo di vergognarsi e fare qualcosa adesso, avvalendosi, per creare leggi giuste e rispettose della dignità e della vita di tutti, del patrimonio di esperienza di cui dispongono gli specialisti nel campo dei Diritti Umani, gli studiosi dell’immigrazione, del razzismo e dei fenomeni persecutori, nonché gli operatori umanitari.
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La guerra agli ultimi

di Rosa Ana de Santis
da www.altrenotizie.org, 14 maggio 2010

La domanda é: sono delinquenti perché clandestini o clandestini perché delinquenti? La risposta forse l’ha fornita il Sindaco di Milano, Letizia Moratti, con le dichiarazioni xenofobe rilasciate al convegno “Per un’integrazione possibile”. Le parole della Moratti interpretano bene gli umori nazionali e, a sprezzo di tanta cronaca che pure avrebbe dovuto indicare diversi percorsi d’interpretazione del fenomeno, insistono come un’ossessione sul tema del reato di clandestinità. L’espulsione immediata di quanti sono irregolari e l’equazione di fondo tra irregolarità e delinquenza non tiene conto di alcuna attenta osservazione su quanto accade nel nostro Paese.

Chissà se la Moratti, quando parla di delinquenti stranieri in quanto clandestini, pensa alle domestiche che quasi tutte le famiglie hanno in casa, o non stia piuttosto pensando agli schiavi di Rosarno, o magari agli operai nordafricani arrampicati nel vuoto delle gru delle imprese edili del bresciano.

La clandestinità diventerebbe così il reato per eccellenza e l’espulsione immediata la panacea dei nostri mali. Nessuna valutazione degli effetti che questo avrebbe sull’economia italiana che ha imparato in fretta a guadagnare anche da questo sommerso venuto dal mare; soprattutto nessuna lettura sistemica di un fenomeno che va oltre i confini nazionali e che non potrà mai essere risolto in modo unilaterale e soltanto coercitivo da un paese lanciatosi, in modo schizofrenico, tra l’avventura europeista e la rivendicazione autarchica dei confini.

L’immigrazione è uno dei risultati delle politiche economiche planetarie che hanno acuito tremendamente il già eccessivo divario tra Nord e Sud del mondo. Se il 20% del pianeta consuma l’80% delle risorse la colpa non può essere delle vittime di questo sconcio che cercano solo di sopravvivere. Il problema degli stranieri c’è come c’è in tutti i paesi che sono diventati mete di questo esodo continuo di poveri. In Italia, aldilà del terrorismo padano, non siamo ancora al caso delle banlieu parigine, teatri delle rivolte degli stranieri.

Non siamo ancora alla coincidenza esplosiva tra degrado e immigrazione, alla consacrazione ufficiale dei ghetti e delle gang e, proprio per questo, la politica dovrebbe lavorare alla prevenzione di questi fenomeni degeneranti che andranno ad aggravare la situazione delle periferie urbane, già impastate di malavita e ulteriormente fiaccate dalla povertà dell’ultima crisi.

Ma gli stranieri in Italia lavorano. A nero, precari e sfruttati, ma in larga parte hanno un accesso al lavoro. La seconda generazione d’immigrati, inoltre, non è ancora così numerosa e l’integrazione potrebbe avvenire sotto minor pressione sociale che non in altri paesi europei. Il quadro del paese non è, ad oggi e numeri alla mano, quello dell’assedio permanente che denuncia la destra o la Lega Nord.

L’incognita del futuro ha certamente bisogno di misure politiche preventive forti e non della rimozione e della cancellazione dei migranti come elemento di fastidio o di disturbo. L’impresa, peraltro fallimentare, di cancellare i migranti, andrebbe piuttosto gestita dalla politica e non chiusa in carcere dalla polizia. Solo questo permetterà di cavalcare l’emergenza assecondando quella che sarà nella storia un’inevitabile e necessaria metamorfosi del nostro paese e della nostra stessa categoria di nazionalità.

A questo ci si prepara, a partire dai banchi scuola, invece di partorire la ghettizzazione delle classi ponte. Non togliendo il diritto di cura agli stranieri con la minaccia della denuncia. A questo ci si prepara con la comprensione che la clandestinità è una condizione speciale della cittadinanza e non la perdita dello status di cittadinanza o, addirittura, il pretesto per la cessazione dei diritti individuali come qualche fattaccio tricolore ha dimostrato. Le parole di qualche solerte sindaco leghista, l’assassinio di Abdul a Milano, i vigili di Parma e le botte a Emmanuel. Per tutti clandestini, senza che nemmeno lo fossero.

Ma su tutti il caso paradigmatico è quello di Rosarno. Venduto ai giornali come la rivolta di stranieri violenti non era altro che la protesta di nuovi schiavi, manovalanza del noto e tradizionale male italiano: gli affari della mafia e la loro convivenza pacifica con la società civile e con le istituzioni. Di questo si trattava e non di neri o di stranieri facinorosi.

L’immigrazione esaspera mali già presenti. Acuisce ferite che già abbiamo addosso. Non è certamente soltanto esotismo e curiosità culturale. L’integrazione è un travaglio sociale. Ma l’opposizione ad essa è la garanzia scientifica di un paese che non avrà futuro. Iniziare a parlare dello Ius soli (diritto per nascita) e della fine dello status di cittadinanza legato al sangue, significa aprire la mente a un nuovo mondo di pensare l’Italia e gli Italiani. Dove l’inclusione diventi il cardine della nuova cittadinanza. Questo salverà la legge e impedirà che la condanna quasi mistica alla condizione dell’illegalità diventi il simbolo di un marchio antropologico sulla condizione di vita degli stranieri.

Stranieri come a voler dire fuori dalla società. E’ questo esonero e questa vacanza in una condizione indefinita del diritto, il marchio che trasforma la condizione dello straniero nella vita di un paria che per nascita rimane fuori dalla sistema sociale. Le banlieu iniziano così. Il degrado imposto e interiorizzato diventa nel tempo una pericolosa alleanza di condivisione. Terre senza Stato per nessuno, squallide e dimenticate, attaccate alle porte delle case dorate.