Quando la chiesa e gli uomini si confrontano con la colpa

di Vito Mancuso
da la Repubblica, 20 maggio 2010

«Confesso a Dio onnipotente e a voi fratelli che ho molto peccato». Queste parole, seconde solo al saluto del celebrante e alla relativa risposta, si trovano all´inizio della messa cattolica. La liturgia in questo modo fa sì che ogni fedele percepisca se stesso anzitutto come peccatore, anzi, come uno che ha “molto” peccato. Le occasioni nella vita del resto non mancano, sono “pensieri, parole, opere e omissioni”, e più ci si avvicina alla luminosa sorgente del bene, più si percepisce il male che opprime la coscienza.

Forse per questo Søren Kierkegaard, dando voce a una tradizione millenaria, scriveva nell´Esercizio del cristianesimo del 1850 che «l´unica porta d´ingresso al cristianesimo è la coscienza del peccato”, non senza aggiungere di suo che lo scrupolo è «una categoria eminentemente cristiana».

Io non sono d´accordo con questa impostazione, detta tecnicamente amartiocentrismo (amartía è l´equivalente greco di peccato), ma non posso fare a meno di notare che essa ha avuto e continua ad avere un largo seguito sia nel cattolicesimo sia nel protestantesimo dove, ben prima di Kierkegaard, Lutero insegnava “pecca fortiter sed crede fortius” (pecca forte, ma più forte credi) legando all´esperienza del peccato lo stesso atto di fede.

Contro questo cristianesimo della vita, nella vita, nella salute e nella forza». Ciononostante l´esperienza del peccato permane, perché la terra promessa da Nietzsche di una vita al di là del bene e del male, non esiste. Per noi uomini tutto, qui e ora, è “al di qua” del bene e del male. C´è una politica buona e una politica che non lo è. C´è un´economia buona, e una che non lo è. C´è una cronaca buona, e una che non lo è.

A partire dalle più elementari esperienze della vita quali l´aria che respiriamo, l´acqua che beviamo e il cibo che mangiamo, fino alle più elevate produzioni della mente, tutto ciò che procede e ritorna alla vita dell´uomo è sempre invalicabilmente “al di qua” del bene e del male. La libertà dell´uomo esiste, ed esistendo opera, e quindi può agire bene oppure male in ogni dimensione del vivere.

Volenti o nolenti, siamo rimandati all´esperienza del peccato. Il concetto di peccato infatti è sorto nella coscienza etica e spirituale di tutta l´umanità in seguito allo sforzo della mente di catalogare le azioni che contribuiscono alla diminuzione del grado di ordine (armonia, salute, bene) in relazione agli altri e a se stessi. Si spiegano così gli elenchi dei peccati e i cataloghi dei vizi che il pensiero ha stilato, ragionando ora secondo l´oggetto come avviene nel caso dei peccati (omicidio, furto, adulterio…), ora secondo la disposizione soggettiva come nel caso dei vizi (ira, gola, lussuria…).

Si aprirebbe a questo punto una questione senza fondo: perché, così spesso, l´uomo è attratto non dal bene ma dal male, non dall´ordine ma dal disordine? Fin dalla notte dei tempi questo interrogativo incombe sul pensiero. La dottrina cattolica vi risponde mediante il dogma del peccato originale, che ha il merito di segnalare il problema ma il demerito ben maggiore di presentare una soluzione teoreticamente insufficiente e moralmente indegna. Ha scritto Kant al riguardo nel suo mirabile saggio sul male radicale nella natura umana del 1792: «Qualunque possa essere l´origine del male morale nell´uomo, non c´è dubbio che… il modo più inopportuno è quello di rappresentarci il male come giunto fino a noi per eredità dei primi progenitori».

Rimane da chiedersi come la coscienza contemporanea percepisca oggi il peccato, e come possano anche i non credenti arrivare lo stesso a dire “confesso a voi fratelli che ho molto peccato”. Penso infatti che il ritrovarsi inadempienti di fronte all´imperativo etico sia inevitabile in chiunque conosca se stesso e che la percezione delle proprie colpe abbia precise implicazioni sociali. Penso altresì, però, che la dimensione giuridica che ritrascrive il peccato mediante il concetto di reato non sia sufficiente a esprimere tutta la densità umana del fenomeno. Come la legalità è solo una pallida immagine della giustizia, così lo è il concetto di reato rispetto alla tensione che manifesta la coscienza del peccato. Forse chi ha espresso al meglio questa dialettica è stato Dostoevskij in Delitto e castigo, il romanzo che nel 1866 inaugura il ciclo narrativo che l´ha reso immortale.