Iran. Il pericolo di una democrazia made in Usa

di Mostafa El Ayoubi
da www.confronti.net, giugno 2010

A un anno dalla rielezione del presidente Ahmadinejad, non si parla più delle proteste di quella che è stata definita l’«onda verde». Il movimento è stato indebolito anche da chi l’ha cavalcato in modo strumentale: soprattutto gli Stati Uniti, per interessi strategici legati al controllo della regione del Golfo Persico.

È passato ormai un anno dalle tanto discusse elezioni presidenziali in Iran che hanno riconfermato Ahmadinejad per un secondo e ultimo mandato. L’esito di quella consultazione elettorale fu fortemente contestato da decine di migliaia di cittadini scesi in piazza contro il regime accusato di brogli elettorali. Le poche immagini che giungevano da Teheran, a causa della censura, mostravano le strade della capitale colorate di verde, colore simbolo del movimento di protesta battezzato «onda verde».

I manifestanti speravano in una svolta politica, dopo un trentennio di regime teocratico. Ma la rivoluzione «colorata» non ha avuto l’esito sperato da molti iraniani – giovani soprattutto – che rivendicavano libertà, diritti e democrazia. Oggi di quella «onda verde» non si sente quasi più parlare. È stata indebolita da coloro che l’hanno strumentalmente cavalcata: da un lato il regime, dall’altro lato le potenze occidentali – Usa in testa – che da 31 anni tramano la destabilizzazione dell’establishment sciita perchè non garantisce loro il controllo dell’Iran, paese strategico nella regione del Golfo Persico.

La strumentalizzazione dall’interno rimanda all’eterno scontro politico in seno al potere clericale sciita. Uno scontro iniziato dopo la scomparsa dell’imam Khomeini. Una spietata lotta per il potere che regolarmente torna a galla in occasione delle consultazioni elettorali. Le cicliche crisi politiche sono sintomi di fragilità, non del sistema in quanto teocrazia. È una fragilità interna al sistema dovuta alla lotta tra fazioni opposte per guidare la teocrazia stessa.

Nelle elezioni presidenziali del 1997, Nategh Nouri – candidato sostenuto dalla guida suprema Ali Khamenei – fu sconfitto da Mohammed Khatami. Khamenei accettò il voto popolare a favore del suo «avversario»; ma lo scontro intra-clericale fu solo rimandato. Sul versante esterno, gli Usa consideravano Khatami il politico «liberale» che avrebbe portato l’Iran su una posizione vicina ai loro interessi. Ma non fu così; quindi bisognava cambiare strategia: intensificare le attività dell’intelligence per destabilizzare l’intero regime degli ayatollah.

Bisogna ricordare che sin dall’avvento della rivoluzione islamica nel 1979, l’Iran è sempre stato nel mirino della Casa Bianca. Nel 1980 Washington appoggiò Saddam Hussein nella sua guerra contro l’Iran (già sotto sanzioni economiche). Una guerra durata otto anni e vinta politicamente dagli iraniani. Da allora l’influenza dell’Iran nel Golfo Persico e nel Medio Oriente è cresciuta notevolmente. Ciò ovviamente è diventato un problema serio per gli Usa, per Israele e per i governi arabi a stramaggioranza sunnita (che temono l’egemonia degli eterni nemici sciiti).

Come controllare allora il regime di Teheran? La soluzione militare non è praticabile. L’Iran non è né l’Iraq né l’Afghanistan. Una guerra sarebbe fatale per gli americani e i loro alleati. Allora bisogna ricorrere al vecchio trucco: divide et impera. Lo strumento è quello della cosiddetta «rivoluzione colorata», già sperimentata con successo in altri contesti. Esso consiste nell’innescare dall’interno un meccanismo di destabilizzazione del governo «nemico» sostenendo economicamente, logisticamente e mediaticamente l’opposizione «amica», con il pretesto di avviare un processo di democratizzazione del paese.

Ma lo scopo vero è che l’opposizione, destinata, attraverso tale «rivoluzione», a prendere possesso del potere in veste di governo democratico, serve come cavallo di Troia per impossessarsi del paese. Oltre alla Cia, vi sono organismi che sotto copertura intervengono in questo tipo di operazione. La National endowment for democracy, ong finanziata dal governo americano, si presenta come un’organizzazione di «promozione della democrazia». Il suo ruolo è stato determinante nella «rivoluzione dei tulipani» del 2005 in Kirghizistan, in quella «delle rose» in Georgia nel 2003 e così via. Con l’Iran, però, il trucco non ha funzionato.

Hillary Clinton ha dichiarato, l’estate scorsa, che «gli Usa hanno sostenuto l’opposizione iraniana» durante le elezioni e «continueranno a farlo nel futuro per rovesciare Ahmadinejad». Ci sono certamente milioni di iraniani che reclamano uno stato democratico; dopo quelle elezioni di giugno, molti di loro sono genuinamente scesi in piazza – con la fascia verde in testa – per rivendicare il loro diritto alla libertà e alla giustizia economica e sociale. Essi però di sicuro non fanno parte di quell’opposizione che gli Usa e altri paesi occidentali sostengono, ovvero una piccola minoranza, espressione della borghesia «liberale». Una minoranza attraverso la quale gli americani sperano di riportare l’Iran nella loro orbita come ai tempi dello scià. Una prospettiva disastrosa per il popolo iraniano nella sua maggioranza. E le drammatiche esperienze dell’Iraq e dell’Afghanistan insegnano: attenzione alla democrazia «made in Usa»!
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Donne e giovani protagonisti del movimento. Intervista ad Ahmad Rafat

a cura di Gian Mario Gillio
da www.confronti.net

Il movimento verde – spiega il fondatore dell’associazione Iniziativa per la libertà d’espressione in Iran – non è ideologico, ma è nato intorno a delle richieste come diritti umani, maggiore democrazia e maggior equità sociale ed economica. Comprende dai monarchici ai religiosi, con tutto quello che è in mezzo, ed ha forti componenti laiche.

Può spiegarci come funziona istituzionalmente l’Iran? Quanto conta la religione nella gestione politica del paese?
Secondo l’attuale costituzione della Repubblica islamica il Valieh Faghi, o guida suprema (che attualmente è l’ayatollah Ali Seyyed Khamenei), ha l’ultima parola più o meno su tutto. È il capo delle forze armate, decide le strategie in politica estera, sceglie in base alle proposte del presidente i nominativi dei ministri chiave del gabinetto, come il ministro degli Esteri, degli Interni, dell’Intelligence, dell’Economia e della Difesa. Può mettere il veto su ogni legge approvata dal governo o dal parlamento, nomina il capo dell’autorità giudiziaria, il capo della radiotelevisione di Stato, il capo sia della milizia dei pasdaran che dei basiji, il corpo paramilitare formato da volontari, nonché i vertici delle forze armate regolari.
L’ayatollah Khamenei non risponde a nessuno; c’è l’assemblea degli esperti che potrebbe revocare il suo mandato e rimuoverlo, ma solo in casi particolari: per esempio, se la guida suprema fosse malata e non più in grado di guidare il paese. Di fatto il presidente e gli altri incarichi sono di natura esecutiva e hanno una autonomia molto limitata. La religione nella Repubblica islamica conta moltissimo, nessuna legge può essere approvata dal Parlamento se è in contrasto con i dettami dell’islam.

Chi è Ahmadinejad? È lui che dirige il paese?
Fino a prima di essere eletto sindaco di Teheran, Ahmadinejad era un personaggio del tutto sconosciuto. Era stato governatore di una regione ma nulla di più. È considerato da tutti l’uomo dei pasdaran, che attualmente sono alleati con il settore più conservatore e radicale del clero sciita. Non sembrava all’inizio possedere una propria personalità, ma più che altro sembrava essere un «pupazzo» dietro cui si nascondevano la guida suprema e i pasdaran.
Personalmente credo però che Ahmadinejad sia più di questo, pur se è giunto al potere grazie a questa alleanza del clero con i militari. Ahmadinejad si presenta e fa parte di un settore militare molto vicino ai religiosi che credono nella mahdavihat, cioè nell’arrivo del mahdi, del messia. E lui stesso – se leggiamo i suoi messaggi, i suoi discorsi, quando è in viaggio per organismi internazionali come le Nazioni Unite – sempre parla di sé come qualcuno che è giunto al potere per preparare l’arrivo del messia. Proprio questo fa di lui un personaggio pericoloso.

Perché una parte della società civile si ribella a questo Stato teocratico? Quali sono le accuse?
Credo che la domanda sia posta male: non una parte della società civile, ma quasi l’intera società civile si oppone allo Stato teocratico. La gente, soprattutto in un paese con il 70% della popolazione sotto i 35 anni, che quindi non ha voluto e sostenuto la rivoluzione islamica, si trova a fare i conti con qualcosa che era già lì. E i giovani dicono di non voler vivere in un mondo chiuso, con leggi provenienti da un passato lontano, soprattutto adesso che con le nuove tecnologie, pur non potendo viaggiare facilmente all’estero, sono a conoscenza di ciò che accade fuori dai confini del paese, di come vivono i loro coetanei. Diceva un giovane iraniano: «Per noi internet è il paese reale, il mondo virtuale è quello dove siamo costretti a vivere». A questo si aggiungono le condizioni economiche di un paese ricchissimo, che ha diverse migliaia di persone costrette a vivere sotto la soglia di povertà con una forte disoccupazione e un’inflazione galoppante. Soprattutto con una disoccupazione giovanile e intellettuale. Pertanto questi giovani accusano il governo di essere incapace di soddisfare le loro richieste e richiedono qualcosa di più moderno in grado di provvedere ai loro bisogni.

Il movimento giovanile dell’onda verde, nato dopo le elezioni del 2009, è stato ritenuto simbolo di democrazia, per altri invece è stato ritenuto poco efficace.
Non so cosa si intenda con poco efficace, forse perché in 4 mesi con 10 manifestazioni non è riuscito a rovesciare un regime armato fino ai denti. Ma nessuno se lo aspettava. L’onda verde è esplosa dopo le elezioni, dopo che il voto espresso dalla popolazione è stato scippato, ma le ragioni per cui questa onda verde è esplosa vanno viste nella storia e nella politica degli ultimi 30 anni, dal 1979, quando la rivoluzione khomeinista ha rovesciato la monarchia e ha portato alla nascita della repubblica islamica. 31 anni di incapacità di un sistema di soddisfare le esigenze della popolazione, di rispondere alla popolazione. Queste sono le ragioni per cui serpeggiava da anni un malcontento nel paese: hanno cercato di porvi rimedio votando per un presidente riformista (Khatami), ma senza successo, sono ricorsi nuovamente alle urne nel 2009, sperando di poter ottenere senza ricorrere alla violenza un cambiamento, ma non è stato possibile. Il regime non è stato disposto ad ascoltare la gente e la gente è scesa per le strade. È un processo lungo, ma in ogni caso, qualunque sia l’esito, la Repubblica islamica dell’11 giugno non ci sarà mai più. Oggi nel paese si sono create due fratture, una orizzontale e una verticale. Quella orizzontale vede la società civile da una parte e un governo militar-teocratico dall’altra. E questa ha le sue origini nelle rivolte di dieci anni prima, quelle del 9 luglio 1999, quando sotto la presidenza Khatami i giovani si sono riversati nelle strade chiedendo maggiore libertà e democrazia, rivolte poi soffocate nel sangue. Ma dieci anni dopo noi assistiamo a una seconda frattura, quella verticale, che divide una parte di quelli che hanno governato il paese per i primi 30 anni dagli altri. Una frattura che sembra insanabile, perché chi si è schierato con l’onda verde non credo possa fare marcia indietro: in questi 9 mesi sono successe tante cose che non lasciano più margine a una ricomposizione della gerarchia che per i primi 30 anni ha guidato il paese.

Il movimento verde è nonviolento, l’arresto di molti oppositori avviene esclusivamente sulla base di opinioni politiche, qual è lo stato attuale delle persone detenute e cosa avviene nelle carceri?
Il movimento verde ha varie caratteristiche, una delle quali è quella di essere nonviolento, di voler cambiare le cose senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Pertanto le ultime condanne a morte riguardano uno studente che ha mostrato un cartello con scritto «via il dittatore dal politecnico» durante la visita del presidente Ahmadinejad, oppure un manifestante ritratto da una foto fatta dagli agenti dell’intelligence iraniano con una pietra in mano, senza che sia chiaro se l’abbia tirata o no, o altre persone perché hanno partecipato alle manifestazioni. Non si sa quante persone siano state arrestate, c’è chi dice 8.000, chi 13.000. Di sicuro si sa che i giornalisti in carcere che sicuramente non hanno fatto ricorso alla violenza sono 52, le attiviste femministe detenute sono 40, gli studenti sono più di 300 e poi altri semplici cittadini come registi, musicisti e avvocati e tutte le persone che hanno espresso le loro opinioni senza ricorrere ad alcuna forma di violenza. Nelle carceri sono sottoposti a tortura psicologica, fisica, violenze sessuali e per la prima volta gli abusi sessuali sono stati denunciati da esponenti del regime ed è stata formata una commissione parlamentare che, come era prevedibile, ha dichiarato che non ci sono state violenze; ma ugualmente si è tenuto un processo contro alcuni agenti carcerari, un po’ per placare gli animi.

Chi è il leader dell’opposizione al regime teocratico?
Una delle caratteristiche del movimento verde è quella di non avere un leader, ma semplicemente dei personaggi di riferimento. Mousavi era il candidato presidenziale, non il leader dell’opposizione; lo stesso si può dire di Karrubi. Infatti lo slogan principe dell’onda verde è «Ogni soldato è un generale, ogni generale un soldato». E questo lo hanno sottolineato più volte gli stessi Mousavi, Karrubi e Khatami, i quali non vogliono la leadership perché questo movimento non riconosce i padroni. Questo movimento non è ideologico, ma è nato intorno a delle richieste come diritti umani, maggiore democrazia e maggior equità sociale ed economica. Comprende dai monarchici ai religiosi, con tutto quello che è in mezzo, ed ha forti componenti laiche. Molte decisioni vengono prese in forum virtuali: una piazza virtuale, internet, dove si riuniscono i giovani e le donne, che sono i veri protagonisti di questo movimento.

Ritiene che ci possa essere davvero il rischio di un armamento nucleare iraniano, con l’epilogo di un attacco ai danni di Israele?
Non credo che il nucleare iraniano serva ad attaccare Israele o serva ad essere utilizzato. Oggi possedere un’arma nucleare significa sedersi al club dei grandi e diventare intoccabili. Ed è questa la ragione per cui l’Iran non è disposto e non può rinunciare al nucleare considerandosi una potenza regionale. Io non credo che l’Iran segua un programma nucleare solo ad uso pacifico e non militare, altrimenti non si spiegherebbe il programma missilistico del paese, che si è dotato di missili di varie gittate: tutte capaci di caricare testate nucleari. Del resto, il programma nucleare iraniano parte nel 1975, 4 anni prima della caduta dello scià, ed anche allora aveva un doppio scopo: quello civile ma soprattutto quello militare. La differenza tra prima e oggi è che allora il programma nucleare iraniano era sostenuto dai paesi occidentali e ostacolato dal blocco sovietico, mentre oggi si sono invertite le parti: il vecchio blocco comunista – Cina, Russia, Corea – sostiene il programma nucleare, mentre ad opporsi sono Israele Stati Uniti e Unione europea.
Il nucleare credo che sia un falso problema perché anche se l’Iran, per le pressioni ricevute, potrà fermare il programma per un periodo, questo non è da considerarsi una rinuncia; ma il problema è che chi governa l’Iran ha il dito sul bottone. Credo che sarebbe molto meglio se ci fosse un Iran che non faccia paura, come il caso dell’India e del Pakistan o Israele stesso, piuttosto che bombardare i siti nucleari, che possono essere ricostruiti. Quindi sarebbe meglio intervenire per rendere l’Iran più democratico, e far sì che non rappresenti un pericolo, piuttosto che far fermare il progetto nucleare.

Le sanzioni economiche possono indebolire il regime?
Le sanzioni applicate solo parzialmente, che riguardano l’economia domestica, non hanno efficacia, perché quando diventano efficaci allora a pagare è la popolazione, e le esperienze precedenti dimostrano che sono necessari moltissimi anni perché siano veramente efficaci e mettano in ginocchio un’economia di un paese; nel frattempo l’Iran di Ahmadinejad avrà già costruito la bomba atomica e queste sanzioni non avrebbero altro scopo che colpire una popolazione già vittima dell’inflazione. Se per sanzioni intendiamo quelle che mettono con le spalle al muro il governo, l’industria statale e l’industria petrolifera, allora sì che possono essere efficaci.