Il gigante impotente

di Stefano Rizzo
da www.aprileonline.info, 1 giugno 2010

L’esercito degli Stati Uniti è presente in almeno cinquanta paesi, le sue flotte navigano in tutti i mari e gli oceani, i suoi satelliti militari circondano la terra con una rete di sorveglianza che non ha eguali, i suoi missili e bombardieri atomici sono pronti a colpire qualunque angolo del pianeta in pochi minuti. Con tutto ciò gli Stati Uniti sono un gigante impotente. Tre eventi di questi giorni, di natura assai diversa, ne danno una rappresentazione plastica

Gli Stati Uniti sono il paese più potente del mondo. Con una popolazione che è un ventesimo di quella mondiale il suo prodotto interno lordo costituisce oltre il 20 per cento di quello dell’intero pianeta. La sua tecnologia, la sua scienza sono il traino della ricerca e della innovazione in tutto il mondo e attirano tecnici e scienziati di ogni nazionalità. La sua potenza militare in termini di spesa è approssimativamente uguale a quella di tutti gli altri paesi del pianeta messi insieme, ma in termini di potenza di fuoco e di distruzione, di capacità di intervento, è di gran lunga superiore.

L’esercito degli Stati Uniti è presente in almeno cinquanta paesi, le sue flotte navigano in tutti i mari e gli oceani, i suoi satelliti militari circondano la terra con una rete di sorveglianza che non ha eguali, i suoi missili e bombardieri atomici sono pronti a colpire qualunque angolo del pianeta in pochi minuti. Con tutto ciò gli Stati Uniti sono un gigante impotente. Tre eventi di questi giorni, di natura assai diversa, ne danno una rappresentazione plastica.

Sono settimane che da una piattaforma esplosa nel golfo del Messico sgorgano milioni di barili di petrolio, la peggiore catastrofe ambientale di tutti i tempi, se si esclude il meteorite che milioni di anni fa provocò la grande glaciazione. L’onda nera si è già propagata per centinaia di migliaia di chilometri quadrati uccidendo la fauna e la flora acquatica e si sta riversando sulle coste meridionali degli Stati Uniti. Arriverà tra poche settimane la stagione dei grandi uragani che spargeranno il petrolio su tutto l’Atlantico e probabilmente, portato dalla corrente del Golfo, fino in Europa.

Il governo americano ha dovuto ammettere di non avere né la tecnologia né i mezzi per intervenire. Per questo si è affidato alla compagnia petrolifera che ha provocato il disastro, ma anche quella non sa come risolvere il problema e anche se e quando ci riuscirà gli effetti sull’ecosistema dureranno decenni. Mentre il mondo sta a guardare, gli americani sono sgomenti di fronte a questa manifestazione di impotenza (oltre che di mancanza di preveggenza); per la prima volta nella loro storia sono costretti a prendere atto che tutta la scienza e la tecnologia in cui eccellono non sono sufficienti. (Per la verità non è la prima volta: è dalla guerra del Vietnam che l’illusione tecnocratica del “problem solving” si scontra con la dura realtà.)

Secondo episodio. Alla fine di marzo un missile sparato da sottomarino nordcoreano ha affondato una corvetta sudcoreana uccidendo 46 marinai. Gli Stati Uniti, alleati della Corea del Sud e presenti in quel paese con decine di migliaia di soldati, hanno protestato e minacciato la Corea del Nord di “gravi conseguenze”. La tensione tra le due Coree è alle stelle e il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite è stato investito della questione. Ma probabilmente non se ne farà nulla e l’incidente verrà presto archiviato come l’ennesimo episodio del conflitto che da oltre 55 anni, cioè dalla fine della guerra del 1950-1953, contrappone le due Coree.

La ragione? Per fare approvare le sanzioni gli Stati Uniti hanno bisogno dell’appoggio della Cina, che però non sembra affatto intenzionata a punire il suo alleato di sempre, la Corea del Nord, e in ogni caso intende svolgere direttamente e senza interferenze americane il ruolo di egemone regionale che, grazie alla sua nuova potenza economica, ritiene le spetti.

D’altro canto, il fatto che probabilmente la Corea del Nord possieda alcuni ordigni nucleari, oltre alla capacità missilistica di portarli a segno, dissuade sia gli Stati Uniti che la Corea del Sud da intraprendere un’azione di rappresaglia. Il risultato è che anche di fronte a questa grave crisi il gigante americano è impotente, incapace di tradurre tutta la sua immensa forza militare e tutto il suo peso economico nella capacità di proteggere un suo alleato o anche solo di esercitare una credibile funzione di leadership per prevenire nuovi conflitti.

Terzo episodio. L’assalto israeliano alla flottiglia che stava cercando di raggiungere le coste di Gaza per portarvi aiuti umanitari. L’attacco, che ha provocato nove morti, decine di feriti e l’arresto di centinaia di persone, è stato duramente criticato da quasi tutti i paesi del mondo. Non dagli Stati Uniti, che si sono limitati a chiedere che si faccia piena chiarezza sul gravissimo episodio (e già questo è moltissimo rispetto alla linea seguita in passato dai governi americani). L’opinione del governo americano dovrebbe contare qualcosa per il governo israeliano dal momento che Israele è il principale alleato degli Stati Uniti in Medioriente e, in assoluto, il primo destinatario di aiuti economici e di forniture militari. Di fatto, sono gli Stati Uniti che garantiscono la sopravvivenza dello stato israeliano e la capacità di difesa (e di offesa) del suo esercito.

Ora, non c’è dubbio che l’attuale politica israeliana danneggi gli Stati Uniti. L’ostinato rifiuto di Israele a concludere accordi di pace con i palestinesi, se non a condizioni per essi inaccettabili, impedisce agli Stati Uniti di normalizzare i propri rapporti con il mondo arabo, dando concretezza all’offerta di dialogo avanzata da Obama fin dal suo insediamento. Dell’appoggio del mondo arabo gli Stati Uniti hanno bisogno per risolvere il contenzioso sul nucleare iraniano, per portare a termine il ritiro dall’Iraq senza che esploda nuovamente una guerra civile, e per portare a buon fine (o a una fine qualunque) la guerra in Afghanistan. L’attacco israeliano, che ha coinvolto per la prima volta una nave turca, invece in un colpo solo accresce le difficoltà degli Stati Uniti con un prezioso alleato nella Nato e con il principale paese mussulmano del Mediterraneo, l’unico vicino all’Occidente.

Nonostante la pace – o se non la pace, almeno comportamenti responsabili — in Medioriente sia nell’interesse degli Stati Uniti, il governo americano sembra del tutto impotente anche solo ad indicare un credibile percorso per raggiungerla. Le ragioni in questo caso sono essenzialmente politiche e non geostrategiche: il fatto che l’appoggio della componente ebraica dell’elettorato è stato determinante per l’elezione dell’attuale presidente, così come lo sarà a novembre per l’elezione di molti parlamentari democratici.

La conclusione è che né la tecnologia, né la forza militare, né il peso economico — tutti elementi nei quali gli Stati Uniti eccellono – sono sufficienti per dare al governo americano la leadership diplomatica e consentirgli di svolgere un ruolo decisivo sulla scena internazionale. Il mondo è davvero diventato (o ridiventato) multipolare, e ne stiamo ora vedendo le conseguenze.
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La dottrina di Obama

di Eugenio Roscini Vitali
da www.altrenotizie.org, 30 maggio 2010

Giovedì 27 maggio il presidente americano Barak Obama ha presentato al Congresso e alla nazione il documento riguardante la stragia sulla sicurezza nazionale, un atto che sostanzialmente sancisce una linea di continuità con il suo predecessore, George W. Bush, e ribadisce la volontà americana di «mantenere la superiorità militare che per decenni ha garantito la sicurezza nazionale e sostenuto la sicurezza globale».

Pur avendo identificato nei cosiddetti “terroristi cresciuti in casa” il nuovo nemico interno, l’inquilino della Casa Bianca non ha proposto eccessive novità e si è limitato a cambiamenti puramente linguistici. Nel documento non si parla più di una “guerra contro il terrore”, ma di una guerra contro Al-Qaeda; non ci si appella più al diritto ad agire in modo autonomo ed unilaterale, ma si proclama la necessità di rafforzare la propria legittimità attraverso un ampio sostegno internazionale.

Niente di nuovo dunque e nessun riferimento alla notizia diffusa qualche giorno prima dal New York Times che ha parlato di un ordine militare segreto firmato il 30 settembre scorso dal generale David Howell Petraeus, capo del Comando Centrale USA per il teatro mediorientale (Centcom), un documento in sette pagine con il quale è stato dato il via all’impiego di forze speciali per azioni di guerra non convenzionale e sotto copertura.

La direttiva, approvata dal Comandante in capo, Barak Obama, autorizza il Pentagono a svolgere attività clandestine in Medio Oriente, nel Corno d’Africa e in tutte quelle aree, inclusi i così detti “Stati amici”, dove la reazione alla minaccia è più lenta o meno efficace e dove è necessaria un’azione di forza, anche a rischio di aprire una crisi diplomatica. La disposizione emanata da Petraeus completa il piano iniziato dalla prima amministrazione Bush e rappresenta l’ultima fase di un progetto che prevede la realizzazione di una rete militare capace di colpire e neutralizzare le cellule e i gruppi terroristici legati ad Al Qaeda e coprire i settori geografici dove vengono promosse attività anti occidentali.

Nella sostanza, la dialettica delle amministrazioni che dal dopo guerra ad oggi si sono susseguite alla guida della più grande potenza militare mondiale non è mai cambiata: preparare un’alternativa militare nel caso in cui la diplomazia fallisca. Quello che è cambiato nell’ultimo decennio è un’accentuata applicazione della politica dell’intervento preventivo, la politica della pressione sui gruppi eversivi suggellata da un livello sempre più alto della sicurezza nazionale evocata dalla presidenza Bush. Al ciclo, iniziato alla fine del secolo scorso da “Dick” Cheney e Ronald Rumsfeld, il comandante del Centcom aggiunge però un tassello: il Pentagono potrà pianificare uno sforzo sistematico e di lungo termine in territori ritenuti sensibili senza la regolare supervisione del Congresso e l’approvazione preventiva della Casa Bianca.

La gestione diretta di tutte le fasi delle operazioni segrete anti-terrorismo riduce sensibilmente la dipendenza del Pentagono dalle agenzie d’intelligence ed invade in particolare il campo della CIA, fatto non del tutto nuovo viste le iniziative che negli ultimi tempi hanno caratterizzato l’azione delle truppe Usa in Medio Oriente, la gestione dei rapporti con i contractors che hanno il compito di dare la caccia ai talebani in Pakistan e in Afghanistan, gli interventi in appoggio alle truppe locali in Yemen e le infiltrazioni e gli attacchi ai rifugi qaedisti in Somalia, come quello avvenuto poche ore dopo l’emanazione dell’ordine del Generale Petraeus, nel quale è morto Saleh Ali Saleh Nabhan, uno dei terroristi islamici più ricercati dell’Africa orientale.

Nel quadro della nuova lotta globale alla minaccia terroristica rientrano anche le operazioni già avviate, come la crescente implicazione militare americana in Mali, voluta da Bush per cercare di contrastare le attività dei terroristi islamici nello Sahel ed autorizzata da Barack Obama per rafforzare la presenza Usa in Africa. Un intervento nato per difendere la giovane democrazia africana e i suoi giacimenti (oro, uranio, ferro e fosfati) da Al-Qaeda, anche se nulla prova che Al-Qaeda nel Sahara sia davvero Al-Qaeda e non sia piuttosto un’organizzazione nata grazie agli appoggi di qualche servizio segreto “deviato” e alla disponibilità di personaggi quali Amari Saifi El-Para, ex-ufficiale delle forze speciali algerine addestrato (guarda caso) tra il 1994 e il 1997 dai berretti verdi americani a Fort Bragg.

Secondo alcuni funzionari il provvedimento firmato da Petraeus potrebbe aprire la strada ad un possibile attacco all’Iran. Qualora le tensioni sul dossier nucleare dovessero riacutizzarsi la partita si giocherebbe sulla possibilità di evitare che Israele metta in atto un intervento militare preventivo che darebbe vita ad una lunga guerra di posizione. A marzo, subito dopo la visita a Gerusalemme del vice presidente americano Joe Biden, la Casa Bianca ha deciso di rafforzare la sua presenza militare nell’Oceano Indiano, destinando all’arsenale della base aerea situata sull’isola Diego Garcia, arcipelago delle Isole Chago, 1.500 chilometri a sud dello Sri Lanka, 387 sistemi d’arma Joint Direct Attack Munition (JDAM), i famigerati kit aggiuntivi che installati sulle bombe MK-84/BLU-109 da 2.000 libre (909 chilogrammi) o sulle MK-83/BLU-110 da 1.000 libre trasformano gli ordigni nelle micidiali bombe anti-bunker che potrebbero essere utilizzate per attaccare i siti nucleari e le installazioni della difesa aerea iraniana.

Nonostante l’appoggio della Casa Bianca – nella sola penisola Arabica nel 2010 il Dipartimento della Difesa ha già speso più del doppio dei 150 milioni di dollari destinati all’acquisto di elicotteri ed armamenti per le forze speciali che operano in appoggio alle forze locali – negli Stati Uniti la disposizione emanata da Petraeus ha comunque sollevato non poche perplessità. Negli ambienti del Pentagono c’è chi teme che nel caso in cui i commandos cadessero nelle mani del nemico potrebbero essere accusati di spionaggio e perdere i diritti sanciti dalla Convenzione di Ginevra.

E a Washington c’è chi teme che l’impiego di militari in azioni di guerra non proprio convenzionionali e sotto copertura, potrebbe compromettere le relazioni con Paesi amici come l’Arabia Saudita e lo Yemen o esacerbare ulteriormente gli animi in nazioni ostili come la Siria e l’Iran, dove operano gruppi che, secondo Teheran, godrebbero del sostegno dell’intelligence americano, come il movimento armato separatista sunnita Jundullah (Soldati di Dio) che per anni ha seminato terrore e violenza nel Balucistan iraniano.