Verso la catastrofe

di Moni Ovadia
da www.unita.it, 2 giugno 2010

Era inevitabile che accadesse. L’insensato atto di pirateria militare israeliano contro il convoglio navale umanitario con la sua tragica messe di morti e di feriti non è un fatale incidente, è figlio di una cecità psicopatologica, della illogica assenza di iniziativa politica di un governo reazionario che sa solo peggiorare con accanimento l’iniquo devastante status quo. Di cosa parliamo? Dell’asfissia economica di Gaza e della ultraquarantennale occupazione militare delle terre palestinesi, segnata da una colonizzazione perversa ed espansiva che mira a sottrarre spazi esistenziali ad un popolo intero.

Dopo la stagione di Oslo, il sacrificio della vita di Rabin, non c’è più stata da parte israeliana nessuna vera volontà di raggiungere una pace duratura basata sul riconoscimento del diritti del popolo palestinese sulla base della soluzione due popoli due stati. Le varie Camp David, Wye Plantation, Road Map sono state caratterizzate da velleitarismo, tattiche dilatorie e propaganda allo scopo di fare fallire ogni accordo autentico. Anche il ritiro da Gaza non è stato un passo verso la pace ma un piano ben riuscito per spezzare il fronte politico palestinese e rendere inattuabili trattative efficaci. Abu Mazen l’interlocutore credibile che i governanti israeliani stessi dicevano di attendere con speranza è stato umiliato con tutti i mezzi, la sua autorità completamente delegittimata. L’Autorità Nazionale Palestinese è stata la foglia di fico dietro alla quale sottoporre i palestinesi reali e soprattutto donne, vecchi e bambini ad una interminabile vessazione nella prigione a cielo aperto della Cisgiordania e nella gabbia di Gaza resa tale da un atto di belligeranza che si chiama assedio.

Ma soprattutto l’attuale classe politica israeliana brilla per assenza di qualsiasi progettualità che non sia la propria autoperpetuazione. È riuscita nell’intento di annullare l’idea stessa di opposizione grazie anche ad utili idioti come l’ambiziosissimo “laburista” Ehud Barak che per una poltrona siede fianco a fianco del razzista Avigdor Lieberman. Questi politici tengono sotto ricatto la comunità internazionale contrabbandando la menzogna grottesca che ciò che è fatto contro la popolazione civile palestinese garantisca la sicurezza agli Israeliani e a loro volta sono tenuti sotto ricatto dal nazionalismo religioso di stampo fascista delle frange più fanatiche del movimento dei coloni, una vera bomba ad orologeria per il futuro dello stato di Israele. La maggioranza dell’opinione pubblica sembra narcotizzata al punto da non vedere più i vicini palestinesi come esseri umani, ma come fastidioso problema, nella speranza che prima o poi si risolva da solo con una “autosparizione” provocata da una vita miserrima e senza sbocco. Le voci coraggiose dei giusti non trovano ascolto e anche i più ragionevoli appelli interni ed esterni come quello di Jcall, vengono bollati dai falchi dentro e fuori i confini con l’infame epiteto di antisemiti o antiisraeliani. Se questo stato di cose si prolunga ancora il suo esito non può essere che una catastrofe.
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La condanna della marionetta

di David Grossman
da la Repubblica, 1 giugno 2010

Nessuna spiegazione può giustificare o mascherare il crimine commesso da Israele e nessun pretesto può motivare l’idiozia del suo governo e del suo esercito. Israele non ha inviato i suoi soldati a uccidere civili a sangue freddo, in pratica era l’ultima cosa che voleva che accadesse, eppure una piccola organizzazione turca, dall’ideologia fanatica e religiosa, ostile a Israele, ha arruolato alcune centinaia di pacifisti ed è riuscita a fare cadere lo Stato ebraico in una trappola proprio perché sapeva come avrebbe reagito e fino a che punto era condannato, come una marionetta, a fare ciò che ha fatto. È stato un atto criminale destinato a riaccendere la spirale di odio e vendette.

Quanto deve sentirsi insicura, confusa e spaventata una nazione per comportarsi come ha fatto Israele! Ricorrendo a un uso esagerato della forza (malgrado aspirasse a limitare la portata della reazione dei presenti sulla nave) ha ucciso e ferito civili al di fuori delle proprie acque territoriali comportandosi come una masnada di pirati. È chiaro che queste mie parole non esprimono assolutamente consenso alle motivazioni, nascoste o evidenti – e talvolta malvagie – di alcuni dei partecipanti al convoglio diretto a Gaza. Non tutti sono pacifisti animati da intenzioni umanitarie e le dichiarazioni di alcuni di loro riguardanti la distruzione dello stato di Israele sono infami. Ma tutto questo ora è irrilevante: queste opinioni non prevedono, per quanto si sappia, la pena di morte.

L’azione compiuta da Israele ieri sera non è che la continuazione del prolungato e ignobile blocco alla striscia di Gaza, il quale, a sua volta, non è che il prosieguo naturale dell’approccio aggressivo e arrogante del governo israeliano, pronto a rendere impossibile la vita di un milione e mezzo di innocenti nella striscia di Gaza pur di ottenere la liberazione di un unico soldato tenuto prigioniero, per quanto caro e amato. Il blocco è anche la continuazione naturale di una linea politica fossilizzata e goffa che a ogni bivio decisionale e ogni qualvolta servono cervello, sensibilità e creatività, ricorre a una forza enorme, esagerata, come se questa fosse l’unica scelta possibile.

E in qualche modo tutte queste stoltezze – compresa l’operazione assurda e letale di ieri notte – sembrano far parte di un processo di corruzione che si fa sempre più diffuso in Israele. Si ha la sensazione che le strutture governative siano unte, guaste. Che forse, a causa dell’ansia provocata dalle loro azioni, dai loro errori negli ultimi decenni, dalla disperazione di sciogliere un nodo sempre più intricato, queste strutture divengano sempre più fossilizzate, sempre più refrattarie alle sfide di una realtà complessa e delicata, che perdano la freschezza, l’originalità e la creatività che un tempo le caratterizzavano, che caratterizzavano tutto Israele.

Il blocco della striscia di Gaza è fallito. È fallito già da quattro anni.
Non solo tale blocco è immorale, non è nemmeno efficace, non fa che peggiorare la situazione, come abbiamo potuto constatare in queste ore, e danneggia gravemente anche Israele. I crimini dei leader di Hamas che tengono in ostaggio Gilad Shalit da quattro anni a questa parte senza che abbia ricevuto nemmeno una visita dai rappresentanti della Croce Rossa, che hanno lanciato migliaia di razzi verso i centri abitati israeliani, vanno affrontati per vie legali, con ogni mezzo giuridico a disposizione di uno stato. Il prolungato isolamento di una popolazione civile non è uno di questi mezzi. Vorrei poter credere che il trauma per la sconsiderata azione di ieri ci porti a riesaminare tutta questa idea del blocco e a liberare finalmente i palestinesi dalla loro sofferenza e Israele da questa macchia. Ma la nostra esperienza in questa regione sciagurata ci insegna che accadrà invece il contrario: che i meccanismi della violenza, della rappresaglia e il cerchio della vendetta e dell’odio ieri hanno ricominciato a girare e ancora non possiamo immaginare con quale forza.

Ma più di ogni altra cosa questa folle operazione rivela fino a che punto è arrivato Israele. Non vale la pena di sprecare parole. Chi ha occhi per vedere capisce e sente. Non c’è dubbio che entro poche ore ci sarà chi si affretterà a trasformare il senso di colpa (naturale e giustificato) di molti israeliani, in vocianti accuse a tutto il mondo.
Con la vergogna, comunque, faremo un po’ più fatica a venire a patti. (Traduzione dall’ebraico di A. Shomroni)
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Quell’appello e il dovere di criticare

di Bernard-Henri Lévy
da Corriere della Sera, 3 giugno 2010

«Ebrei contro Israele», titola il quotidiano francese Libération a proposito del convegno che ho aperto a Tel Aviv e che, sotto l’egida congiunta del giornale Haaretz e dell’ambasciata di Francia in Israele, intende riflettere sull’ideale democratico comune ai nostri due Paesi; quel titolo riguarda anche l’appello di J-Call, da me firmato insieme con altri, nel quale noi affermiamo come la solidarietà di principio e, nel suo principio, incondizionata, con lo Stato degli ebrei non possa esistere senza libertà di parola di fronte a eventuali errori dell’uno o l’altro dei suoi governanti.

Il titolo di Libération è assurdo, certo. Totalmente e malauguratamente assurdo. Infatti, non è «contro», ma «per» Israele che si sono mobilitati i firmatari dell’appello. Come Alain Finkielkraut, infaticabile avversario di chi biasima Israele. Come Elie Barnavi, uno dei più brillanti ambasciatori in Europa del poco sospetto Ariel Sharon; come Avi Primor, uno dei più illustri pionieri della molto sionista Agenzia ebraica. Come il sottoscritto, vostro servitore, che nell’estate del 2007, fin dal primo giorno della guerra voluta e scatenata dagli «iranosauri» di Hezbollah, tenne a condividere, sulla linea del fronte nord, la vita quotidiana dei cittadini israeliani bombardati.

I firmatari dell’appello sostengono due semplici cose. Che l’«appoggio incondizionato» senza il dialogo non è democrazia né, ancor meno, sionismo. Inoltre, che esistono situazioni in cui, per riprendere il titolo di un famoso libro di Amos Oz, occorre aiutare i popoli a divorziare: non si tratta certo di «imporre» qualcosa; tanto meno (ho passato la vita a lottare contro questo) di immaginare chissà quale boicottaggio; ma di proporre ambasciatori, agevolatori di pace, mediatori di buona volontà: gli Stati Uniti di Obama, o la Francia di un altro amico di Israele, Nicolas Sarkozy, o l’Europa.

Mentre mi trovo a Tel Aviv, apprendo della calamitosa operazione di abbordaggio condotta dalle unità di Tsahal (l’esercito israeliano, ndr) contro le sei navi partite dalla Turchia che pretendevano di forzare il blocco di Gaza. Sono sicuro, presto sapremo che quella «flottiglia umanitaria» di umanitario aveva solo il nome; che tra i suoi obiettivi aveva un colpo mediatico — con i suoi segni, i suoi simboli — più che la miseria di un popolo; e che il ramo turco dei Fratelli musulmani, magari anche un partito di governo in Turchia, all’origine di questa provocazione, aveva buone ragioni di rifiutare, come gli era stato proposto, di fare scalo nel porto israeliano di Ashdod affinché fosse verificato quel che veramente contenevano le stive delle navi.

Ma sono ugualmente sicuro che lo Tsahal che io conosco, lo Tsahal economo in vite umane e adepto della purezza delle armi, questo esercito non solo ultra-sofisticato ma profondamente democratico, di cui ho onorato tante volte il comportamento in tempi di guerra, aveva altri mezzi di agire piuttosto che provocare un bagno di sangue. Se avessi avuto anche una sola esitazione sull’opportunità di una vigilanza doppia da parte nostra, che siamo amici di Israele; se mi fosse rimasto un solo dubbio sull’importanza dell’appello di J-Call e sulla duplice necessità del sostegno incondizionato a Israele e della critica, se fondata, delle cattive azioni di un cattivo governo, ebbene oggi dovrei fugarli entrambi: questo blitz, al tempo stesso sciocco, irresponsabile, criminale e, per Israele stesso, disastroso, avrebbe finito col risolvere la questione.

Lutto. Tristezza. E anche collera, di fronte alla tentazione, che conosco bene in certi dirigenti israeliani, di credersi soli al mondo, comunque reietti, e di agire in conseguenza. L’autismo non è una politica. Né, ancor meno, una strategia. È necessario dirlo. E con forza.
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Amos Oz: «Grave errore di stupidità Ora il governo tolga l’ assedio a Gaza».

di Francesco Battistini
da www.corriere.it, 1 giugno 2010

Stupidità. In questa storia d’ orrore e di tenebra, Amos Oz non vede molto di più della stupidità del male. «Sono abbastanza abituato a queste esplosioni d’ insensatezza…». Qualcuna è riuscito a spiegarsela, qualcuna l’ ha pure capita. Ma stavolta… È davanti alla tv, il computer acceso lì vicino: «Non ci sono molte idee, dietro cose come queste. Il governo israeliano ha commesso un errore d’ una stupidità enorme – dice -. Si sono messi in testa di bloccare quelle navi, di cui probabilmente non si sarebbe accorto nessuno. Hanno creato un clima d’ attesa. Per giorni, in Israele non si parlava d’ altro. Questa è stupidità: avrebbero dovuto lasciarli passare, ci avrebbero guadagnato tutti».

La comunità internazionale, i palestinesi parlano d’ un crimine di guerra…
«Io non sono sicuro che si possa parlare d’ un crimine di guerra…».

Sparare sui civili, nelle acque internazionali…
«Un crimine di guerra presuppone che ci siano dei militari che aprono il fuoco, deliberatamente e senza preavviso, su persone inermi che subiscono solamente. Qui, non sono sicuro che le cose siano andate così. C’ è stato uno scambio di violenze, anche se ovviamente di proporzioni diverse».

Ma quelli erano, comunque, pacifisti. Armati di biglie e di bastoni…
«Io non li conosco, questi pacifisti. Molti di loro non si possono definire così. Sono islamici militanti, simpatizzanti di Hamas, hanno legami con organizzazioni terroristiche. Credo che cercassero la provocazione. Questo è un fatto. In mezzo, certo, hanno dei pacifisti in buona fede. E poi, comunque la pensino, fermarli e ucciderli è un errore. In un confronto armato fra militari e civili, il militare appare sempre dalla parte sbagliata».

I soldati forse sono andati ben oltre il mandato.
«I soldati fanno quel che i loro politici comandano. Il governo deve assumersi le responsabilità di questi errori. E se necessario, dimettersi. Perché qui torna la colpa per stupidità. Nel passato, di questi episodi ne abbiamo visti molti. Un paio di settimane fa, il governo ha bloccato Noam Chomsky che entrava dalla Giordania. L’ hanno interrogato per ore, in modo umiliante, e l’ hanno rispedito indietro. Io lo conosco bene, il professor Chomsky, e posso rassicurare il governo israeliano: non attenta alla nostra sicurezza. Quando dominano gli estremismi, purtroppo, c’ è un tipo di stupidità che non puoi controllare. Penso anche all’ umiliazione che il nostro viceministro degli Esteri ha inflitto mesi fa all’ ambasciatore turco: l’ ha fatto sedere su una poltrona più bassa della sua, ha tolto le bandiere, gli ha fatto una pubblica reprimenda…».

Una volta era un Paese amico d’ Israele, la Turchia.
«La Turchia è un pezzo fondamentale della nostra storia. Le relazioni sono quelle d’ un rapporto secolare. Ci sono migliaia d’ ebrei turchi, qui, e migliaia d’ israeliani che lavorano in Turchia. È il più grande Paese musulmano del Medio Oriente: conservarne l’ amicizia significa tenere una porta aperta su un mondo ostile. Ma in questo deterioramento, anche la classe politica turca ha fatto di tutto perché i rapporti si guastassero. Erdogan ha usato spesso toni d’ una durezza inaudita. E i suoi nuovi legami con Iran e Siria non possono certo tranquillizzarci».

Siamo a un punto di svolta, per Gaza?
«È troppo presto, per dirlo. Sicuramente, siamo arrivati al momento in cui Hamas deve rilasciare Shalit e il governo israeliano deve togliere l’ assedio a Gaza. Non so se avremo un accordo, sul blocco. Questo governo Netanyahu ormai fa un errore di stupidità ogni mese. L’ annuncio della costruzione di case a Gerusalemme Est durante la visita del vicepresidente americano, fu un capolavoro. Speri sempre che non ci caschino, e invece ci cascano sempre. In questa chiave, potrebbe essere molto importante l’ incontro fissato per domani (oggi, ndr) a Washington fra Obama e Netanyahu…».

Guardi, arriva ora sul cellulare la notizia: Netanyahu ha deciso di cancellare l’ appuntamento alla Casa Bianca e di tornare a casa.
«Ah sì? Io speravo ne uscisse una decisione, poteva essere il momento buono. Invece questa cancellazione conferma che è l’ ennesimo errore. Anche di Obama. Un altro stupido errore. Parlarsi, è sempre meglio che non dirsi nulla».

Il governo israeliano può rimediare a questo disastro d’ immagine?
«L’ unico modo è togliere l’ assedio a Gaza».

Ma crede che l’ opinione pubblica stavolta appoggi compatta, come fu con la guerra d’ un anno e mezzo fa?
«Credo che ora si riapra un grande dibattito sulla sensatezza e sulla stupidità della nostra politica a Gaza. Anche se temo che, un’ altra volta, a prevalere siano gli estremisti».
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L’Exodus rovesciato

di Gad Lerner
da www.repubblica.it, 1 giugno 2010

Dalla spiaggia di Tel Aviv guardiamo il Mediterraneo incendiato dall’inconfondibile luce del Levante e proviamo un senso di vergogna, come di profanazione per quello che vi è accaduto nell’oscurità. Non si sono certo fatti onore i marinai d’Israele, protagonisti di un arrembaggio dilettantesco e cruento. Una delle pagine più oscure nella storia di Tzahal. Tanto più che spezza inavvertitamente l’equilibrio strategico mediorientale in cui la Turchia rivestiva una preziosa funzione di stabilità, e coalizza una vasta ostilità internazionale contro lo Stato ebraico.

Può anche darsi che stringendo gli occhi a fessura sul riverbero del mare la maggioranza degli israeliani sia trascinata dall’esasperazione a sussurrare tra sé l’indicibile – “ben gli sta, se la sono cercata” – ma ciò non ribalta il bruciore della sconfitta morale. Il paese è sotto choc, soggiogato dal senso di colpa. Vorrebbe giornalisti in grado di spiegare la strage come legittima autodifesa. S’immedesima nei militari feriti, e così la tv giustifica i primi marinai saliti a bordo della “Mavi Marmara”: hanno vissuto attimi di terrore, una situazione analoga a quella dei due soldati linciati dieci anni fa nel municipio di Ramallah. Ma suda vistosamente l’ammiraglio Eliezer Merom, seduto accanto al ministro della Difesa, Ehud Barak, quando tocca a lui giustificare una provocazione cui i suoi uomini, come minimo, non erano preparati. I portavoce governativi balbettano più volte la parola “rammarico”. Rispondono a monosillabi sotto l’incalzare dei reporter. Né giova alla credibilità internazionale d’Israele che il primo incaricato di rilasciare dichiarazioni ufficiali sia stato il viceministro degli Esteri, Danny Ayalon, esponente del partito di estrema destra “Israel Beitenu”: fu proprio Ayalon l’11 gennaio scorso a offendere di fronte alle telecamere l’ambasciatore turco Oguz Celikkol, fatto sedere apposta su una poltrona più bassa della sua e preso a male parole. Rischiando di interrompere già allora le relazioni diplomatiche fra i due più importanti partner degli Usa in Medio Oriente.

Oggi il trauma del distacco fra Israele e la Turchia è irrimediabilmente consumato. Non a caso il governo di Ankara aveva appoggiato la Freedom Flotilla dei pacifisti, salpata dalle sue coste con l’intenzione di un’esplicita azione di disturbo ai danni di Netanyahu. Israele è caduto in pieno nella provocazione.

E’ un tale disastro geopolitico, la contrapposizione al più importante paese islamico della Nato, oggi attratto nel gioco delle relazioni spregiudicate con la Siria e con l’Iran, da lasciar intuire che possa esservi stato un calcolo in tale follia: cioè che la destra israeliana al governo, già invisa all’amministrazione Obama, scommetta di sopravvivere praticando il tanto peggio tanto meglio. Netanyahu, ricattato alla sua destra, esercita una leadership fragile, piuttosto spregiudicata che coraggiosa. Ciò che lo assoggetta alle ricorrenti tentazioni d’azione militare dell’alleato laburista, politicamente sprovveduto, Ehud Barak. Il governo d’Israele si comporta come se non fosse mai avvenuto il ritiro dalla striscia di Gaza. Ha lasciato nelle mani di Hamas e dei suoi sostenitori internazionali l’arma propagandistica dell’embargo cui è sottoposta una popolazione di un milione e mezzo di abitanti. Cerca di mobilitare contro Barack Obama e Hillary Clinton la comunità ebraica statunitense, sottovalutando i dilemmi morali e le perplessità che il suo oltranzismo ha generato in quella che non è certo più una lobby compatta.

E’ coltivando il mito della propria autosufficienza, l’illusione di contenere sempre nuovi nemici grazie alla superiorità tecnologica e militare, che Israele è andata a infilarsi nella trappola della Freedom Flotilla. Incapace di trattare con cinismo distaccato un’iniziativa umanitaria sponsorizzata da tutti i suoi peggiori nemici. Non poteva limitarsi a bloccare fuori dalle acque territoriali il convoglio ostile? Perché la Marina è stata chiamata a dare una tale prova di arroganza e inefficienza? Male informata, come minimo, forse beffata nel corso di trattative ufficiose, ha suggellato un disastro politico.

Ma i calcoli strategici restano in secondo piano di fronte al turbamento delle coscienze.

Il blocco militare del Mar di Levante evoca troppi simboli dolorosi nel paese che coltiva la memoria dei sopravvissuti alla Shoah quasi alla stregua di una religione civile. Impossibile sfuggire alla suggestione che in una tiepida notte d’inizio estate le acque del Mediterraneo abbiano vissuto un Exodus all’incontrario. Non certo perché i militanti e i giornalisti a bordo della flotta che intendeva violare l’embargo di Gaza siano paragonabili ai 4500 sopravvissuti dei lager che le cacciatorpediniere britanniche speronarono nel 1947 al largo di Haifa, impedendo loro di approdare nel nuovo focolare nazionale ebraico. Ma perché quell’arrembaggio sconsiderato in acque internazionali, senza che Israele fosse minacciato nella sua sicurezza, discredita uno dei suoi valori fondativi: la superiorità morale preservata da una democrazia anche nelle circostanze drammatiche della guerra.

Per questo nell’opposizione al governo di destra echeggiano parole gravi, accuse di follia: “Chi ha agito con tanta stupidità deve rendersi conto che ha sporcato il nome d’Israele”, scrive per esempio il vecchio pacifista Uri Avnery.
Con timore mi sono presentato in serata all’incontro organizzato dall’istituto italiano di cultura, cui partecipava un centinaio di ebrei d’origine italiana. Mi avrebbero accusato come altre volte di tradimento, di scarsa lealtà alla causa israeliana? Lo scoramento, inaspettatamente, prevaleva sulla recriminazione. Nessuno dei partecipanti ha speso una parola per difendere l’operato del governo e di Tzahal. Il disastro politico veniva riconosciuto coralmente, chiedendosi semmai chi possa metterci una buona parola per segnalare all’estero l’angoscioso senso d’accerchiamento vissuto dagli israeliani.

E’ giunto ieri a Tel Aviv, per dialogare con la leader dell’opposizione Tzipi Livni, il filosofo francese Bernard Henry Levy. Filoisraeliano convinto, all’inizio del 2009 appoggiò perfino la spedizione punitiva “Piombo fuso” scatenata da Olmert contro Gaza. Ma oggi Henry Levy è tra i primi firmatari di un “Appello alla ragione” di varie personalità ebraiche d’Europa, collegate a un analogo movimento ebraico statunitense, denominato “J call”. Sono esponenti moderati, sionisti, solo in minima parte ascrivibili alla sinistra politica, che ora denunciano l’evidente ostilità del governo Netanyahu ai tentativi diplomatici messi in atto dalla Casa Bianca per costituire in tempi brevi uno Stato palestinese che viva in pace con Israele. Auspicano un ricambio di maggioranza politica a Gerusalemme, e di certo la segreteria di Stato americana condivide tale speranza: ha usato parole molte prudenti nel commentare la strage in mare. Ma il dispetto di Obama è gravido di conseguenze che gli israeliani percepiscono sotto forma di incubo dell’abbandono.

Con sollievo si è constatato che, per ora, il crimine marittimo non pare causa sufficiente a scatenare la prossima Intifada, cioè la rivolta interna degli arabi col passaporto israeliano. Ma non ci sono soltanto gli equilibri dei governi e della geopolitica mediorientale, in bilico. Chi protesta, o anche solo chi si vergogna in silenzio, avverte il pericolo che il paese cui è legato da un vincolo indissolubile di parentele e sentimenti, degradi nel disonore. In quello splendido mare infuocato, l’epopea dell’Exodus sta facendo naufragio.
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Lettera in risposta all’articolo di F. Nirestein sul “Giornale”

di Miriam Marino, Rete Ebrei contro l’Occupazione (ECO)

E’ con profondo disgusto e enorme indignazione che ho letto l’articolo della Nirestein sul “Giornale” un quotidiano che non si vergogna di titolare la prima pagina così: “Israele ha fatto bene a sparare”, titolo che configura di per se apologia di reato.
Ma la Nirestein rincara: ci sarebbero organizzazioni filo-Hamas coinvolte nell’assalto e l’associazione turca è amica degli jihadisti. Rovesciamento della verità, bugie, sono tutti strumenti usati dalla Nirestein in modo eccellente nella sua fervente propaganda per una causa persa. Gli argomenti sono quelli del ladro incallito che accusa gli altri di rubare.

Secondo lei a Jenin non fu fatta strage, il piccolo Mohamed Al Dura si sarebbe assassinato da solo e i pacifisti turchi avrebbero provocato le teste di cuoio che hanno fatto l’arrembaggio piratesco in acque internazionali. Arriva a chiedersi “Cosa trasportavano veramente quelle navi?” Lo sanno tutti benissimo cosa trasportavano: giocattoli, cemento, viveri, e tutto ciò che Israele in spregio alla legalità internazionale vieta di far entrare a Gaza con un assedio inumano che non può più essere tollerato. I civili per lei sono “guerrieri di prima fila” e perciò è giusto ucciderli.

La serie di stupidaggini che elenca l’articolo è tale da richiedere un rotolo di scottex, mi soffermerò su alcune perle: siccome la striscia di Gaza è dominata da Hamas che a suo dire perseguita i cristiani, (i quali sono andati via per sfuggire alla vita impossibile sotto occupazione e non ad Hamas) e che condanna a morte tutti gli ebrei (ma pare che non abbia eseguito la condanna visto che gli ebrei ci sono ancora) che usa bambini, edifici allo scopo di combattere l’occidente intero (siamo ancora all’aberrante dottrina dello “scontro di civiltà”) e così abbiamo anche giustificato il crimine di “Piombo fuso” si sa, a Gaza case scuole, ospedali, bambini, non esistono di per se, ma per essere usati da Hamas di modo che Israele li bombardi. Il piccolo particolare che a Gaza c’è un milione e mezzo di persone, la metà bambini e minori, oltre Hamas, non sfiora la mente dell’illuminata articolista.

Più avanti troviamo un’altra intuizione illuminata: poiché i pacifisti hanno rifiutato di farsi ispezionare le navi e far recapitare da Israele a destinazione i beni ciò è una prova della loro scarsa vocazione umanitaria. Sicchè secondo lei quei beni sarebbero stati recapitati a destinazione? Ci prende per scemi? Lo scopo della Flottiglia cara Nirestein effettivamente non era solo umanitario, ma anche politico.

Si voleva portare solidarietà, non elemosina, visto che Gaza è alla fame per un assedio illegale e non per essere un paese del terzo mondo. Per rafforzare la sua tesi e quella israeliana che a Gaza non c’è crisi umanitaria la “nostra” elenca qualche camion di farina che è stato fatto passare, quale generosità! E per di più anche qualche malato è stato fatto uscire…siamo veramente commossi. Ma come si permette Israele di fare quello che vuole della vita e della libertà di un milione e mezzo di persone? E’ questa la vera questione. Come si permette di trattare i profughi di Gaza come prigionieri a carcere duro?

Secondo lei c’erano armi da fuoco sulla nave: è vero! Erano le armi dei militi israeliani che sono scesi dall’elicottero sparando come si è visto dai video che hanno fatto il giro del mondo. “I soldati che hanno toccato il ponte hanno affrontato un linciaggio come quello di Ramallah in cui membra umane furono gettate alla folla” sostiene lei e qui siamo veramente al ridicolo. Sotto il tiro delle armi quei facinorosi si sono permessi di difendersi con “foga enorme”. Le membra umane sparse, bruciate, sanguinanti le abbiamo viste a Gaza, le abbiamo viste in Libano, membra di bambini a centinaia fatte a pezzi…Per finire in bellezza, a suo dire, i veri colpevoli della strage sarebbero gli stessi assassinati e il mondo sbaglia a sostenerli perchè così prepara la prossima guerra, probabilmente si riferisce alla guerra che Israele freme per scatenare contro l’Iran o contro il Libano.

Da tempo sono disgustata dagli articoli della Nirestein fin dagli anni della seconda Intifada, quando occupava la prima pagina di “Shalom” il giornale nazionale ebraico con articoli pieni di ipocrite e velenose menzogne. Come donna e come ebrea non posso accettare e tollerare un simile disprezzo per la verità, per ogni criterio di legalità e di giustizia. Voglio contestualmente esprimere il più profondo dolore per la morte di quegli eroi che hanno dato la vita per la libertà dei nostri fratelli palestinesi, e stringere gli altri pacifisti sequestrati da Israele in un abbraccio di enorme affetto e ammirazione.
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«Avrebbero solo dovuto controllare il carico e poi farlo arrivare a Gaza»

Intervista a Avraham Burg, ex presidente della Knesset
da Il Messaggero, 2 Giugno 2010

«Siamo di fronte a un incrocio a T: verso la pace o verso un’altra guerra nella regione». Avraham Burg è un pacifista israeliano. Uno di quelli con tutte le credenziali in ordine: è stato deputato laburista, presidente della Knesset, il parlamento israeliano, presidente dell’Agenzia ebraica e del Movimento sionista mondiale, vice presidente del Congresso ebraico mondiale ed era fra i fondatori di Peace Now. È sconvolto.

«Preferisco parlare subito del futuro più che di quanto è accaduto. E voglio sperare che tutte le forze in campo, in primo luogo quelle israeliane, decidano di imboccare la strada verso la fine del conflitto. Israele non deve scendere ancora di più in trincea, Hamas non deve sfruttare quello che è accaduto, e i palestinesi non devono allontanarsi da quel poco di negoziato che esiste».

Dell’azione militare contro i pacifisti, cosa pensa?
«Abbiamo un caffè nero in Israele che si chiama “boz”, ossia fango. E c’è troppo fango in quello che è stato fatto ieri per poterlo bere».

Due domande. Israele altre volte ha fatto passare le navi pacifiste dirette a Gaza. Perché questa volta, no? Israele dice di avere inviato reparti “anti-sommossa”. Non sarebbe stato meglio inviare la polizia?
«Mi chiede di spiegare l’inspiegabile. Io sono convinto che Israele, in un modo o nell’altro, deve dialogare con Hamas. Io non considero l’assedio di Gaza tollerabile. E non si può impedire alla gente di protestare contro il blocco della Striscia».

Quante persone in Israele la pensano come lei?
«Nei primi momenti, tante, ma con la campagna governativa per screditare i pacifisti direi che alla fine della giornata torneremo alla solita cifra di 70 per cento a favore delle azioni militari» e il 30 per cento contro. Ma direi che come al solito Netanyahu e Barak hanno sbagliato tutto. Se si trattava di fermare dei civili, bisognava inviare forze specializzate di polizia e non reparti d’élite dell’esercito. Ma l’errore è stato ancora più grosso. Di fronte alla sfida dei pacifisti era sufficiente aprire le porte di Gaza alle merci, controllare che non fossero presenti armi o altre cose pericolose, e chiedere anche all’Egitto di fare la stessa cosa».

In mancanza di una trattativa seria con i palestinesi e la crescente tensione israelo-siriana, come può pensare a una svolta positiva?
«Netanyahu è stato invitato alla Casa Bianca. Dopo quello che è successo ha annullato la visita per rientrare a casa. Forse Obama lo avrebbe potuto accogliere con poche parole del tipo: “La situazione è impossibile, speravo di vedere da te un comportamento diverso. Torna in Israele e risentiamoci quando avrai le idee più chiare”».

C’è aria pesante nella Regione, si parla della possibilità di una nuova guerra. In passato quando Israele si è trovato con le spalle al muro, ha reagito aggravando la situazione.
«È vero anche il contrario. Dopo l’imbarazzo per la guerra del 1973, abbiamo fatto la pace con l’Egitto nel 1977; dopo la prima Intifada cominciata nel 1987, Rabin ha stretto la mano ad Arafat nel 1993».