Per la Bibbia, la colpa più grande: non dare il giusto salario

di Piero Stefani
da www.koinonia.it, 14 giugno 2010

Attorno a una persona che è stata punto di riferimento per molti vi è sempre un alone di ricordi. Se si tratta di un intellettuale che ha scritto libri insorge, poi, la distinzione tra chi l’ha conosciuto di persona e chi ne ha colto il pensiero solo attraverso le pagine scritte. Nel primo caso si conserva un patrimonio di ‘detti e fatti’ che formano il sigillo di una familiarità da custodire e da trasmettere.

La caratteristica delle giornate in memoria di Sergio Quinzio, tenute annualmente nel Monastero di Montebello nei pressi di Isola del Piano (PU), sta nel prendere lo spunto da un ‘detto’. Gino Girolomoni, scavando nel suo ricordo e nel suo affetto, propone una frase attorno alla quale si costruisce il programma. In un’occasione Girolomoni chiese a Quinzio quale fosse per la Bibbia la colpa più grande. Ottenne la seguente risposta: non dare il giusto salario all’operaio. Quest’anno si rifletterà su questa replica, per molti inattesa.

Nella sua ultima opera, Mysterium iniquitatis, Quinzio propone una gerarchia di colpe diversa dal consueto: per lui quelle omissive sono più gravi di quelle commissive. Non fare, non parlare e non pensare è peggio che operare in senso sbagliato. L’indifferenza verso Dio e il prossimo è la radice di ogni male. Essere indifferenti significa porre al centro il proprio io assunto nella sua condizione attuale. Ciò comporta sia accorgersi della sventura solo se essa ci colpisce in prima persona, sia ignorare in modo sistematico l’orrore del mondo. Nella ribellione ci può essere insofferenza e un distorto tormento, nell’omissione vi è solo piatta acquiescenza.

Anche non pagare il salario è colpa omissiva. In un certo senso è più grave che rubare. Perché avvenga un furto occorre che il derubato possieda qualcosa. I nullatenenti vivono in grandi difficoltà, ma non temono di essere derubati. Invece chi campa solo del proprio lavoro, nel caso in cui non riceva il salario, è esposto letteralmente alla fame. Per questo l’insistenza della Bibbia al riguardo è massima: il salariato va pagato subito (cfr. Lv 19,13; Dt 24,14-15). Per certi versi, il padrone disonesto si contrappone, quindi, a Dio stesso impedendo al Signore di aprire la mano e di saziare ogni vivente (Sal 104,27-28). Non a caso, sull’altro fronte, il Padre di Gesù è visto come colui che provvede giorno per giorno il cibo alle sue creature: «Dacci oggi il nostro pane quotidiano».

Dietro la risposta di Quinzio vi è anche un altro motivo: il grido dei defraudati esige il giudizio di Dio: «Ecco, il salario degli operai che mietono i vostri campi, e che voi avete frodato, grida, e il loro clamore è entrato negli orecchi del Signore degli eserciti… Ecco il giudice è alle porte» (Gc 5, 4.9). A commento di questo passo della lettera di Giacomo, Quinzio scrisse: «Queste parole ebraiche, piene di doloroso scandalo di fronte all’ingiustizia che opprime i miseri, per tanti secoli nella chiesa delle nazioni non si sono più udite». Si è dimenticato l’esodo e si è accantonata la convinzione che Dio possa ascoltare un grido anche non rivolto direttamente a lui: «I figli di Israele gemettero per la loro schiavitù, alzarono grida di lamento e il loro grido dalla schiavitù salì a Dio. Allora Dio ascoltò il loro lamento, si ricordò della sua alleanza con Abramo e Giacobbe. Dio guardò la condizione dei figli di Israele e seppe» (Es 2,23-25). Non è detto che il grido fosse rivolto a Dio. Vi è un’analogia con il sangue di Abele che urla dal suolo (Gen 4,10): la voce di chi non ha più voce. È il Signore a udirla e a rimanerne scosso fino a decidere di uscire dalla propria dimenticanza («si ricordò della sua alleanza»). L’urlo di chi patisce ingiustizia è il corpo a corpo con l’apparente indifferenza di Dio.

Il non pagare il salario è la colpa più grande perché il grido giunge direttamente fino a Dio; esso, cioè, richiede una risposta di ordine escatologico. La radicalità della colpa trova corrispondenza nella presenza di un giudizio di stretta pertinenza divina. Il grido dei mietitori è la figura dell’esodo proiettata sullo sfondo dei tempi ultimi. La chiesa delle nazioni non ha più pronunziato quelle parole perché ha sempre più dimenticato l’attesa della parusia e ha sempre più cercato di mascherare con cure palliative l’orrore del mondo.

L’ansia escatologica del pensiero di Quinzio ha come corrispettivo il senso, fattosi in lui di giorno in giorno più profondo, di un ritardo della seconda venuta diventato, di secolo in secolo, smisurato. Nulla si comprende di Dio e della sua povertà salvifica se non ci si sprofonda nell’abisso del regno sempre promesso e sempre dilazionato. Il giudice è alla porte, ma non varca mai la soglia e intanto, al di qua dell’entrata, si continua a morire e a patire ingiustizia su ingiustizia. La chiesa delle nazioni rifugge da questo orrore e perciò cerca di riempire vanamente di senso lo spazio intermedio tra le due venute. Per Quinzio uno di questi modi è stato rappresentato dalla «dottrina sociale» da lui giudicata, in definitiva, poco più di un tentativo di aggiustare il mondo senza coglierne l’orrore. In effetti nel XIX sec. fu l’ ‘ebreo’ Marx a denunciare come scandalo quello che, per altri, era la normalità. Molte speranze sono sorte da quel grido non rivolto al cielo (e non udito neppure da Dio?), era inevitabile che anch’esse andassero deluse. Quinzio era uso ripetere: «non c’è vita vera nella falsa». Detto drammaticamente pieno di speranza, se il cuore continua, sia pure stancamente, a credere che vita vera ci sia.