Uscire dal capitalismo in crisi

di Pierfranco Pellizzetti
da il Fatto Quotidiano, 23 luglio 2010

Chi ci salverà dalla tirannia del remake nell’attuale dibattito sulle possibili uscite di sicurezza dalla crisi economica, giocato all’insegna del “ritorno al passato”? Scaturita tanto dalla finanziarizzazione economica come dal divario, fattosi abisso, tra la crescente produttività mondiale del lavoro a fronte della declinante capacità di consumo degli stessi lavoratori, questa crisi trova le presunte risposte in ricette già ampiamente fallite (e concause delle attuali sofferenze).

I paleocolbertiani propugnano le cosiddette “politiche dei sacrifici” che incentiveranno disoccupazione, insolvenze e financo mortalità delle imprese. I liberisti del Pd teorizzano ondate di deregulation anni Ottanta, destinate a consolidare la corsa al Far West mercatista (o – se piace di più – all’economia casinò profetizzata da Keynes). C’è perfino chi annuncia il superamento del capitalismo grazie a “l’idea eterna del comunismo” e l’aedo della problematica Buona Novella – lo psichiatra di Lubiana Slavoj Zizek – è diventato un guru per numerosi under 40, illusi che il problema si riduca al tipo di regime proprietario vigente.

Insomma, la sagra delle baggianate assieme all’apoteosi del fondamentalismo dottrinario, destinato ad aggravare i problemi che vorrebbe risolvere con improvvidi atti di fede. Come all’inizio dell’anno, quando il popolare economista Luigi Zingales, nella sua rubrica su L’espresso (denominata – il va sans dire – “Libero Mercato”), puntava il dito contro Obama, il cui “crescente statalismo non sarà per gli Stati Uniti, come temeva Hayek, la via della schiavitù, ma sarà certo la via del declino”. E noi convinti che l’esplosione della bolla Usa risalisse al 2008, quando la presidenza obamiana era ancora in grembo a Giove!

D’altro canto, se uno si proclama fan dell’amico Fritz Hayek, quello che teorizzava l’apprezzabilità sociale dei ricchi sfaccendati senza i quali non si sarebbe inventato il gioco del golf… Andasse Zingales a dirlo a qualche disoccupato e poi ne riparliamo. Fatto sta che, a fronte del vuoto pneumatico nel mercato accademico delle idee, qualche outsider inizia a farsi vivo dopo trent’anni passati sotto il giogo dell’ortodossia hayekiana: le Edizioni dell’Asino hanno editato il volume “Dopo la crisi”, promosso dal team controcorrente di Sbilanciamoci!, che rimette all’onore del mondo una parola all’indice da decenni come “eguaglianza”; un gruppo di economisti fuori dal coro (Bosco, Brancaccio, Ciccone, Realfonzo e Stirati) ha stilato la propria “Lettera aperta” per una svolta economica contro la speculazione e le politiche restrittive che sta raccogliendo consistenti adesioni, tra cui quella di Marcello De Cecco. Segnale interpretabile come il maturare di condizioni per riflettere su crisi e declino dell’ordine economico fuori dagli schemi mentali che sinora hanno fossilizzato il pensiero critico e la ricerca innovativa? Nella fine della dittatura superstiziosa dell’economia come scienza esatta.

Sicchè urge l’apertura di cantieri/laboratorio per la sperimentazione. E riprendere a ragionare fuori dagli schemi. Magari approfondendo l’intuizione che la matrice del disastro economico è in larga misura politica. Perché – nonostante l’ininterrotta chiacchiera sull’autonomia dell’Economico – le pratiche e le teorie finalizzate alla creazione di ricchezza sono strettamente intrecciate con le decisioni pubbliche. Di più: la storia della modernità è attraversata dal confronto tra Politico ed Economico fin dagli albori, quando le campagne per il laissez faire celavano l’obiettivo di liberare il Capitale dai vincoli delle patenti regie per regolamentare il più lucroso business dell’epoca: la tratta degli schiavi. Tendenza riprodotta nelle mille interdipendenze successive: dall’ascesa del porto di Rotterdam come primo scalo europeo all’epopea del privatismo di Internet, nata dall’investimento statale (Arpanet); dall’avionica alle produzioni degli armamenti, la cui saldatura nel complesso militar-industriale fu dichiarata persino da un presidente degli Stati Uniti, il repubblicano conservatore Eisenhower. Il fatto significativo degli ultimi trent’anni è che il Politico ha gettato la spugna sottomettendosi all’Economico. E l’Economico (ossia il Capitalismo), lasciato a se stesso, ha fatto quanto già preconizzava Joseph Schumpeter: è andato in autocombustione. Il dibattito prossimo futuro dovrebbe riflettere sulla riparabilità o meno dell’ordine capitalistico. Non per inseguire “ritorni al passato”, quanto per prospettare ragionevoli vie del futuro.