Il “partito delle armi” e la trasversalità di guerra

di Elettra Deiana, Silvana Pisa
da www.sinistraeliberta.eu

Il “Partito delle armi” è da sempre presente anche nel Parlamento italiano: una lobby trasversale che fa egemonia, determina tutte le scelte, mantiene dritta la barra sugli interessi comuni. Che sono anche quelli del business.

Si è riaccesa in questi giorni qualche schermaglia politica sull’acquisto dei sistemi d’arma. E’ avvenuto in seguito alla decisione del governo di diminuire di 25 unità la produzione di Eurofighter, lasciando invece immutata quella degli F35. Alcuni senatori del Pd hanno avuto da ridire sulla scelta. La domanda è: meglio la produzione europea dei primi, rispetto a quella prevalentemente statunitense dei secondi? Meglio le caratteristiche strategiche di difesa degli Eurofighter, rispetto a quelle tattiche di attacco degli F35?

Si tratta di una discussione che dura da tempo ma che ha avuto sempre ambiti asfittici di confronto perché sfugge alla questione di fondo: una tecnologia bellica sempre più sofisticata ed efficace – con costi alle stelle – per che cosa? Basta la differenza del luogo e soggetto di produzione a fare la differenza? Quando il movimento pacifista ha detto la sua, in certe fasi alimentando una larga opinione pubblica decisamente ostile a questi investimenti di denaro pubblico, l’ha fatto denunciando con franchezza che si tratta, in ogni caso, armamenti destinati ad alimentare e legittimare la militarizzazione della politica estera, oltre che a pesare smisuratamente sui bilanci dello Stato.

Il “Partito delle armi” è da sempre presente anche nel Parlamento italiano: una lobby trasversale che fa egemonia, determina tutte le scelte, mantiene dritta la barra sugli interessi comuni. Che sono anche quelli del business.
Saldamente radicato nella destra – e non stupisce – è presente e numericamente maggioritario anche nel PD , come lo era del resto nella Margherita e nei DS , senza distinzione tra “dalemiani” e “veltroniani”: da Parisi a Bersani a Minniti, solo per limitarci ai diversi ruoli istituzionali. Questo ha significato per oltre vent’anni il permanere di un intreccio politico-militare-industriale che ha orientato le scelte di politica estera, di sicurezza e difesa indirizzandole verso una crescente militarizzazione del nostro profilo estero, e ha alzato muri bipartisan contro le tante voci dissonanti che si sono levate nel Paese e nelle istituzioni.

In questo scenario ha svolto un ruolo di primo piano Finmeccanica (oggi nel mirino della magistratura per l’emersione di attività “sporche”) che, attraverso i suoi dirigenti, ha influenzato e condizionato le scelte dei diversi vertici politici e militari.

Il Parlamento non è messo – o meglio non vuole mettersi – nelle condizioni di esercitare il suo ruolo di orientamento generale, di responsabilità nelle scelte concrete, di controllo su tutto quello che riguarda le spese militari.
Il “Partito delle armi” detta in maniera “condivisa” le regole del gioco parlamentare. Oltre un certo livello, non si può.

Mentre sull’acquisto dei sistemi d’arma che richiedano finanziamenti di natura straordinaria, è prevista l’approvazione con legge, per quelli finanziati con bilancio ordinario è sufficiente il decreto del ministro della Difesa, previo parere, obbligatorio ma per lo più formale, delle competenti commissioni parlamentari (art.1 legge 436/88).
Su tutto pesa negativamente la mancanza di un’efficace strumentazione di controllo da parte del Parlamento; soprattutto non c’è una sede che consenta una visione d’insieme dei vari programmi, che vengono presentati via via nell’arco di questa o quella legislatura, con meccanismi di lettura per lo più tecnici e separati rispetto all’insieme della spesa e delle finalità del comparto difesa.

Inoltre manca l’obbligo per legge di un piano di determinazione delle scelte, di spesa e di controllo dei costi nell’arco del periodo di produzione dei programmi.
Tutto ciò rende difficile legare le esigenze di politica estera del nostro Paese, e le scelte strategiche e militari che ne conseguono, alla valutazione di quanto questo o quell’armamento sia necessario e quale debbano essere le priorità di spesa pubblica anche in relazione alle diverse congiunture economiche. Senza contare che manca totalmente una qualsiasi attività di monitoraggio del Parlamento sul reale funzionamento di ogni singolo programma d’arma.

Il lavoro parlamentare è insomma quanto mai complicato e spesso poco incisivo su un terreno che è invece fondamentale e sempre più significativo nel bilancio del Paese e nel profilo politico-istituzionale della Repubblica.

Alla logica dei luoghi separati e riservati dove vengono prese le decisioni vere – in primis gli Stati Maggiori – riescono a sfuggire quei sistemi d’arma che per il loro significato politico oltre che per l’incidenza economica costituiscono dei “casi”. E’ stato così prima per l’Euroofighter, la cui fase iniziale risale al 1980 (la partecipazione italiana al programma deciso in prima battuta da Inghilterra Germania, Francia, è del 1981) e i cui costi sono andando lievitando nel tempo; poi per l’ F 35, già JFS.

In particolare contro l’F35, per le conclamate caratteristiche di aereo da guerra, la mobilitazione del mondo pacifista e l’aspro confronto parlamentare della XIV e XV legislatura ne hanno reso più difficile il cammino, allungandone i tempi di realizzazione. Ma l’F35 gode dell’appoggio incondizionato del governo. Di questo come del precedente, a essere chiare.

La presa di posizione dei senatori del Pd contrari al tagli degli Eurofighter, opinione che, per le cose dette, non è affatto maggioritaria nello stesso PD (Parisi si è recentemente vantato di avere raddoppiato, da Ministro, le spese in armamenti e Bersani reggeva il dicastero dello Sviluppo economico quando sono stati finanziati gli F35), può costituire il terreno di un confronto con quel partito sul tema quasi ormai obsoleto della difesa europea, del ruolo di una Nato sempre più “pentagonizzata” in Europa, di quale sia il modo migliore di investire le risorse che abbiamo a disposizione per aiutare Paesi come l’Afghanistan.

Sistemi d’aria, che costano un occhio anche se di produzione europea? Non parliamo poi del’F35, vero e proprio buco nero, oltre che statunitense doc. Il vero tema che resta saldamente sul tavolo è un altro:“ con armamenti? e quali e per quali scenari di politica estera dobbiamo attrezzarci?”.
E’ su questo terreno che va riaperto a fondo il confronto e Sinistra Ecologia Libertà deve cominciare a misurarsi con determinazione.

Nelle frequenti proteste contro l’abbandono della nostra Costituzione di cui si è reso dichiaratamente protagonista il Governo Berlusconi, non abbiamo sentito voci del Pd che si levassero per il rispetto dell’articolo 11. Così come è stato completo il silenzio di questo partito su una politica di pace che dovrebbe essere legata al ruolo delle Nazioni Unite e dell’Europa anziché agli Usa per interposta Nato. Il che è la stessa cosa. Le connessioni di cui sopra, a partire dall’articolo 11, dovrebbero determinare le scelte della politica estera, di sicurezza e difesa del nostro paese e il suo ruolo in Europa e con gli alleati di ogni ordine e collocazione.

Il rifiuto delle logiche di guerra ( una definitiva opzione per la pace e il disarmo) deve essere uno dei cardini nella costruzione, oggi, di un’opposizione in Parlamento e nel paese, domani di una possibile coalizione per l’alternanza. Compromessi accettati in passato non hanno pagato e hanno travolto la Sinistra.

Per questo, nei prossimi giorni in cui si discuterà il decreto sulle missioni internazionali, occorre far chiarezza. Si tratta di un’occasione per approfondire la missione afgana ISAF: come mai, pur essendo ISAF, una missione ufficialmente guidata dalla Nato, il comando militare è affidato ad un generale USA esterno all’Alleanza atlantica?

Perché i comandanti dell’ISAF non vengono nominati a Bruxelles – sede dell’Alleanza – ma direttamente a Washington? Perché dei miliardi stanziati dai paesi donatori sono arrivati nelle mani degli afgani solo un quinto? Perché il finanziamento dell’Italia ha un rapporto di dieci a due tra militare e ricostruzione civile?

Perché Canada e Olanda (Paesi membri della Nato) si ritireranno a breve, mentre il ministro Frattini sostiene che l’Italia resterà almeno fino al 2013? Non sarebbe il caso che l’Unione Europea facesse un autonomo bilancio sugli esiti di una guerra disastrosa che – come dichiarano tutti gli analisti – “ non si può’ vincere”?

Le notizie svelate da Wikileakes non fanno che confermare il disastro e la devastazione della lunga guerra e occupazione militare dell’Afghanistan da parte delle potenze dell’Occidente.

E dunque si può ancora sopportare che il ministro della Difesa La Russa contribuisca a questo fallimentare “surge”con l’aumento di ben 1000 militari ?

Da tempo, fin dalla primavera del 2007, denunciammo che in quel teatro i militari italiani (ad iniziare dai corpi speciali) partecipavano ad operazioni di guerra. La definimmo la zona grigia della millantata missione di pace. Grigia perché velata dalle complicità di tutti i vertici e da tutti i segreti di Stato, mentre i fatti parlavano sempre più chiaramente. L’Italia era soggetto attivo di una guerra. La Russa ha virilmente rivendicato l’essere quella una guerra. Stupisce semmai che queste affermazioni non abbiano scalfito il presidente Napolitano che continua a parlare di “missione umanitaria e di pace per sconfiggere il terrorismo” senza indignarsi per le tante vittime civili e senza interrogarsi sulla vera natura della missione.

Che ruolo hanno i Mangusta nostrani nelle continue stragi di civili che avvengono nelle zone di guerra dell’Afghanistan?

Noi continuiamo a pretendere che una chiarezza completa venga fatta su tutto questo, ritenendo anche che sia il contesto più adatto per una discussione di senso politico sui sistemi d’arma e sulle spese militari.