SOTTO L’OBELISCO DELLA LAICITÀ

di Paolo Rumiz
da la Repubblica, 14 agosrto 2010

A Torino le chiese non stanno nelle piazze, presidiate solo dai monumenti agli eroi e alle leggi illuminate di Casa Savoia. Come quella che abolì il foro ecclesiastico

Non posso farci niente se una volta l’Italia era un Paese anticlericale. Non posso farci niente se in questo viaggio risorgimentale trovo continuamente segni e parole di una laicità forte che sono obbligato a riportare; una laicità condivisa in parlamento da tutti i partiti, e parole che oggi nessuno oserebbe pronunciare. Non è colpa mia se Torino è una città dove le chiese non stanno nelle piazze, perché le piazze sono luogo civico e nient’altro, presidiato solo da monumenti di eroi. Mi dicono che qui un vescovo che osò remare contro le leggi dello Stato fu spedito in esilio dal governo d’Azeglio. Fu la dinastia piemontese a liberare il papato dell’ingombro del suo potere temporale, e fu sempre la dinastia sabauda a non volere il crocefisso nelle scuole italiane, perché la classe non era sacrestia.

Fu invece Mussolini a rimettercelo, nel 1929. “Prima a iera nen”, dicono qui. Prima eravamo uno Stato laico. Cara vecchia Torino, città caserma e bomboniera, faccia sabauda e cuore borbonico degli immigrati Fiat, città multietnica con i panni maghrebini sulle terrazze. Torino solida di portici e con pioggia senza ombrello, senza la puzza sotto il naso di Milano. Città con le valli della Resistenza, città europea – forse l’unica d’Italia – che sta tornando capitale e forse avrebbe dovuto rimanerlo. Torino, ancora, con un sindaco che non sega la panchine ma le inaugura e apre i mercatini di rione. Dal Veneto al Piemonte ho assistito a una mutazione inesorabile. In percentuale, il Veneto ha il doppio delle parrocchie della Lombardia. E la Lombardia ha la metà dei tribunali del Piemonte. È un Nord bipolare: a Est il campanile, e a Ovest il palazzo reale. La presenza forte dello Stato laico. La senti dappertutto, sotto le Alpi Cozie.

Mio figlio Michele a Torino ci abita felice come un topo nel formaggio. Mi aspetta in piazza Madama Cristina, tra pizzerie e bancarelle, mentre la Mole si accende di giallo, e insieme andiamo a farci un kebab da Horas, l’egiziano di San Salvario. I camerieri accolgono la clientela chiedendo: “Vuoi mangiare, calabrese?”, oppure “Siediti là, sporco negro”, ed è quanto basta a fare allegria. I rancori etnici dell’Italia metropolitana sono lontani come la Luna.

Anche qui, la leggenda sta nelle targhe sulle strade. In via Santa Teresa ce n’è una assai speciale. Dice: “Giuseppe Garibaldi / libero muratore / qui / disse al popolo / libere parole / il dì XI marzo MDCCCLXVIII / Le logge di Torino / un anno dopo la sua morte / nel dì XI giugno MDCCCLXXXIII / quale memoria posero”. Orrore, Garibaldi massone! Peccato che i primi ad accusarlo sono massoni a loro volta, e di tutt’altra risma. Non ci sono più i “muratori” di una volta, che combattevano per la libertà dei popoli.

Ma ora vi racconto come ho trovato il “Sacco nero”, la rubrica mangiapreti che imperversò sulla piemontese Gazzetta del Popolo negli anni precedenti all’Unità. Non era roba firmata da Garibaldi, oggi demolito dai clericali come assassino, terrorista e ladro di cavalli. Quello era il Piemonte conservatore del conte di Cavour, di cui nessuno si lamenta. Cavour, che fu scomunicato come Gioberti. O come il federalista Cattaneo, tanto caro alla Lega. Non era morbido con i preti, il conte che fu primo premier d’Italia. Nei fatti, era più duro di Garibaldi, e con lui il partito dei liberali moderati. Non era “un precursore del federalismo”, come lo ha descritto Cota, governatore leghista del Piemonte. I cavouriani, come il premier Minghetti, furono il contrario. Sostenitori acerrimi di un centralismo basato su governatori provinciali di nomina regia. Ma vallo a spiegare a chi non vuol capire.

Il ritrovamento del “Sacco nero” ha inizio in una stupenda serata torinese, dall’incontro con Adriano Viarengo, biografo di Cavour, sui velluti rossi del caffè Fiorio, che di Cavour era il locale preferito. È in questo posto da pasticcini e rosolio che il bipolarismo tra i due eroi dell’unità si illumina in tutta la sua evidenza. “Garibaldi era un liberatore che non sapeva come organizzare la libertà” mentre Cavour lo sapeva benissimo. Ed è qui che emergono i dettagli di una guerra sorda, tutta piemontese, tra potere civile e religioso. “Per capire venga con me in piazza Savoia” ordina Viarengo. C’è un obelisco del 1853 di cui nessuno legge la scritta. Eccola: “La legge è uguale per tutti”, e poco in là: “Abolito / da legge 9 aprile 1850 / il foro ecclesiastico / Popolo e municipio posero”. In calce, il nome di centinaia di municipi e comunità che aderirono alla sottoscrizione per il monumento. È il monumento alle leggi Siccardi, che cancellano la magistratura religiosa, limitano la possibilità di far testamento in favore della Chiesa e anche il numero, esorbitante, di feste religiose. “Da allora non vi fu più pace tra vescovi e monarchia” racconta l’uomo di Cavour. Molti preti attuarono ritorsioni contro i partigiani dello Stato laico, rifiutandosi di dar loro l’assoluzione o di impartire l’estrema unzione. Lo Stato rispondeva a muso duro, sottoponendo i sunnominati al giudizio della magistratura ordinaria.

La casa di Viarengo all’imbocco della Valsusa è una montagna di libri, faldoni, appunti e giornali, tutti più vecchi di un secolo. “Sa, per me il novecento non esiste”, sorride scavando nei vecchi numeri della Gazzetta del Popolo come se cercasse nel fondo del tempo. “Qui ce ne sono delle belle”. Cerca, nel suo immenso disordine, finché una storia vien fuori. Quella di tale Giuseppe Dario da Felizzano, che in punto di morte chiamò il confessore, il quale “gli disse di non poterlo assolvere se non disdiceva e ritrattava la sottoscrizione sua al monumento per le leggi Siccardi, di cui si era fatto zelante raccoglitore nei dintorni”. “Grazie a Dio – prosegue la nota listata a lutto – non prevalsero le perfide macchinazioni ed i neri artifizi del fariseo moderno. Giuseppe Dario raccolse al cuore tutta la sua virtù, si mostrò cittadino italiano e disse: “Io so di non aver fatto male; piuttosto di ritrattare la mia sottoscrizione, muoio senza sacramenti e spero in Dio””. Continua: “Entrarono nella camera del moribondo, colà tratti dallo strepito, la moglie, i parenti e gli amici e sentirono dalla sua bocca l’avvenimento” e chiamarono “il signor prevosto di Rubiana, il quale, da vero pastore e da vero italiano, gli amministrò i sacramenti”.

Vengono fuori altre storie simili, come quella di Pietro di Santarosa cui pure vengono negati i sacramenti, e intanto arriva in tavola un brasato fumante con patate al forno e un rosso Pelaverga. “Altroché Garibaldi. Se Cavour fosse al posto di Berlusconi – ghigna l’archeologo dell’Ottocento – non solo non ci sarebbe un euro per le scuole religiose e private, ma in presenza di certi scandali di oggi avremmo qualche vescovo in manette”.