Povero Pakistan, la pietà è morta

di Fabio Nicolucci
da Il Mattino, venerdì 20 agosto 2010

L’apocalittica inondazione che ha allagato in Pakistan quasi tutta la grande valle dell’Indo ha sommerso tutto. Persone e cose. Ma anche la nostra pietà. Non si spiega altrimenti come un disastro naturale peggiore dello tsunami del 2004, del terremoto in Pakistan del 2005 e del terremoto di Haiti messi insieme, non abbia suscitato grande attenzione in occidente.

Nonostante i milioni di occhi sgomenti e di braccia levate dalle acque melmose verso il cielo e gli scarsi aiuti. Così scarsi da far sorgere una domanda politicamente scorretta: siamo in presenza di una punizione collettiva verso i pakistani per la diffusa corruzione dei loro leader e per il poco chiaro legame con gruppi islamici terroristici e militanti?

Siamo stati “razzisti”, sia pure per diffidenza? Se fosse così, sarebbe drammatico per ciò che dice su di noi. E se non si tratta di questo, perché allora questo disastro ha raccolto finora solo il 30% dei 450 milioni di dollari necessari per la prima emergenza? Eppure per Haiti, nella prima settimana, fu raccolto più di un miliardo.

Da qualche giorno si vedono piccoli sforzi qua e là di cancellare questa vergogna e di dare una risposta più sollecita. Lo speriamo davvero. Ma anche ci fosse una tardiva resipiscenza di umanità e intelligenza politica, rimane la domanda inquietante sul perché di questa rimozione.

Non accade perché il disastro è lieve. Il disastro infatti è epocale, e talmente profondo da annoverarsi tra le catastrofi che cambiano la storia. Esso ha colpito più di 20 milioni di persone e più di 2500 villaggi lungo più di mille chilometri di estensione.

I cadaveri sono già più di 1600, ma come per tutte le inondazioni la vera ondata di morte arriverà qualche tempo dopo quella dell’acqua: quando nel calore di agosto le epidemie che germinano nell’acqua putrida di corpi, carogne di animali e cose marce si cominceranno a diffondere.

Il primo caso di colera è stato segnalato sabato a Mingora, la principale città della valle dello Swat. Sarà allora che la mancanza di acqua potabile, di cibo e di riparo mieterà vittime, prima di tutto tra i 3 milioni e mezzo di bambini che si trovano nelle aree allagate.

Il disastro è poi stato doppiamente ingiusto. In senso censitario, in quanto è la popolazione rurale più povera a sopportare il peso della disgrazia: sue sono la maggior parte delle 723mila case distrutte.

E in senso territoriale, in quanto esso ha colpito con più violenza due regioni, il Balucistan e la provincia della Frontiera del Nord Ovest, dove furoreggiano conflitti etnici e di classe. Ma per sfortuna delle sfortune, queste due regioni sono note per lo più per essere dimora di forti gruppi islamisti.

Quindi alla disgrazia per molti dei colpiti di essere già profughi si aggiunge quella della “cattiva stampa”. Ciò spiega forse in parte l’avara lentezza dei soccorsi. Del governo pakistano, che sperimenterà qui il suo uragano “Katrina”.

E della comunità internazionale, che non può certo invocare di essere colta di sorpresa, visto che il 29 luglio sono cominciate piogge così forti da portare il 6 agosto alla rottura dell’argine Taunsa dell’Indo da cui è cominciata l’inondazione.

Questa inondazione è però caduta nel momento in cui la parte ricca del mondo va in vacanza. E allora forse oltre al “deficit di immagine” del Pakistan, si può pensare anche al crudele fatto che eravamo occupati in altro – mai toccare il sacro svago ferragostano – oltre che poco sensibili alla morte in differita di un’inondazione rispetto ad un evento subito traumatico come un terremoto.

Dunque questa tragedia parla di noi. Di quello che siamo come esseri umani e cittadini, e di quello che vogliamo essere come Stati: ne vogliamo uno in ginocchio tra milioni di profughi, con islamisti desiderosi dei suoi armamenti nucleari, e tanto risentimento verso l’esterno?

Già oggi il noto commentatore pakistano Zaid Hamid parla senza vergogna di un’inondazione “senza dubbio” prodotta da India e Usa per colpire il Pakistan con la connivenza del governo, dato che la diga sul fiume Kabul è gestita da indiani. In realtà, il vero allarme scientifico proviene dallo scioglimento precoce del ghiacciaio dell’Himalaya, che alimenta l’Indo.

Ma sarebbe pericoloso per tutti sottovalutare questo allarme politico. E doppiamente pericoloso per la nostra salute morale non ascoltare quello umanitario. Allora, mano al portafoglio. Cosa sempre doverosa in questi casi, oggi tanto più impellente in quanto sono in pericolo alcuni milioni di bambini. Che saranno pure islamici e poveri, ma sempre figli nostri rimangono.