Quello che la Rete sa di te

di Carlo Musilli
da www.altrenotizie.org

Nessuno ti conosce meglio di Google. Se pensavi di usare quella home page colorata come un diario segreto, ti sbagliavi. Le idee politiche, i gusti letterari, cinematografici, sessuali, la religione, le passioni, la banca dove incassi lo stipendio e le e-mail che mandi a tua moglie e alla tua amante. Google sa tutto, perfino dove sei. Lo sa perché ti spia attraverso un buco della serratura gigantesco, fatto di siti internet, software e cookies (piccoli file testuali usati, fra l’altro, per “tracciare” l’attività di chi naviga).

Dopo di che ti scheda: il tuo profilo rimane conservato per un anno e mezzo in un database infinito, ramificato in 450mila server sparsi nel pianeta. Lo rivelano due inchieste di Repubblica e del Wall Street Journal. Il motivo di tutto questo? Il modo migliore per fare soldi è vendere pubblicità, la pubblicità migliore è quella che ti conosce. Il problema del target non esiste più, in qualsiasi sito tu vada troverai inserzioni di prodotti e servizi che ti calzano a pennello. Lo chiamano “behavioral advertisement”: violento, invadente, dannatamente efficace.

Il percorso è stato lungo. Per anni Google resiste alla tentazione di usare metodi aggressivi nella raccolta di dati a fini pubblicitari, ritenendo che possa rivelarsi un boomerang a livello d’immagine. Ma il rapido emergere di concorrenti abituati a tracciare l’attività online degli utenti, per poi rivenderne gli identikit, costringe Google a cambiare politica. A poco a poco i due fondatori, Sergey Brin e Larry Page, si convincono della possibilità di sfruttare l’enorme quantità di dati a loro disposizione senza per questo fare un torto agli utenti. “I fondatori ritengono in questo modo di poter migliorare l’esperienza degli utenti sul web – sostiene Alma Whitten, capo del Privacy Council dell’azienda – ciò che va bene per il consumatore, va bene per l’inserzionista”.

In verità, il signor Page ci mette parecchio ad abbandonare le sue posizioni: fino all’ultimo continua a professare il “contextual targeting”, che consiste nel pubblicizzare su una pagina web un prodotto coerente con l’argomento trattato nella pagina stessa. Risultato: fino al 2006 Yahoo massacra Google sul mercato della pubblicità online. I top-manager di Mountain View non si danno pace e nel 2007 riescono a far acquistare all’azienda la DoubleClick, impresa regina della pubblicità visuale su Internet. Più di tre miliardi di dollari per far amare i cookies a Mr. Page.

Finalmente Google inizia a istallare i ‘file spioni’ sui pc dei suoi utenti, ma ancora per qualche mese evita di usarli. Nuove resistenze dai vertici. Stavolta non da Page, ormai convertito, ma da Brin. Nel corso di un meeting leggendario fra i dipendenti di Mountain View, i due tycoon arrivano a urlarsi in faccia. Alla fine prevalgono le ragioni della ‘pubblicità personalizzata’. Il servizio parte a marzo del 2009, riservato a un ristretto gruppo di facoltosi inserzionisti.

Se per anni il sito più potente è stato quello con il maggior numero di visitatori, oggi non è più così: il vero leader è quello con il database più ricco. E Google è invincibile. Non solo ha il maggior numero di account schedati, ma anche il maggior numero di informazioni per singolo utente. Nel 2009 l’azienda ha vinto la medaglia d’oro per il fatturato, con 23,7 miliardi di dollari. Più del triplo dei guadagni di Yahoo, medaglia d’argento. Ma la minaccia più seria per Google non viene dagli altri motori di ricerca; il vero nemico è Facebook. Il social network più importante della rete è in grado di vendere pubblicità con target dettagliatissimi dei suoi utenti (più di 500 milioni di persone).

Bisogna correre ai ripari: Google sta già progettando il suo nuovo servizio di social network. Non solo, l’azienda di Mountain View intende copiare da “Facebook” anche qualcosa di più specifico, il bottoncino “Mi piace”. Chiunque abbia un profilo in rete lo conosce, anche se di solito lo considera un particolare insignificante, un quadratino su cui cliccare distrattamente per comunicare a qualche centinaio di amici cose come “mi piace il crème caramel”, “mi piace lady Gaga”. Non è una sciocchezza, ma una vera e propria miniera d’oro. Riuscite ad immaginare quali formidabili profili da “behavioural advertisement” si possano creare con informazioni del genere?

In ogni caso, l’attentato alla nostra privacy non è mortale. Esiste perfino un margine di discrezione. Ad esempio, Google non utilizza i dati raccolti da uno dei suoi servizi per inseguirvi con pubblicità personalizzate in qualsiasi angolo sperduto del Web. E’ vero, se avete un account Gmail, Google non si fa problemi a ficcare il naso in quello che scrivete e che ricevete, ma solo per spiattellarvi la pubblicità più azzeccata la prossima volta che aprirete la stessa pagina di Gmail.

Non è questa una gran consolazione e Google lo sa, per questo si affretta ad assicurare che “la maggior parte” delle informazioni raccolte non sono associate all’utente tramite il nome, ma attraverso un codice numerico. Si fa fatica a capire quale dovrebbe essere la parte rassicurante: anche se compariamo sotto forma di numeri, in realtà il nostro anonimato è lasciato al buon cuore di chi ci controlla. Per risalire al nostro nome non ci vuole davvero un hacker; basta un nostro accesso in Facebook o nella posta elettronica e il gioco è fatto.

Com’era prevedibile, la rete è piena di post in difesa di Re Google. Si dice che nel mondo di internet i dati che ti riguardano non sono di tua proprietà finché non ti preoccupi di proteggerli. In effetti, un modo per impedire ai siti di “tracciarti” esiste, ma scoprire quale si è lasciato alla tua abilità. L’obiezione più ragionevole è però quella che pone l’accento sui rapporti economici: se siti come Google, Facebook o Yahoo non avessero fatto pubblicità personalizzata, non avrebbero mai avuto i milioni di dollari necessari a sviluppare i servizi di cui tutti noi oggi godiamo.

Una contropartita c’è, quindi. Ma il punto è che la maggior parte degli utenti non aveva compreso di dover dare qualcosa in cambio. E’ facile prendersela con l’insipienza di molti frequentatori del Web: navigare senza sapere cos’è un cookie – si dice – è come iniziare a fumare senza sapere che fa male. Peccato che sui pacchetti di sigarette sia almeno scritto a caratteri cubitali che “il fumo uccide”, mentre sotto il logo colorato di Google nessuno ha mai specificato “ti sta guardando”.