L’AUTOCRITICA DEI CATTOLICI

di Gian Enrico Rusconi
da La Stampa, 22 agosto 2010

Il mondo cattolico è turbato, la Chiesa è perplessa davanti al penoso spettacolo della politica. Ma quale mondo cattolico, quale Chiesa? Quelli che una volta si chiamavano cattolici democratici o «di base», diffamati come catto-comunisti perché avevano sempre sulla bocca «il sociale»?

O l’inossidabile Cl, che ancora oggi all’inizio del suo Meeting annuale, critica con toni perentori e con buoni argomenti la classe politica italiana come se le fosse estranea e non avesse da anni intensi legami con essa? Entrambi i raggruppamenti, anche se in Cl non ho visto sinora alcun cenno di autocritica da parte dei loro uomini che sono (stati) oggettivamente organici al berlusconismo.

Immagino subito l’obiezione: perché parlate di queste volgarità quando il nostro sguardo di fede punta in alto? I politici che interverranno anche quest’anno al Meeting, avranno davanti a sé una platea il cui applauso non esclude affatto il rimprovero per ciò che non è stato fatto o è stato fatto male. Peccato che sono decenni che questo scambio di critiche con simpatia si ripete con modesto risultato. Sono passati da Rimini tutti i politici che contano (nell’anno in corso), senza che la politica italiana sia migliorata. Anzi. Proprio oggi che la sinistra e il suo deprecabile laicismo sono ridotti all’impotenza politica, sembra che si sia toccato il fondo – lo dicono sia su «Famiglia cristiana» che nel Meeting di Cl.

Ma a questi cattolici, giustamente preoccupati per la politica, non viene il dubbio che occorre una diagnosi più esigente magari con un po’ più di autocritica? Che la soluzione vincente non è certo quella di rimpastare i cocci di un vecchio centro? O farsi tentare da una nuova formazione politica che fa della questione bioetica l’asse trasversale tra i due schieramenti? «La società italiana finora è riuscita a rigenerarsi indipendentemente dal potere. Ma quanto può reggere con una politica così distante, livida, ideologica?» – si chiede il responsabile di Cl.

Credo che la diagnosi debba essere più radicale e impietosa: è la società civile italiana che è allo sbaraglio e in pieno disorientamento. Molte patologie sociali (assenza di senso civico e di senso di appartenenza ad una comunità nazionale, complicità di molti gruppi sociali e di aree regionali con la criminalità organizzata, lassismo generalizzato verso le leggi, comportamenti antisolidali e razzismo latente) non provengono da fuori, dalla politica, ma dal ventre della società civile priva di anticorpi morali. Non si tratta naturalmente di negare l’esistenza di gruppi, settori e strati di «società civile» che reagiscono, che sono attivi per realizzare una democrazia decente. Certamente in prima fila ci sono i gruppi cattolici. Ma è il loro rapporto con la politica che è fallito. Questo è il punto. Altrimenti non sarebbe venuto fuori il berlusconismo che ha sedotto molti cattolici.

La leadership carismatica, che oggi si mette sotto accusa, non è un disvalore in sé (magari ci fossero in giro autentici leader carismatici!). Distruttiva è la sua costruzione fasulla attraverso il sistema mediatico, attraverso la disgregazione della comunità dei cittadini in un «popolo-di-elettori» che agisce in senso plebiscitario. La democrazia si è ridotta alla manifestazione del voto che delega tutto al leader. Più le differenze materiali di classe si confondono nella complessità delle fonti di reddito e delle (spesso precarie) posizioni di lavoro, più le differenze si mimetizzano nella pluralità degli stili di vita e di consumo – più si crea la finzione di un «popolo» unito che fa coincidere i suoi interessi con quelli (privati) del leader. Non c’entra il carisma, ma la complicità degli interessi.

Ancora più drammatica è l’assenza di una classe dirigente, che sia degna di questo nome. Il berlusconismo ha inciso in modo irreversibile sulla mutazione della democrazia italiana, creando un ceto politico chiamato solo a sanzionare (con il voto parlamentare) le decisioni del leader senza essere coinvolto nei processi deliberativi. Un ceto politico siffatto non è «dirigente» ma solo esecutore.

Ma dov’è la restante classe dirigente del Paese? La classe cui appartengono i responsabili dell’economia e della finanza, delle organizzazioni del lavoro, i responsabili del sistema educativo, i gerenti del sistema mediatico e i soggetti culturali in tutte le loro espressioni (quelli che una volta si chiamavano gli intellettuali). Dovremmo aggiungere anche gli esponenti della Chiesa, cui di fatto è demandata l’etica pubblica che sembra tuttavia essere in grado di mobilitare le coscienze soltanto quando si tratta delle questioni attinenti «la vita». Tutti i gruppi che costituiscono la classe dirigente sembrano appiattiti, intimiditi talvolta deferenti davanti al potente leader mediatico. Ma sono sottilmente suoi complici quando alla politica chiedono soltanto aiuti particolari, facilitazioni, concessioni, deroghe e sanatorie anziché un grande disegno di carattere generale.

È su questo sfondo che i cattolici italiani devono ripensare radicalmente il rapporto tra politica e società civile, di cui si sentono a ragione parte rilevante. Non possono limitarsi a scaricare la responsabilità sulla cattiva politica del presente. Una schietta autocritica sulla loro esperienza dell’ultimo quindicennio è la premessa per ricominciare con maggiore coerenza e credibilità. La società civile ha bisogno della politica.