La legge della Fiat

di Mariavittoria Orsolato
da www.rassegna.it

Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli: tre nomi comuni per altrettanti uomini comuni. Uomini, operai che non chiedono il posto in paradiso come preconizzava fiducioso il film di Petri ma, come il primo protagonista della pellicola Lulù Massa, ambiscono solo a macinare più pezzi possibile nella mastodontica catena della Fiat di Melfi. Erano stati sospesi l’8 luglio, poi licenziati il 13 e il 14 dello stesso mese perché, durante un corteo interno alla fabbrica, avevano bloccato un carrello che in quel momento andava a rifornire di materiale gli operai regolarmente al lavoro.

Barozzino e Lamorte sono due sindacalisti Fiom, Pignatelli un semplice iscritto. Ai licenziamenti seguono scioperi, proteste e una manifestazione della Fiom: i tre occupano per alcuni giorni il tetto della Porta Venosina, il più importante monumento nel centro storico di Melfi. Un clamore che, una volta tanto, è servito a smuovere le acque e a portare ad una sentenza con cui il giudice del lavoro di Potenza sanciva il reintegro a pieno titolo nello stabilimento Fiat per tutti e tre gli operai.

Com’è ovvio e lecito la Fabbrica Italiana Automobili Torino ha impugnato immediatamente il pronunciamento del giudice, nella (vana) speranza di veder accolta un’istanza che anche al più sprovveduto dei giuristi risulterebbe, a prima occhiata, antisindacale. Con questo spirito, lo scorso sabato i dirigenti del Lingotto hanno fatto recapitare ai tre operai un cortese e conciso telegramma nel quale si pregavano i lavoratori di esimersi dal presentarsi dinanzi ai cancelli il lunedì successivo, giorno in cui lo stabilimento avrebbe riaperto dopo le canoniche ferie estive.

Da Torino assicuravano che la sentenza sarebbe stata rispettata negli oneri economici fino al 6 ottobre – data in cui è fissata la discussione sul ricorso Fiat – ma che nel frattempo l’azienda avrebbe fatto volentieri a meno dei servigi della sua manodopera; ma i tre “parassiti” (così un certo giornalettismo ha cortesemente ribattezzato gli operai in lotta sindacale) si sono fatti trovare puntuali ai cancelli di Melfi per il turno delle 14, accompagnati dai loro avvocati e da un ufficiale giudiziario, che aveva il compito di notificare il provvedimento di reintegro del giudice del lavoro.

Poco dopo aver passato i tornelli, però, una guardia della vigilanza ha bloccato l’ingresso alla catena e ha dirottato Barozzino, Lamorte e Pignatelli nel suo prefabbricato. Meno di mezz’ora più tardi arriva la circolare aziendale: all’interno si può leggere come la Fiat abbia deciso di concedere agli operai le sole mansioni sindacali e pertanto avrebbe messo pertanto a disposizione degli operai una saletta dove passare i prossimi 43 giorni lavorativi.

Subito la Fiom ha presentato una denuncia penale, ricusando la casa automobilistica per inottemperanza della sentenza, ma in una nota la Fiat si giustifica chiosando che “la decisione di non avvalersi della sola prestazione di attività lavorativa dei tre interessati, costituisce prassi consolidata nelle cause di lavoro e ha l’obiettivo di evitare ulteriori occasioni di lite tra le parti in causa e trova, nel caso specifico – si legge ancora nella nota – ampia e giustificata motivazione nei comportamenti contestati che, in attesa del completarsi degli accertamenti processuali, si riflettono negativamente sul rapporto fiduciario fra azienda e lavoratori”.

Insomma vivere da separati in casa non piace a nessuno, se poi si tratta di sindacalisti o simpatizzanti tali, meglio isolarli prima che facciano altri danni. La devono aver pensata così Marchionne e il suo maglioncino di cachemire, alteri e sprezzanti di fronte a quella che – se ne facciano una ragione in Confindustria – è, e rimane, una legge dello Stato garantita e blindata dalla Costituzione. Quello stesso articolo 18 che per “reintegro” non intende la sola riammissione fisica sul posto di lavoro, ma prevede che al licenziato per ingiusta causa vengano restituite le stesse identiche mansioni che copriva prima dell’allontanamento.

Con la pretesa di aggirare furbescamente l’ostacolo legale, la grande azienda di Torino si spinge per la prima volta oltre il limite consentito dall’ordinamento e dal buon gusto, ma dovrebbe sapere che l’inottemperanza verso una sentenza di Tribunale, non è consentita a nessuno. Marchionne, probabilmente, ritiene di essere al di sopra della legge, tranne quando essa favorisce le sue operazioni d’ingegneria debitoria sulle spalle dei contribuenti.

Dimentica forse che la Fiat è un’araba fenice che risorge imperitura dalle sue ceneri solo grazie agli ingenti aiuti statali cui noi cittadini tutti contribuiamo lautamente. Sarebbe bene, quindi, che la politica ricordasse al sovrano del Lingotto che nessuno può sottrarsi – meno che mai un’azienda che sopravvive solo grazie all’aiuto pubblico – dal rispetto delle norme che costituiscono l’alberatura delle relazioni industriali. Ma – ahinoi – la politica ha tutt’altro a cui pensare in questa calda estate.

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Fiat: il padrone e i suoi discepoli

di Ilvio Pannullo

Dopo Termini Imerese e dopo Pomigliano d’Arco, in casa Fiat è giunta l’ora della capitolazione anche per Mirafiori. Il cuore di quello che fu l’impero Fiat, acronimo per Fabbrica Italiana Automobili Torino, pare sia prossimo a fermarsi. Dopo aver infatti deciso unilateralmente l’abbandono della Sicilia, con l’infausta decisione di mettere in vendita lo stabilimento di Termini Imerese, nonostante il debito morale ma anche – se non soprattutto – economico che l’azienda torinese ha nei confronti dello Stato italiano; dopo l’ignobile ricatto tentato contro i lavoratori dello stabilimento di Pomigliano d’Arco, chiamati a scegliere tra i diritti costituzionalmente garantiti dal nostro ordinamento ed il lavoro, ecco l’ultimo affronto alla decenza.

L’ultimo – purtroppo solo in ordine di tempo – schiaffo alla dignità di un paese che sembra oramai capace di digerire tutto. La Fiat intenderebbe chiudere o comunque ridimensionare drasticamente lo stabilimento torinese di Mirafiori, per spostare strategicamente la produzione di autoveicoli in Serbia.

Il Presidente del Consiglio Berlusconi è puntualmente intervenuto, parlando della vicenda nel corso della conferenza stampa con il presidente russo, Dimitri Medvedev. Chiamato ad esprimere un giudizio sulla questione che sta ragionevolmente agitando le parti sociali, ha dichiarato che “in una libera economia e in un libero Stato un gruppo industriale è libero di collocare dove è più conveniente la propria produzione”. Salvo poi, con un salto logico degno del miglior Ponzio Pilato, precisare che il suo augurio è che “questo non accada a scapito dell’Italia e degli addetti cui la Fiat offre il lavoro”.

Un po’ come dire che se le regole esistono vanno rispettate, ma non ugualmente nei confronti di tutti i soggetti potenzialmente coinvolti. Ovviamente sono dichiarazioni di rito, di cui è possibile indagare il peso ed il reale valore solo se lette in concerto con quelle rese dal titolare del Ministero del Lavoro, quel Maurizio Sacconi tanto fedele al premier quanto strenuo oppositore di ogni forza sindacale degna di questo nome.

Ad affermare che esista un filo conduttore comune tra le recenti vicissitudini che hanno interessato l’azienda torinese, è infatti proprio il Ministro del Lavoro. Secondo Sacconi, il legame fondamentale sarebbe rappresentato da una ”buona utilizzazione degli impianti”, valutazione questa basata “soprattutto sulle relazioni industriali” . “Fiat – ha aggiunto il Ministro – cerca l’incentivo all’investimento nell’ambito di comportamenti sindacali cooperanti”.

Senza un sindacato piegato alle esigenze imposte dal dogma del mercato, un sindacato cioè pronto a soddisfare le volontà dell’amministratore della società anche quando queste contrastino apertamente con i diritti riconosciuti ai lavoratori dalla Costituzione, non si va – parrebbe di capire – da nessuna parte. La colpa non è dell’azienda che delocalizza e tanto meno del governo per definizione da sussidiario sempre attivissimo, ma del sindacato che non collabora. Con l’Italia che rischia così di perdere migliaia di posti di lavoro, sacrificati sull’altare della globalizzazione al dio della massimizzazione del profitto.

Il Ministro ha poi puntualizzato: “A noi quello che interessa è saturare gli impianti italiani e garantire buoni investimenti negli impianti italiani. Di questo discuteremo, nel frattempo noi lavoriamo per costruire. Capisco che per qualcuno possa essere difficile capirlo”. Ed è in effetti difficile capire quanto sta accadendo, soprattutto se ci si pone nella prospettiva di chi rischia di ritrovarsi senza quei pochi soldi che di certo non assicurano al lavoratore e alla sua famiglia di “vivere un’esistenza libera e dignitosa”, come previsto dall’articolo 36 della Carta Costituzionale. Soprattutto appare incomprensibile come il governo pensi di “saturare gli impianti italiani” se poi, come accaduto con Termini Imerese, questi chiudono o comunque vengono venduti. L’ennesimo mistero dell’era berlusconiana.

Ma non è una questione di campo: anche a sinistra, infatti, c’è chi guarda all’operazione portata avanti da Marchionne con reverenziale rispetto. Tra i tanti merita di essere segnalata la posizione di Piero Fassino, ex segretario dei democratici di sinistra, che ha consegnato a Marchionne la patente di socialdemocratico, e quando l’apolide di Chieti ha annunciato la chiusura dello stabilimento siciliano, gliel’ha solennemente confermata. “Nel momento in cui si verifica un processo di riorganizzazione così teso – ha dichiarato Fassino – può accadere che uno stabilimento non sia più considerato strategico. Sarebbe demagogico e propagandistico cambiare giudizio sulle scelte strategiche della Fiat”.

Ecco dunque che di colpo la difesa del lavoro diventa demagogia e il lavoro di quanti si battono per vedere rispettati ed applicati i diritti di cui sono già formalmente titolari, diventa propaganda. Un bell’approdo, quello di Fassino, dopo una vita da dirigente di quello che fu “il partito dei lavoratori”. Ma nell’ansia di compiacere, il lungagnone perde anche l’occasione per ipotizzare la presenza di un’idea una sul come dovrebbe essere organizzato il mondo del lavoro.

Se infatti è vero che i rapporti di lavoro non sono più paragonabili per quantità e qualità ai rapporti che intercorrevano tra datori di lavoro e lavoratori dal dopoguerra in poi, è anche vero che questa trasformazione è stata più subita che voluta. Il recente cambiamento che ha interessato i sistemi produttivi, reso possibile da un’innovazione tecnologica con il tempo diventata esponenziale e dai nuovi assetti organizzativi, ha imposto alla politica un ripensamento delle tutele a favore della forza lavoro.

Una forza lavoro che veniva obbligata a vendersi per salari sempre meno dignitosi, sempre più scarni, del tutto incapaci di rappresentare la contro prestazione rispetto a quello che nel nostro ordinamento è considerato un dovere per ogni cittadino: svolgere cioè, secondo le proprie possibilità e la propria scelta, un’attività o una funzione che – nella speranza dei Costituenti – doveva concorrere al progresso materiale o spirituale della società.

Purtroppo però, anche a sinistra, sembra che l’asticella dello scontro sia stata vergognosamente abbassata. Si è passati dalla difesa dei diritti al dialogo con la maggioranza per una revisione degli stessi. Dalla richiesta perentoria del rispetto della dignità del lavoratore all’introduzione di una qualche forma di tutela per i lavoratori atipici. E se altrove i governi fanno l’impossibile per garantire l’occupazione e per evitare una ricollocazione internazionale degli stessi impianti produttivi, in Europa gli Stati membri combattono bendati i paesi orientali loro concorrenti, non potendo in alcun modo intervenire per evitare che il rispetto della libera concorrenza produca danni irreparabili per il futuro del nostro continente.

Presto infatti l’Europa sarà chiamata ad una scelta: o rinunciare ai dogmi della globalizzazione o rinunciare alla possibilità di una concreta attuazione di quei diritti sociali così tanto perentoriamente riaffermati nel Trattato di Nizza firmato nel 2000. Sono passati appena dieci anni e su questa battaglia si gioca il futuro delle nuove generazioni.