LA COSTITUENTE FIAT

Marco Revelli
Il manifesto 12 gennaio 2011

In città si stanno moltiplicando i negozi con la vistosa insegna gialla «Compro oro». Erano pressoché sconosciuti fino a un paio di anni fa, ora crescono come funghi: appena un paio in centro, gli altri – decine – nelle ex barriere operaie, Borgo San Paolo, Barriera di Milano, Mirafiori sud… Acquistano tutto, anche le protesi dentarie. D’altra parte Torino ha fatto segnare nel 2010 il non invidiabile primato nella crescita dei pignoramenti di alloggi, con un +54,8% nei primi dieci mesi dell’anno rispetto al già duro 2009. E si calcola – sono dati impressionanti – che un 35-40% dei lavoratori metalmeccanici torinesi abbia fatto ricorso, nell’ultimo biennio, alla cessione del quinto dello stipendio, per pagare le rate in sospeso, o semplicemente per arrivare alla fine del mese.

È su questa Torino, su questo tessuto sociale allo stremo, che ha calato la scure del suo Diktat Sergio Marchionne, dall’alto del suo ponte di comando globale e dei suoi quattro milioni e mezzo di euro di stipendio annuo, quattrocentotrentacinque piani più sopra rispetto al reddito annuo di ognuno di quegli uomini e quelle donne che a Mirafiori – nel luogo in cui sono inchiodati per la vita o per la morte – dovranno domani votare se «arrendersi o perire». Più di novemila volte più in alto – una distanza stellare – se si considera anche il valore delle stock options accumulate, valutabili con un calcolo minimale intorno ai 100 milioni… Come faccia uno come Eugenio Scalfari a scrivere che non si tratta di ricatto ma di semplice «alternativa» è difficile da capire. Ma ancor più difficile da capire – loro non vivono come lui in un mondo rarefatto di letture e poteri – è come facciano a negarlo i sindacalisti che quell’accordo hanno siglato. E che non possono ignorare l’asimmetria abissale, il divario incolmabile che separa e distanzia le due parti contraenti segnando, appunto, la differenza tra un ricatto (a cui il destinatario non può sottrarsi senza rinunciare a una parte essenziale di sé), e un’alternativa, in cui in qualche modo la scelta è libera.

Ora è proprio in questo divario, in questa asimmetria assoluta che nella chiacchiera superficiale, politica e giornalistica, viene solitamente invocata per sostenere la necessità di accettare l’Accordo, la natura scandalosa dell’evento. Il fattore che rende quell’accettazione inaccettabile. E che sottrae la vicenda Fiat alla dimensione specifica di una «normale» vertenza sindacale per farne una questione etica e politica di rilevanza generale: un evento di natura «costituente». Perché quando in una società si crea un dislivello simile, quando le distanze tra parti sociali essenziali crescono a tal punto da costringerne una al silenzio e all’umiliazione, vengono meno le condizioni stesse di una normale vita democratica. Quando il principio di Uguaglianza viene a tal punto trasgredito, anche termini come Libertà e Giustizia perdono di significato, per assumere il volto tetro dell’arbitrio del più forte e dell’uso vessatorio delle regole.

Basta, d’altra parte, leggere le 78 cartelle in A4 della bozza di Accordo, diligentemente siglate pagina per pagina dalle parti contraenti, per rendersi conto della sproporzione tra le forze.

Ognuna di esse trasuda, letteralmente, «asimmetria». A cominciare dalla «Clausola di responsabilità» che fa da preambolo, senza neppure uno straccio di accenno agli impegni assunti dall’Azienda per la realizzazione del «piano per il rilancio produttivo dello stabilimento di Mirafiori Plant», e invece minuziosamente precisa (direi minacciosa) nel sottolineare gli obblighi degli altri, con quelle due righe sul «carattere integrato dell’Accordo» per cui la trasgressione (collettiva o anche individuale) di uno solo degli impegni assunti costituirebbe un’infrazione grave, tale da fare decadere tutti i diritti acquisiti dalle organizzazioni sindacali contraenti… Per non parlare della procedura scelta dalla Fiat Group Automobiles per sfilarsi dall’accordo del ’93 e dai vincoli del contratto nazionale dei metalmeccanici – per «far fuori» la Fiom! – con l’espediente della newco, in clamorosa violazione del dettato del nostro codice civile (art. 2112) in materia di «Mantenimento dei diritti dei lavoratori in caso di trasferimento d’azienda» … Come se, appunto, l’onnipotenza aziendale potesse prevalere su ogni normativa pubblica, nella stessa misura in cui le regole stipulate a livello d’impresa devono servire a null’altro che a sancire la volontà di potenza del vincitore.

Oppure si consideri il primo punto della «Regolamentazione per la Joint Venture», sull’Orario di lavoro. Dice che la proprietà potrà scegliere tra un ampio ventaglio di opzioni – «schemi» li chiamano – con una sorta di menu à la carte nel quale vengono ricombinate le vite dei lavoratori: 15 turni (8 ore su tre turni, mattino, pomeriggio e notte, per cinque giorni la settimana); oppure 18 turni (8 ore su tre turni per sei giorni la settimana, quindi compreso il sabato); oppure, ancora, in via sperimentale, 12 turni (ognuno di 10 ore giornaliere, due turni al giorno per sei giorni la settimana). Nei casi in cui l’orario settimanale superi le 40 ore, è previsto un recupero giornaliero la settimana successiva, ma esso è puramente teorico dal momento che l’Accordo prevede anche 120 ore di straordinario obbligatorio (aumentabili fino a 200), a disposizione dell’azienda che le potrà utilizzare per saturare in periodi di picco nella produzione anche i periodi di riposo infrasettimanale. Le pause, a loro volta, saranno ridotte da 40 a 30 minuti, tre per turno, in ognuna delle quali il lavoratore dovrà scegliere se andare in bagno, sedersi un attimo per prendere fiato o tentare di addentare uno sneck (dal momento che la pausa mensa potrà essere spostata a fine turno e lavorare otto ore in piedi senza soste e senza mettere nulla in corpo non è sopportabile). In compenso la riduzione delle pause sarà compensata con un controvalore di 32 euro al mese, circa un euro al giorno (più o meno quanto si dà a un lavavetri al semaforo).

Dentro questa griglia ci sono le vite di alcune migliaia di uomini e di donne. Ci sono centinaia e centinaia di famiglie, con la loro organizzazione spaziale e temporale, con la loro rete di relazioni, con le loro concrete esistenze. Ci sono, appunto, delle «persone»: c’è il loro «tempo di vita», divenuto una sostanza spalmabile a piacere dall’impresa sulle proprie catene di montaggio, tra i pori del proprio «tempo di saturazione» (quello che divide l’ora in 100.000 unità di tempo micronizzato, secondo i dettami della nuova «metrica del lavoro»), a seconda di ciò che comanderà, momento per momento, il mercato. E dobbiamo chiederci, a questo punto, quale concezione del mondo stia dietro a questa visione. Quale idea di uomo (di «persona umana») e di società ispiri un tale progetto. E se l’argomento «definitivo» – quello con cui si taglia ogni discorso, si mette a tacere ogni obiezione – della «globalizzazione» e dei suoi impersonali dogmi sia sufficiente a giustificare una tale macelleria sociale ed esistenziale.

Ecco perché la «sfida» lanciata da Marchionne non è una «questione privata». Non può cioè essere limitata al rapporto tra la Fiat e il «suoi» operai (e non dovrebbe essere affidata solo al voto «con la pistola puntata alla tempia», di quegli operai che non devono essere abbandonati a se stessi), ma riguarda tutti noi, in quanto cittadini. Riguarda l’orizzonte in cui ci troveremo a vivere nei prossimi anni. Non è uno strappo contingente alle regole. È uno tzunami, che scardina le basi stesse del sistema di relazioni industriali e, più in generale, del nostro ordine sociale e produttivo. L’hanno sottolineato i più autorevoli osservatori non vincolati da obblighi di carattere servile, da Carlo Galli (in un lucidissimo articolo su Repubblica) a Ulrich Beck, uno che di «società globale» se ne intende. Farebbero bene ad accorgersene anche i nostri «re tentenna» del partito democratico (quanto filisteismo c’è nel Fassino che dice «se fossi un operaio voterei sì»), e quanti pretendono di esercitare funzioni di rappresentanza.

Se dovessimo accreditare l’idea della globalizzazione che da quel «fatto compiuto» si manifesta – se dovessimo davvero attribuire a quel sistema impersonale di vincoli carattere d’inderogabilità e alle sue ricadute sui territori natura di nuova «costituzione materiale» – allora dovremmo rivedere tutti i nostri concetti portanti: di cittadinanza, di democrazia, di legittimazione e di diritto. Così come se dovessimo ritenere inaggirabile quell’ukase – se ai lavoratori non dovesse più rimanere altra alternativa che quella tra la perdita del posto o l’accettazione di una condizione esplicitamente servile del proprio lavoro, se il lavoro conservato dovesse rivelarsi irrimediabilmente incompatibile con diritti e dignità -, allora non ci resterebbe davvero che organizzare un esodo di massa, fuori dalle mura dentate delle fabbriche, lontano dallo stato di «salariato». Oltre, davvero oltre, la modernità che abbiamo conosciuto e che non era fatta di asservimento e subalternità (come vorrebbero i nostri «modernizzatori» tardivi), ma di conflitto e di diritti faticosamente contesi.