Donne, dignità e lavoro

Maria Ruggeri
http://temi.repubblica.it/micromega-online/

Chi sono, cosa fanno, cosa sognano le donne italiane? A giudicare da pubblicità, media e cronaca, si dividono tra veline e vittime, tra quelle che farebbero qualsiasi cosa per un posto in TV (o in Parlamento che, forse, è persino meglio) e quelle che cadono vittime della violenza degli uomini, per lo più mariti e compagni, ma talvolta anche “dell’uomo nero venuto da lontano a stuprare le nostre donne” (e, in questo caso, ovviamente, la cosa fa molto più rumore).
La realtà, come sempre, è più complessa e forse anche per questo non ce la raccontano con la stessa insistenza (la complessità è noiosa e faticosa, si sa). Proviamo a fare un quadro dal punto di vista del lavoro.

Il 46,4% delle donne tra i 15 e i 64 anni lavora (contro il 68,6% degli uomini). E’ il tasso più basso di tutta Europa, Malta a parte (media UE a 27 58,6%). Fanno lavori “normali”, spesso precari (più spesso degli uomini). Il lavoro a tempo determinato, o in apprendistato, che è la principale forma di lavoro “atipico”, nel 2009 “accoglieva” il 14,6% delle lavoratrici dipendenti e il 10,8% dei lavoratori dipendenti. Il 27,9% delle lavoratrici (il 5,1% dei lavoratori) lavora a part time. Tra queste, il 42,7% ha subito il part time, non trovando di meglio, le altre lo hanno scelto (per lo più per assolvere ai compiti di cura nei confronti di bambini e anziani).
Il 48,9% delle donne tra i 15 e i 64 anni non lavora (contro il 26,3% degli uomini), né cerca un lavoro (pigrizia o disperazione?). Si chiama tasso di inattività. Quello delle italiane è il più alto d’Europa, Malta a parte (media UE a 27 35,7%).
Il tasso di disoccupazione femminile è del 9,3%, la disoccupazione giovanile (15/24 anni) è del 28,7% per le donne (il 23,3% per gli uomini).

Poi c’è il lavoro domestico e di cura, che ancora oggi grava quasi interamente sulle spalle delle donne. Secondo l’Istat, nel 2008-2009, il 76,2% del lavoro familiare delle coppie è ancora a carico delle donne. Sommando il lavoro retribuito con quello gratuito prestato in famiglia, le donne italiane lavorano mediamente 60 ore la settimana (Eurostat 2006-2007) “conquistandosi” così il record europeo. Insomma, le donne italiane sono quelle che, in Europa, lavorano di più guadagnando di meno, visto che prevalentemente lavorano in casa, senza retribuzione.

Sempre in casa (ma anche fuori) molte di loro subiscono violenza. Sono quasi 7 milioni le donne italiane tra i 16 e i 70 anni che hanno subito nel corso della vita, dentro o fuori della famiglia, una forma di violenza, fisica o sessuale, e un milione e 400 mila donne hanno subito violenze sessuali prima dei 16 anni. Le diverse forme di violenza si combinano tra loro per autore e tipologia: un quinto delle vittime subisce violenza sia dentro che fuori il rapporto di coppia; il 41% ha subito violenza sia fisica, sia sessuale dal partner; un milione e mezzo ha subito violenze ripetute. La denuncia di questi episodi è rara: solo il 5,3% nel caso della violenza domestica.

Se, purtroppo, la violenza nei confronti delle donne è ancora un fenomeno drammatico e apparentemente inarrestabile, è anche a causa dell’utilizzo sempre più spregiudicato dell’immagine del corpo delle donne come merce in sé, e come esca per vendere altre merci. Quando non dell’utilizzo vero e proprio del corpo delle donne. Come dimenticare, a questo proposito, la definizione di “utilizzatore finale” scelta dall’avv. Ghedini, legale del Presidente Silvio Berlusconi, nel sostenere l’irrilevanza penale dei festini a Palazzo Grazioli e a Villa Certosa? Era il periodo Daddario, giugno 2009, e sembra impossibile che sia passato più di un anno e mezzo dall’inizio di questa brutta commedia all’italiana che sta rovinando l’immagine del Paese, paralizzando l’attività del Governo, riducendo le donne a gustosi bocconi da comprare, scambiare, donare, assaggiare… alla corte del potente di turno.

Di fronte a ciò che sta accadendo, le reazioni sono più o meno tre: c’è chi – guidato dal fuoco della fede, o da quello della convenienza – sostiene che non c’è nulla di vero e che il Presidente è vittima di un complotto dei “giudici comunisti”. C’è chi, al contrario, si indigna, organizza e partecipa a convegni e manifestazioni in cui si chiedono le dimissioni di Berlusconi. Tra questi, un ampio fronte di donne che rivendicano la loro dignità in quanto esseri umani pensanti e non carne da festini. Infine, ci sono i troppi italiani e italiane che pensano, più o meno, che ciò che il Premier fa a casa sua è questione privata e non merita tutto questo scompiglio.

C’è da chiedersi se la stessa magnanimità con cui alcuni guardano ai vizietti privati dell’uomo più ricco e potente del Paese, è utilizzata anche nel giudicare i comportamenti dei loro vicini di casa. Viene da domandarsi se la simpatia che riservano alle giovani vittime in cerca di scorciatoie che si assiepano nelle ville del faraone la riservino anche alle povere ragazze costrette sui marciapiedi da ciniche tratte di esseri umani nati nella parte sbagliata del mondo.
Perché, se così non fosse, vorrebbe dire che molti, troppi, italiani soffrono della solita vecchia malattia nazionale, ovvero l’eccessiva accondiscendenza nei confronti del successo, de potere e del denaro, nella speranza che, prima o poi, qualche briciola cada dalla mensa del sovrano e li renda più simili a lui.
Purtroppo, le vicende dei “festini selvaggi” sono private solo in un certo modo. Sono private del senso del ridicolo, private del senso della misura, private del rispetto per le regole, private del rispetto di sé e del proprio ruolo, e – soprattutto – private del rispetto degli altri e delle altre, degli uomini e delle donne di questo Paese.

Da un lato, un sovrano che ha paura di invecchiare, dall’altro, delle giovani donne (e, spesso, alle spalle le loro famiglie) che hanno paura di guadagnarsi onestamente da vivere (come si diceva un tempo). Come suonano terribili – a pochi giorni di distanza dal referendum di Mirafiori, in cui operai e operaie dovevano decidere se accettare un peggioramento delle loro condizioni di lavoro e dei loro diritti per poter continuare a lavorare per un misero salario – le parole di una delle ragazze intercettate. La poverina temeva che, venendo meno i favori del generoso nababbo, le toccasse in sorte di dover tornare a lavorare per poche centinaia di euro al mese.

Intanto, sull’altra sponda del Mediterraneo, popolazioni oppresse da poca libertà, poco lavoro, troppa corruzione, troppe sperequazioni, stanno alzando la testa. Da noi, la libertà c’è ancora, sebbene sotto la cappa anestetizzante dell’informazione stile Mediaset, a misura di fan più che di cittadino. Per il resto, quanto a lavoro, corruzione, sperequazioni, la situazione tende ad avvicinarsi rapidamente. Chissà che anche qui la gente non cominci a stancarsi e non si decida a mandare a casa una classe dirigente vecchia, corrotta e corruttrice, avida di potere a fini personali, inadeguata sotto il profilo morale, culturale e delle competenze, facendo emergere e coalizzando i pezzi sani della società civile a sostegno di un’ipotesi di governo davvero alternativa.

Perché questo possa accadere, ciascuna (e ciascuno) deve fare la sua parte. Non dobbiamo dimenticare che nessuno può regalarci la libertà, né la dignità. Sono beni preziosi, ma non si possono comprare. Non sono mai conquistati per sempre, vanno continuamente difesi. Per difenderli, e riconquistare i pezzi perduti per strada, è necessario saper dire di no alle scorciatoie, essere disposti a pagare di persona i prezzi delle nostre intransigenze, non temere (e non vergognarci) di vivere con sobrietà e di guadagnare da vivere con il sudore del lavoro, e soprattutto, riconquistare al lavoro quella dignità, quel valore, che ne ha fatto la base della nostra democrazia.

Mai come oggi, la rivendicazione della nostra dignità di donne (e di uomini) passa attraverso la rivendicazione di un lavoro dignitoso, che possa garantirci condizioni di vita dignitose.