La Chiesa è parte della crisi italiana, una “mater et magistra” in sofferenza

Enzo Roggi
www.pontediferro.org

Si può parlare di una “crisi” della Chiesa cattolica e più specificamente della Chiesa italiana? La parola “crisi” può apparire pesante e perfino blasfema ma, se assunta nel suo significato originario (“krisis”, cioè manifestazione drammatica di sé), non si sarebbe lontani dalla condizione di fatto. L’ultimo sondaggio Eurispes segnala una caduta di fiducia degli italiani dal 47% del 2008 all’attuale 40%. In verità non sono poche, nel corso dell’attuale pontificato, le manifestazioni di conferma non solo di una visione angosciata ma anche tentativi più o meno “paterni” di indicare i terreni di una necessaria controffensiva. La controprova fattuale non è solo nelle parole (talora vere e proprie grida di appello) ma nelle missioni del Pontefice in terre difficili e ostili (Boemia, Inghilterra, Scozia) accompagnate dal preventivo fiato sospeso sull’accoglienza al messaggio ecumenico.

Si prenda, per iniziare, il discorso di Benedetto XVI al Corpo diplomatico del dicembre scorso. Lì si prospetta una visione del presente che s’è guadagnata l’aggettivo “cupa” per il grido di allarme anzitutto, ma non solo, sul moltiplicarsi di atti di persecuzione anticristiana in terre non europee e per la condizione ecclesiale nello stesso Occidente. Il grido per la “libertà religiosa” non è atto banale (può essere considerato, anzi, una vera innovazione dottrinaria se appena si tenga conto che ogni confessione strutturata ha la sua giustificazione primaria nel monopolio della verità rispetto alla quale ogni altro pensiero costituisce “errore”). Ma proprio nel riconoscimento di un diritto universale è insita una sofferenza poiché tra religioni diverse non può che esservi competizione, pur accompagnata da attributi come fraterna e tollerante.

E dunque il tema è: quale competizione, su quali temi della trascendenza e della realtà terrena? Come conciliare fede dogmatica e pluralismo? Il Pontefice regnante ha indicato con chiarezza i terreni su cui la sua Chiesa intende dare battaglia nelle condizioni del pluralismo religioso e ideologico, e per farlo ha adottato una chiave altamente drammatica: la denuncia sofferta e insistente delle pecche, degli obbrobri che si manifestano nello stesso corpo ecclesiale (esempio topico la pedofilia, ma si possono aggiungere le ragioni della botta moralizzatrice data alla finanza vaticana) accompagnando lo sdegno intestino con l’analisi, anzi la denuncia dei fattori emergenti negli stili di vita, nella degenerazione etica della società del consumo e dell’avventura edonistica visti come dinieghi dell’antropologia della fede. Lì è la minaccia all’universalismo dogmatico del cattolicesimo le cui mura reggono a fatica l’assalto non solo di altre religioni ma della contemporaneità.

E’ così che s’invoca la difesa dei fondamentali del proprio credo nell’angoscioso timore della “scomparsa di Dio” e si dà indicazione esplicita dell’oggetto del conflitto: l’uomo come creatura intangibile dall’embrione alla morte, la sessualità bifocale, l’illegittimità del biotestamento e dell’eugenetica, la sacrale intangibilità della famiglia. Qui si gioca il rapporto tra missione salvifica e agire personale poiché è impossibile reggere lo scontro senza un’autonoma visione del conflitto sociale e politico. Pare cogliersi una richiesta di soccorso alla passata elaborazione magistrale in epoca moderna e contemporanea (le grandi encicliche come la “Mater et magistra”, la “Pacem in terris”, la “Centesimus annus”) tipica dell’impatto con il capitalismo in cambiamento da Taylor al liberismo, rispetto alla quale tuttavia è necessario un aggiornamento come richiesto dalle sconvolgenti dinamiche attuali, ma non tale da denegare l’osservazione basilare di Giovanni XXIII sul “carattere preminente del lavoro quale espressione immediata della persona nei confronti del capitale, bene di sua natura strumentale”.

Ma come stare in campo? Sono evidenti e in crescita posizioni diversificate nella tattica gestionale del rapporto Chiesa-Stato e Chiesa-società. Si colgono due piani non comunicanti: da un lato la denuncia sdegnata che si alza dalla periferia credente, dall’altro il “realismo” della tattica contrattuale col potere politico. Se ne colgono segni anche nella pubblicistica ecclesiale: la durezza di “Famiglia cristiana”, la critica contenuta ma visibile di “Avvenire”, l’algida registrazione dell'”Osservatore romano”. Ambedue questi atteggiamenti, inoltre, impattano con una certa crisi delle vocazioni (una fonte interna parla di un deficit di diecimila mancati accessi nel 2010 e di una previsione un po’ meno grave nel 2011 grazie all’apporto di immigrati). E’ perfino accaduto che si sia riaperta l’antica tensione tra il monopolio maschile della gerarchia e l’impulso egualitario della giovane generazione femminile. Fenomeni, questi, solo in parte compensati dalla forza attrattiva delle iniziative di solidarietà sociale e umanitaria in cui la comunità fedele dà il meglio di sé e da cui, dunque, sorgono le voci del rinnovamento.

E’ obiettivamente complesso il problema del rapporto con la politica nel quadro di un regime concordatario, pur liberato dalla pretesa della “religione di Stato”, in permanente bilico tra privilegio relazionale e rispetto delle autonomie imposto dal pluralismo e dal principio di uguaglianza. Non sono certo le calorose telefonate tra Berlusconi e Don Gelmini, col reciproco incoraggiamento a “non mollare”, che possono definire un equilibrio accettabile e operoso tra Chiesa e politica. La difficoltà principale deriva dal fatto che da un ventennio non c’è più un “partito unico dei cattolici”. La diaspora ha cambiato in radice la lunga identificazione tra Chiesa, partito e governo (anche se meriterebbe una più attenta considerazione il modo come la DC gestì la difficile mediazione tra autonomia funzionale e fedeltà ecclesiale).

In tempi di pluralismo politico-elettorale l’idea di un’ispirazione cristiana ha impattato con uno scenario radicalmente nuovo e caotico chiamato Seconda Repubblica. Con un po’ di ipocrisia si è pensato di affrontare la novità con il binomio lealtà istituzionale più salvaguardia del magistero. La reale dinamica della relazione – specie dopo la scomparsa di Wojtyla e l’apparizione di Berlusconi – si è piegata vistosamente verso la preferenza per il blocco di centrodestra e non solo per la presenza in esso di un partito minore dichiaratamente cattolico poi passato all’opposizione, ma tramite una relazione gerarchica tra l’episcopato e l’inconsueto titolare dell’esecutivo, tanto generoso e cedevole sul terreno delle convenienze ecclesiali. Si potrebbero elencare infiniti episodi in merito, ultimo dei quali l’abolizione dell’ICI sui beni immobiliari ecclesiastici (una roba di 700 milioni sottratti ai Comuni). Ma non si tratta solo di questo pur pesante aspetto. Si paragoni la freddezza verso i governi Prodi con quanto visto con Berlusconi e il risultato apparirà in tutta la sua evidenza: esplicita cordialità (spesso con generose omissioni di giudizio) verso il miliardario di Arcore resosi spendibile con l’adesione al Partito popolare europeo. Dunque, una risposta ambiguamente generosa alla domanda di come articolare il rapporto tra Chiesa e politica.

Il rapporto col berlusconismo è stato – specie nel dopo 2008 – emblematizzato dalla esibita cordialità tra il capo della CEI Bagnasco e il capo del governo nonché da omaggi molto pubblicizzati di quest’ultimo alla Santa Sede. Se ne sono colte conseguenze quando la gerarchia è rimasta fredda fino all’ostilità di fronte alla decisione di Casini di uscire dalla maggioranza e, ancor più, quando egli ha promosso il “terzo polo” con un Fini considerato ostico in quanto a diritti soggettivi e laicità (basta rilegge l'”Avvenire” di quei giorni). Qualche effetto pressorio la CEI lo ha ottenuto perfino del centrosinistra (bastino i nomi di Rutelli e Binetti). Ma tutto questo non ha potuto impedire l’impatto critico con l’inerzia governativa in fatto di crisi economica e di drammi sociali in salita. Si è accentuata la corrente critica nell’associazionismo provocando crepe nel troppo organico rapporto col governo con richiesta talora esplicita di passare dalla cordialità al distacco. Forse è qui la spiegazione dell’appello di Bagnasco ai cattolici perché si impegnino di più, in quanto tali, nell’agone politico senza tuttavia qualificarne il segno partitico. Appello che di per sé alludeva a una presa di distanza dal monopolio berlusconiano che in molti soffrivano come un ostacolo proprio all’espansione del protagonismo cattolico.

Ma tutto questo era solo una pallida vigilia di uno sconquasso ben più clamoroso: l’affare Ruby-Berlusconi. Facile immaginare il vortice di interrogativi che dalla base ha investito la gerarchia. Ben prima che si alzassero voci autorevoli s’è udito un crescente rumore di fondo talora in termini allusivi (l'”Avvenire” scriveva: “I risultati dei cattivi esempi sono sotto gli occhi di tutti”) ma sempre più in termini e destinazioni domestiche esplicite. Un esempio. Si ricorderà quale fu il segno del “Family day” di un anno addietro: tutto l’appoggio al diniego governativo alle domande promanate dal caso della ragazza Englaro in eterno buio esistenziale. Ecco che a gennaio 2011 lo stesso movimento alza la sua voce su Arcore: “Da noi nessun silenzio interessato, chiediamo chiarezza”. Un grido rivolto alla gerarchia non meno che al cavaliere. A proposito del quale “Famiglia cristiana” denunciava: nessuno più di lui ha diviso il mondo cattolico. Solo dopo queste voci, e soprattutto solo dopo il drammatico ammonimento-denuncia del Presidente della Repubblica, è giunta la voce del cardinale Bertone, segretario di Stato vaticano, per accodarsi a quelle parole, a controprova che la gerarchia aveva bisogno di una copertura d’alto valore istituzionale. Da lì la sequenza delle prese di posizione più autorevoli, quella del Pontefice e infine quella della Conferenza episcopale CEI. Esplicito l’ammonimento alle istituzioni a ritrovare la moralità perduta in risposta allo sconcerto corale della comunità.

Il maggior documento – l’omelia papale – va naturalmente interpretato in tutto il meccanismo di contenuto e di metodo. A me sembra che il senso sia nella contestualizzazione dello scandalo berlusconiano nel panorama di collasso morale dell’epoca. E’ qui che la Chiesa dice di voler motivare il proprio ruolo salvifico. La denuncia severa della surroga di una morale condivisa con la “visione riduttiva” della realtà che si affida alla convenienza soggettiva appare come la tabe esistenziale contro cui si deve affermare il messaggio e l’esempio della religione. Che questa idea non sia una mera scappatoia dalle difficoltà della missione ecclesiale è stato poi dimostrato dallo stesso Bagnasco alla conferenza di Ancona quando s’è calato più direttamente nella vicenda italiana.

La denuncia di una “modernità liquida dominata dall’ideologia del mercato” e prona dinanzi al successo artificioso, alla scalata furba, al guadagno facile, al mercimonio di sé, ha aperto il richiamo al concreto sociale altamente critico (la condizione giovanile anzitutto) in chiara contrapposizione allo spettacolo arcoriano di scandalosa violazione dell’articolo 54 della Costituzione. Prese alla lettera queste proposizioni dovrebbero dislocare la Chiesa sul fronte di una globale riforma sociale come base oggettiva di un rinascimento etico-solidaristico. Ma è proprio qui che sorgono gli interrogativi di più di qualche osservatore laico. Dice il presidente dell’Azione Cattolica Miano che occorre una spinta ad una più alta qualità della presenza cattolica in politica. A che cosa si riferisce quella “più alta qualità”? Basta col furbesco tatticismo verso le concessioni di questo governo? Basta con quella che G.E. Rusconi definisce la “finzione” del predicar bene per poi sdraiarsi sul comune sentire con Berlusconi in fatto di legislazione su bioetica, fisco preferenziale, scuola sovvenzionata? Insomma c’è o no davvero un voltar le spalle ad un governo che accumula, assieme a inerzia sociale, un esempio corruttivo rispetto a una limpida moralità? Da quale mai “strumentalizzazione” delle opposizioni la Chiesa dovrebbe guardarsi se considera intangibile la propria posizione? C’è o no un problema di rimodulare il rapporto tra la missione evangelica e la visione sancita dalla Costituzione italiana, non certo riducibile al formalismo giuridico del rapporto tra i due Stati che riduce la relazione a una contrattualistica utilitaria?

Questi interrogativi sembrano ora collocarsi sul terreno di una possibile evoluzione positiva. Ma sono ancora tutti lì, nel fuoco della crisi italiana e della confessata angoscia della Chiesa per la propria missione. Non siamo a Bisanzio, siamo nella Repubblica democratica italiana fondata sul lavoro.