Impossibile volere “più energia”

Impossibile volere “più energia”

Gianfranco Bologna
www.greenreport.it

I drammatici eventi che si sono susseguiti al terremoto ed allo tsunami scaturiti l’11 marzo scorso, nell’area orientale di Honshu in Giappone con una magnitudo 9.0 della scala Richter, hanno causato una vera catastrofe, un’ingente quantità di morti e gravissimi danni nonché tanti problemi ai reattori nucleari di Fukushima . Si è riaperto in tutto il mondo il dibattito sul futuro dell’energia nucleare. In Italia, dove già il clima è molto surriscaldato dagli atteggiamenti poco trasparenti dell’esecutivo in merito alla scelta nucleare, si è riaperto un ampio dibattito sui pro ed i contro dell’energia nucleare, in un’ottica che mira comunque e, in ogni caso, alla futura crescita dei consumi energetici.

E’ veramente singolare che non si sentano voci che ricordino come il mondo ricco e consumista non può più continuare su una strada di crescita continua, di incremento progressivo di utilizzo di energia e materie prime, e che è ormai giunto il momento di prepararsi ed attrezzarsi concretamente per voltare pagina.

Ogni giorno che passa, con la nostra continua e pressante azione di impatto sulla natura, non facciamo altro che indebolire la capacità che i sistemi naturali hanno di “supportarci” e la loro capacità di metabolizzare gli “scarti” della nostra attività. Si tratta di una situazione paradossale: sappiamo bene che non possiamo vivere al di fuori dei sistemi naturali dai quali direttamente deriviamo e dipendiamo, ma facciamo di tutto per renderli vulnerabili, compromettendo seriamente le capacità di recupero e rigenerazione della natura stessa. E come se noi stessi operassimo per indebolire le capacità del nostro sistema immunitario, consentendo così alle situazioni patologiche di avere la meglio.

E’ evidente che le nostre società non possono continuare su questa strada. Le alternative esistono e la conoscenza scientifica negli ultimi decenni ci ha messo a disposizione accurate analisi per comprendere lo stato in cui ci troviamo ed è stata capace di elaborare notevoli e concrete proposte operative destinate a modificare significativamente i nostri modelli di sviluppo sociali ed economici.

Gli studiosi Nicola Armaroli e Vincenzo Balzani ricordano, nel loro ultimo bellissimo volume “Energy for a Sustainable World” Wiley-VCH, che ogni secondo, l’umanità consuma quasi 1.000 barili di petrolio, 93.000 metri cubi di gas naturale e 221 tonnellate di carbone. Se dovessimo mantenere fino al 2050 lo stesso trend di incremento del consumo energetico che abbiamo avuto negli ultimi 60 anni, avremmo bisogno di costruire ogni giorno circa tre centrali a carbone, o due centrali nucleari o 10 chilometri quadrati di moduli fotovoltaici. E’ possibile tutto ciò ? Ha qualche senso ?

I dati presentati dagli annuali World Economic Outlook, pubblicati dal Fondo Monetario Internazionale e da studiosi come Angus Maddison (il noto economista britannico scomparso nell’aprile di quest’anno, professore all’Università di Groningen) riportano che oggi il prodotto globale lordo delle nazioni del mondo ha sorpassato i 70.000 miliardi di dollari (vedasi il sito del Fondo Monetario Internazionale dove sono scaricabili i “World Economic Outlook” www.imf.org ed il lavoro di Angus Maddison, 2001, The World Economy: A Millennial Perspective, OCSE, vedasi anche il sito di Maddison http://www.ggdc.net/MADDISON/oriindex.htm).

Se analizziamo le serie storiche del prodotto lordo globale (ricavandole dai database dell’OCSE e del Fondo Monetario Internazionale), possiamo osservare che nel 1950 questo veniva calcolato in 6.700 miliardi di dollari, nel 1960 in 10.700 miliardi di dollari, nel 1970 in 17.500, nel 1980 in 25.300, nel 1990 in 34.200 e nel 2000 in 46.000 miliardi di dollari.

Dal 1950 ad oggi l’economia globale è diventata oltre cinque volte più grande. Se continua a crescere allo stesso ritmo, nel 2100 sarà 80 volte quel che era nel 1950. Questa eccezionale escalation dell’attività economica globale non ha precedenti nella storia. È in contrasto assoluto con quel che sappiamo, in termini scientifici, della nostra disponibilità finita di risorse e dei complessi sistemi ecologici dai quali dipende la nostra sopravvivenza. E’ possibile perseguirla? Ha qualche senso?

Si domanda il noto economista britannico Tim Jackson, nel suo bellissimo libro “Prosperità senza crescita. Economia per un pianeta reale” (Edizioni Ambiente) : «È già impossibile immaginare un mondo in cui le cose andranno semplicemente avanti come prima. Ma che dire di un mondo in cui 9 miliardi di persone possano raggiungere tutte il livello di ricchezza e abbondanza atteso per le nazioni dell’OCSE? Ci sarebbe bisogno di un’economia pari a 15 volte quella attuale (75 volte quella del 1950) entro il 2050, e pari a 40 volte quella attuale (200 volte quella del 1950) entro la fine del secolo. A cosa può mai avvicinarsi un’economia del genere? Come va avanti? Offre davvero una visione realistica di prosperità condivisa e duratura?

Nella maggior parte dei casi evitiamo di guardare in faccia la dura realtà di questi dati. Assumiamo di default che – a parte la crisi finanziaria – la crescita continuerà all’infinito non solo per i paesi più poveri, dove è innegabile che ci sia bisogno di una qualità della vita migliore, ma anche nelle nazioni più ricche dove la grande abbondanza di ricchezza materiale ormai non ha che un impatto minimo sulla felicità e, anzi,inizia a minacciare le basi del nostro benessere.

È abbastanza facile capire il perché di questa cecità collettiva. La stabilità dell’economia moderna dipende a livello strutturale dalla crescita economica. Quando la crescita mostra segni di incertezza – come è avvenuto in modo drastico nelle ultime fasi del 2008 – i politici si fanno prendere dal panico. Le imprese faticano a sopravvivere. La gente perde il lavoro e a volte la casa. La spirale della recessione incombe. Mettere in dubbio la crescita è considerata una cosa da pazzi, idealisti e rivoluzionari».

Jackson ci ricorda che la fedeltà alla crescita è stato l’elemento dominante del sistema economico e politico che ha portato il mondo sull’orlo del baratro con la recente crisi finanziaria ed economica. L’imperativo della crescita ha plasmato l’architettura dell’economia moderna, ha motivato la libertà concessa al settore finanziario, è stato almeno in parte responsabile dell’allentamento delle regole, dell’eccessiva estensione del credito e della proliferazione ingestibile (e instabile) dei derivati finanziari. C’è un generale consenso sul fatto che siano stati la massiccia espansione del credito e i livelli di indebitamento crescenti a innescare l’aumento dei consumi senza pari che si ebbe tra il 1990 e il 2007.

Tim Jackson intitola un capitolo del suo libro “L’età dell’incoscienza” e documenta come l’incoscienza sulla quale si è basato, sino ad ora, il sistema economico, non ha a che fare con le sviste o l’avidità di pochi individui. La crisi economica non è la conseguenza di una cattiva prassi isolata in determinate aree del settore bancario. L’incoscienza, l’irresponsabilità, è stata molto più sistematica, approvata dall’alto con un obiettivo ben preciso: far continuare e proteggere la crescita economica.

Jackson scrive : «L’età dell’incoscienza rivela una “cecità di lungo periodo” rispetto ai limiti del mondo materiale, evidente nella nostra incapacità sia di regolare i mercati finanziari sia si proteggere le risorse naturali e contenere i danni ecologici. Abbiamo accumulato un debito ecologico instabile quanto quello finanziario, e nella continua rincorsa alla crescita nessuno dei due è preso in considerazione in modo adeguato. Per proteggere la crescita economica siamo stati pronti a tollerare, o persino cercare, passività finanziarie ed ecologiche difficili da sostenere, nella convinzione che fosse necessario per garantire la sicurezza e salvarci dal disastro. Ma non è mai stata una scelta sostenibile né nel lungo né, come ha dimostrato la crisi finanziaria, nel breve periodo».

E’ veramente giunto il momento di prepararci seriamente a cambiare rotta e gli strumenti teorici e pratici per questo sono già a buon punto.