L’AQUILA FERITA

articoli  tratti  da  www.ilsole24ore.com
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Il centro storico dell’Aquila è morto, tra macerie e imprese in crisi

Paolo Bricco, 03 aprile 2011

«Ascoltami, Anto’. Se tu fai mettere due euro per visitare il santuario, fanno 40mila d’incasso all’anno. Solo dal Canada, ne arrivano mille. Quelli sono molto devoti», spiega al suo commensale il prete mentre beve un bicchiere di vino rosso. All’altro tavolo, un quarantenne sbrana il piatto di maccheroni alla pecorara e dice a due commensali che annuiscono in silenzio: «Qui non c’è niente da fare. L’ultima fattura ho impiegato sei mesi a incassarla».

All’Aquila, a due anni dal terremoto, è così. Tutti parlano di soldi. Soldi che dovrebbero esserci, che chissà forse ci sono, che mannaggia non ci sono. Il 6 aprile del 2009 il sisma ha distrutto la città. Da allora L’Aquila è sotto una cappa di vetro e di polvere. Immobile. Ferma. Un’immagine antitetica rispetto all’attivismo febbrile dei mesi successivi alla tragedia, quando l’adrenalina della prima ricostruzione evitò agli aquilani di affrontare le rigidità dell’inverno nelle tendopoli.

La crisi economica internazionale non ha aiutato la città a risollevarsi. Ma ci sono cose che c’entrano poco con i mercati internazionali. I fondi erogati per ricostruire L’Aquila, per esempio. «Rappresentano una specie di giallo contabile», dice Luca Bianchi, vicedirettore dello Svimez, che su richiesta del Sole 24 Ore si è esercitato in un calcolo che oggi definisce impossibile. «L’unico elemento sicuro – continua Bianchi – sono gli 1,2 miliardi stanziati sull’emergenza dal Governo, a cui vanno aggiunti i 494 milioni messi a disposizione dall’Unione Europea».

Ci sarebbe poi un’altra cifra compresa fra i 2 e i 4 miliardi in carico al Fas, il fondo che contiene le risorse per il Sud. «Sono miliardi teorici – rileva Bianchi – di cui non si riesce ad appurare il reale utilizzo. Colpisce l’assenza di una cabina di regia in grado di monitorare quante risorse siano davvero finite all’Aquila per la ricostruzione».

Invece, le famiglie dei bambini dell’asilo di suor Daniela sanno bene quanti soldi mancano a casa. «Fino a febbraio abbiamo fatto pagare 90 euro sia per la retta che per la mensa, adesso da marzo siamo tornati a 160, perché i nostri conti non reggevano. Chi non può permetterselo, però, non paga», dice suor Daniela, doppia laurea in teologia e in economia, membro del direttivo di Confindustria L’Aquila.

Suor Daniela, che è responsabile del personale dell’Istituto missionario della dottrina cristiana («Siamo nate nel 1890 qui in città, il terremoto ha distrutto tutto, ma non ce ne siamo andate»), educa nella scuola costruita dalla Protezione civile i bambini degli aquilani e ascolta le preoccupazioni di mamme e papà: «Le tasse vecchie e nuove, più i mutui da pagare per le case che ora sono cumuli di pietre».

C’è il problema dei soldi. E c’è il problema dell’anima della comunità. «Sa qual è il vero dolore, anche più forte dell’affanno dei conti? È che abbiamo capito che, nel centro storico, nessuno tornerà più. Le 19 piccole città edificate dalla Protezione civile intorno all’Aquila dovevano essere transitorie. Ma, ormai, è chiaro che sono definitive. E, quella, non è vita: senza amici, gli anziani lontano dagli ospedali, per gli altri viaggi su viaggi per andare a prendere e riportare i ragazzi a scuola».

Soprattutto per gli anziani non è facile. Annalisa Di Stefano, una commercialista che con altre nove professioniste aquilane sta anche organizzando uno sportello gratuito per aiutare le donne ad aprire nuove attività, sta preparando un servizio di trasporti per quelli che, “dispersi” nelle new town satelliti, vogliono fare ginnastica e stare insieme: «Mia mamma Maria, a 73 anni, resta sempre chiusa in casa. Così non va bene».

I giovani e i vecchi, con il caldo estivo e il freddo invernale, passano ore sulle macchine e sui pulmini. «Intanto – dice suor Daniela – nel centro storico la ricostruzione è ferma». Fra i cumuli delle macerie, alcune carcasse d’auto e le fasciature metalliche che impediscono agli edifici di crollare, il silenzio qui è da camposanto.

Al 54 di via Sallustio, uno stabile giallo ha il tetto ripiegato che sembra sul punto di cadere. Raffaele Colapietra, a 80 anni, ha la tristezza e l’intelligenza del professor Terremoto di Pirandello. È uno storico che ha insegnato all’Università di Salerno. Impermeabile grigio, prima di allontanarsi verso la casa danneggiata che non ha voluto abbandonare, esprime il suo scetticismo: «Ha sbagliato la comunità. Dovevamo partecipare di più alle scelte».

Questo senso di sradicamento dal proprio destino, all’Aquila, è assai diffuso. Il terremoto. Il Governo a prendere le decisioni. Silvio e Obama. La macchina della Protezione civile («È andata via il 31 gennaio del 2010, da allora non c’è stato che il vuoto», dice suor Daniela). La politica locale che litiga.

Quasi si autoincolpa Rita Innocenzi, a trent’anni capo degli edili della Cgil, un’altra donna lucida alle prese con l’enigma aquilano: «Avremmo dovuto avere più forza. Eravamo come annichiliti dal terremoto. Si è capito subito che le strutture provvisorie sarebbero diventate permanenti. Non abbiamo avuto, come sindacati e come persone comuni, l’energia per proporre qualcosa di alternativo. Ora che il grosso dei lavori intorno alla città è stato effettuato, dovrebbero iniziare a ricostruire il centro. Ma con che soldi? Ormai molte attività commerciali si sono trasferite fuori».

Rita la sindacalista non l’ammetterà mai. In fondo, però, il simbolo di tutto questo è la sede della Cgil, vicino al centro commerciale Gli Aquilotti. Un investimento da 1,2 milioni. Soldi veri, messi a disposizione anche dal sindacato nazionale. Difficile pensare che la Cgil tornerà nella vecchia sede del centro.

Poi, ci sono i soldi che potrebbero esserci ma che, invece, sono congelati. La Futuris Aquilana, una società controllata da investitori milanesi e varesini, ha pronto il progetto di una centrale a biomasse, che ottiene energia dal legno. Quindici addetti diretti, nell’area industriale di Bazzano. Un centinaio nell’intera filiera per la coltivazione dei pioppi. Due milioni già investiti. Trenta milioni in prospettiva.

«Non abbiamo ricevuto un soldo del post terremoto – spiega Aldo Mazzadi – Abbiamo ottenuto tutte le autorizzazioni pubbliche. All’improvviso, hanno preso forma timori sull’inquinamento che causerebbe la centrale, che invece usa le tecnologie più verdi al mondo. Con tanto di tre ricorsi fatti al Tar dai comitati a noi contrari».

La sindrome “nimby” riguarda la mentalità collettiva di tutto il paese. «Forse – riflette il presidente dell’Unione industriali dell’Aquila, Fabio Spinosa Pingue – qui come nell’intera provincia questa sindrome ha una particolare presa per la storia del tessuto produttivo, fatto di economia pubblica e di piccole attività commerciali, con scarso spazio per gli imprenditori veri e propri».

In ogni caso, qui c’è poco da potersi permettere sindromi da province ricche. Secondo l’Inps, nei primi due mesi dell’anno la Cig ordinaria ha avuto un aumento tendenziale del 485% (a fronte di un +19% regionale). Quella in deroga, concentrata sempre nell’industria, è esplosa del 2.500%, due volte e mezza quella abruzzese. Dunque, lo sbandamento che nei primi mesi post-sisma pareva naturalmente focalizzato sui negozi e le attività commerciali del centro storico si è propagato all’intero tessuto produttivo.

Interessante il flusso di nuove sofferenze in rapporto ai prestiti, ricavabili analizzando i dati della Banca d’Italia. All’Aquila, prima del terremoto, questo indicatore era pari all’1,37%, mentre adesso è al 4,07 per cento. Una situazione molto dura, se si pensa che nello stesso periodo a livello italiano questo indicatore è passato dall’1,31 all’1,92 per cento.

Analizzando i soldi prestati alle imprese dalle banche, si fa un’altra scoperta: nei due anni segnati dal terremoto, le imprese italiane specializzate nelle costruzioni hanno visto i loro prestiti salire del 35,4%, quelle aquilane del 23 per cento. «Non mi stupisce. Le imprese aquilane sono sempre state poco patrimonializzate. Dunque, non in grado di partecipare a un simile business», nota Annalisa Di Stefano.

Il risultato è che perfino dell’economia della disgrazia qui è rimasto poco. Anche in termini di redditi: alla cassa edile, che rileva i dati sulle aziende con sede nella sola provincia, la massa salari è aumentata dai 49 milioni del pre-sisma ai 69 milioni del post-sisma (+40%) mentre in realtà i lavoratori sono più che raddoppiati passando da 6.355 a 12.741. «Le aziende sono di fuori e molti operai arrivano dalle altre regioni, per poi andarsene», conferma la sindacalista Innocenzi. In tanti arrivano dalla Campania, dalla Puglia, dalla Basilicata. Da quel Sud che, poco alla volta, sta inghiottendo L’Aquila. Nel 1995 il Pil pro capite era di 14.462 euro, un quarto in meno del Centro Nord ma un quinto in più rispetto al Mezzogiorno. Ora la distanza dal Centro Nord è salita al 30%, mentre quella dal Sud si è accorciata a poco più del 10 per cento.

«Meridionalizzazione? Non so. Quella non è solo una questione di soldi. Certo, però, gli effetti del sisma potrebbero rendere duratura e profonda questa tendenza di lungo periodo», riflette suor Daniela. Che, poi, quasi rivolge una preghiera laica: «Vi prego, non dite che qui all’Aquila ogni cosa è risolta. Abbiamo fatto un gemellaggio con la scuola elementare Cocchetti di Milano. Sono venuti a trovarci. Una mamma si è stupita. Pensava che qui tutto fosse a posto. Non è così».

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Cristo s’è fermato a l’Aquila

11 marzo 2011

«Ma che cosa è venuto a vedere? Qui non c’è più niente, la città non c’è più. Comunque la 301 è in fondo al corridoio». L’hotel Federico II brilla su una strada ai bordi del centro. Il monumento al rugby, le macchine sul marciapiede, una coppia che si agita. Alle tre di notte sotto le mura dell’Aquila tutto sembra normale. E in camera si può scegliere tra due letti grandi e uno piccolo.

«Buongiorno. Viaggio a posto?» L’architetto Ruggero Ruggeri, 68 anni, alle sette ha già preso il caffé, letto i giornali e fatto il primo giro nei cantieri che segue. «Sembra estate, siete fortunati. Com’è l’Aquila? Vedrai». In realtà qui c’è poco da vedere, o forse troppo. Le strade sono libere ma il resto è incastrato alle 3 e 32 del 6 aprile 2009. Una scossa di trenta secondi del 9° grado Mercalli, altre 256 nel giro di due giorni. Bilancio: 308 morti, 1600 feriti, 65mila sfollati. Fra cui due signore che in albergo chiedevano il cappuccino senza schiuma. In via Don Sturzo due palazzine di quattro piani e 29 morti non ci sono più. Ma lì vicino si vedono ancora lampadari, camicie negli armadi, sedie rovesciate. Spunta anche un coniglio di pezza. Mancano solo le pareti.

Torniamo verso la clinica Sanatrix. Tutte le case sono “in sicurezza”, cioè fasciate da cinghie d’acciaio e tenute su da transenne, intubature, controstrutture. Un vecchio è seduto in silenzio, non si gira. Da un’autoblinda scendono i militari, verificano che tutto sia sotto controllo, ma uno si domanda cosa ci sia da controllare. La Banca d’Italia, forse, che sembra intatta: «È stata ricostruita grazie alla volontà del direttore», sospira Ruggeri. Lungo il corso tutto è pulito, perfetto. Peccato che non si possa svoltare da nessuna parte, che ogni strada a destra e sinistra sia bloccata da tubi innocenti, travi di ferro, transenne. È la zona rossa.

Scendendo verso la casa dello studente, la bocca dello stomaco reclama. Attaccati alle transenne, ci sono fiori, fotografie, lettere. L’orrore è la normalità. «Molti ragazzi avevano cominciato a sentire dei rumori», dice una signora in lacrime. «I soldi ci sono», spiega Ruggeri, «è il piano che dopo due anni ancora non c’è». Ma dopo la partenza della Protezione civile, che ha messo in sicurezza tutto il centro storico, le decisioni spettano al Comune, soprattutto al sindaco Massimo Cialente (oggi dimissionario). «Lo conosco da sempre. Qualche settimana dopo il sisma lo cercai. Stiamo pensando in grande, mi rispose». Anche dal Sole lo abbiamo cercato, più di una volta, ma senza fortuna. Ruggeri guarda avanti: «Dove devi andare adesso?».

«Mi scusi, ma prima di tutto qui c’è un obbligo di carattere morale». Giorgio De Matteis, il vicepresidente del consiglio regionale d’Abruzzo, è un medico prestato alla politica: «Nei media L’Aquila è passata come la città dei piagnoni, delle carriole che sfilano, delle polemiche sulle tasse. Non è la verità». Da due anni De Matteis si batte per trasformare il centro dell’Aquila in una zona franca, cioè a burocrazia zero, come è avvenuto in altre parti d’Europa. C’è quasi riuscito, praticamente da solo, lavorando a distanza con i funzionari di Bruxelles e i ministeri europei.

«Vede? È la lettera del capo unità europeo, Maria Blanca Rodriguez Galindo. Possiamo farcela, poi faremmo zone di media imprenditoria. I soldi ci sono, gran parte dei fondi Cipe sono già stanziati, quattro miliardi più due della Cassa depositi e prestiti. Il problema adesso è spenderli. Tremonti ce l’ha detto: spendete questi, poi arriveranno gli altri. La polemica dei soldi, quindi non c’è mai stata, è Cialente ad aver dato un’immagine distorta. Forse perché è senza idee, come ha scritto Giustino Parisse sul Centro, il giornale non ostile al sindaco e alla sinistra? O forse perché l’anno prossimo si vota?». Già, il voto. Come voteranno gli abitanti virtuali dell’Aquila? Chiederanno al sindaco un piano di ricostruzione?

De Matteis guarda il panorama innevato. «Il sindaco non lo vuole chiamare piano di ricostruzione, anche se la commissione governativa lo ha imposto. Ma la questione è molto semplice: il centro storico lo demoliamo o ricostruiamo? E in quale stile? Sono queste le domande a cui il sindaco deve rispondere. Manca l’idea di un progetto civile ed economico legato alla realtà del territorio». In realtà di progetti ultimati ce ne sono molti, ma pochi supportati dalle autorità locali. Dopo l’ospedale omeopatico, messo su in quattro e quattr’otto, il più importante è forse l’edificio polifunzionale per studenti, completamente sponsorizzato dal Canada.

Un gioiello vuoto e ancora inagibile perché mancherebbe la firma del sindaco per l’agibilità. Un caso che fa discutere, soprattutto se paragonato alle 29 new town realizzate ex novo dalla Protezione civile, dove vivono in 15mila. «Abbiamo gli strumenti normativi», s’infiamma De Matteis, «abbiamo i soldi: ma allora perché Cialente e Gianni Chiodi (presidente della Regione, ndr.) sono in stallo? Quando non ci sono loro tutto funziona, vedi il caso Anas, una palazzina realizzata in soli sei mesi».

Cristo s’è fermato all’Aquila. O almeno, a due anni dal terremoto, così sembra consiserando le tre emergenze: urbanistica, sociale ed economica. «Non ci siamo ancora messi d’accorso se ricostruire finti palazzi del quattrocento o nuovi palazzi in vetro? Bene, anzi male. Ma siamo consapevoli invece che stiamo crescendo una generazione di disadattati, visto che di teenager sono privi di luoghi fisici e simbolici, costretti a ciondolare nei centri commerciali o ad andarsene via?».

De Matteis s’incupisce. «Vogliamo dare risposte economiche, sulla zona franca e sulle aziende in crisi? Utilizziamo parte dei fondi Cipe per la grande industria, oltre ai fondi comunitari di obiettivo uno e due già usati? E vogliamo finalmente coinvolgere il sistema creditizio, che beneficiando della sospensione delle tasse nel 2009 ha avuto un incremento di 911 milioni di euro?».

La Basilica di Collemaggio è l’ultimo sussulto al cuore. Il prete celebra la messa ma solo metà della chiesa esiste mentre l’altra, quella dell’abside, è di vetro. La commozione si taglia a fette. L’architetto Ruggeri saluta con un sorriso contagioso. Se ne andrà anche lui dall’Aquila? «La mia casa non è messa troppo male, ma tutti gli edifici della piazza intorno sono distrutti. Forse ci vorranno dieci anni per riaverla funzionante, forse di più. È un paradosso: dopo una carriera passata vivendo qui e lavorando soprattutto fuori, pensavo di andare in pensione. Ma adesso come si fa?».

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«Ju tarramutu», l’Aquila due anni dopo distrutta dal sisma e dagli errori – Foto, ieri e oggi

Boris Sollazzo, 4 aprile 2011

Jutarramutu.it. Prima di tutto, consultate questo sito. Perché parla di un gran bel film documentario, perché lì troverete gli estremi di una legge d’iniziativa popolare nata dalla voglia di partecipazione e ricostruzione di una terra e di donne e uomini che hanno visto crollare le loro case e anche la democrazia. Ma che continuano a non voler rinunciare né alle une né all’altra. E lì, infine, troverete il modo di approfondire speculazioni e aberrazioni che da due anni martoriano una città, una terra in ginocchio.

Ju Tarramutu è, soprattutto, il titolo della nuova fatica di Paolo Pisanelli, uno di quei registi appassionati e caparbi che fanno la fortuna del documentario italiano. È lui che ci racconta da un’angolazione diversa la tragedia cominciata il 6 aprile 2009. Lo fa ad altezza di terremotato, mettendosi dalla parte di chi ha perso tutto, opponendo alle testimonianze civili e umane i maxi schermi, i plasma che invadevano le tendopoli, casse di risonanza della propaganda di governo, quando non erano “solo” armi di distrazione di massa. Uscirà, Ju Tarramutu, il 6 aprile, nel biennale del terremoto in Abruzzo, e deve la sua diffusione, in più di 20 città, alla ZaLab che già provvide al lungo e fortunatissimo viaggio di Come un uomo sulla terra.

Un’ora e mezza in cui cuore e pancia si attorcigliano attorno a uno scultore che ritrova i suoi gioielli o a una donna anziana che con dignità piange nel salotto di casa sua, vedendo come gli sforzi di una vita siano divenuti pareti fatiscenti, scoprendo quanto vicino la morte le sia passata vicino. Un’ora e mezza in cui quelle tendopoli che imprigionano più che accogliere si riempiono spesso delle parole vuote e non raramente stupide di un presidente del consiglio che suggerisce una sistemazione da campeggio di fine settimana. Un gioiello, Ju Tarramutu, che si inserisce nella già nutrita produzione post 6 aprile 2009 e che brilla per originalità e umanità.

«È nato da dentro, per istinto più che per ragionamento- racconta il regista- è un documentario che ho scritto girando, questo è uno di quegli eventi che ti travolge. All’inizio, forse, voleva essere una sorta di esorcismo a quel disastro, poi è diventato qualcosa di più». Diventa un racconto dolente e rabbioso, ma anche dolce e intimo, racconta un dramma collettivo senza mai dimenticare i singoli individui.

«Ho iniziato a seguirli, sono andato lì in varie occasioni. E io L’Aquila non la conoscevo, dovevo andarci pochi giorni prima del sisma, poi l’impegno è saltato. Ho imparato a conoscerla così e ho voluto cercare nelle loro parole, nei loro ricordi, com’era. L’opera ha iniziato a prendere corpo durante il G8, dopo aver incontrato molte persone, aver trovato rapporti importanti. Dai luoghi, spesso inavvicinabili, dal silenzio, sono passato a loro. Trovavo attorno a quella città ormai fantasma tante altre ghost town e attraverso questo film creavo io stesso un luogo, uno spazio da abitare per queste donne, questi uomini senza più un posto proprio. Da qui sono nati tutti gli scambi, umani e creativi, che costituiscono la parte più forte del documentario».

Pisanelli non ha forzato i ritmi, né le storie, con la sua sensibilità acuta ed empatica, ha accettato i tempi lenti di una ricostruzione difficile e controversa. Non ha sfruttato le vittime, le ha accompagnate, è diventato parte della loro vita, spesso è stato partecipe e testimone delle evoluzioni e delle involuzioni delle loro vite. Questo rende Ju Tarramutu un’esperienza unica, prima ancora che un bel lavoro cinematografico. «L’esorcismo, il silenzio, il disorientamento che avevano loro era anche il mio.

Poi anche dentro di me è giunta la rabbia, credo- è una provocazione, ma non troppo- che la scoperta delle intercettazioni in cui gli imprenditori sciacalli ridevano della loro tragedia, si sfregavano le mani in vista degli affari che avrebbero fatto, hanno fatto esplodere il loro dolore, li hanno portati a una reazione forte. È stata una primavera bellissima, dopo una grande depressione che temo stia tornando, a causa delle grandi speculazioni in arrivo. E le responsabilità di questo sono del governo, ma anche delle amministrazioni locali, al terremoto naturale si è aggiunto il terremoto mediatico e quello delle scelte sbagliate. Ciò che non è crollato per le scosse, è stato buttato giù dagli errori».

Appassionato, amareggiato, ammirato, Pisanelli sente forte ormai l’appartenenza al popolo aquilano. Ne ama la dignità e la forza. Laddove, nelle tendopoli, non ci si poteva riunire ed esercitare la democrazia, neanche nelle sue più elementari forme, questo popolo fiero ha trovato la forza di produrre, proporre, stilare una legge d’iniziativa popolare. In mercoledì freddissimi e ostici non hanno rinunciato ai loro diritti. «Questo film, a mio parere, era importante perché L’Aquila è lo specchio dell’Italia di oggi, anche se questa città e il resto del paese sembrano capirsi sempre meno.

Dopo due anni all’orizzonte non si vedono miglioramenti, nonostante il grande lavoro di artisti e intellettuali abbiano fatto da motore e sostegno di questa proposta di legge. Mentre il loro dolore veniva spettacolarizzato, durante un’inarrestabile bombardamento mediatico, nulla veniva fatto per gli aquilani, c’erano solo propaganda e militarizzazione della vita comune. Con queste tv onnipresenti che fanno da controcoro grottesco. Io non ho voluto forzarli, strumentalizzarli ma piuttosto ho cercato e voluto diventare un po’ aquilano». Ci è riuscito. Lo senti dalle sue parole e lo vedi dalle sue immagini.

E dai suoi ringraziamenti. «Era impossibile trovare rifugio in quelle condizioni, senza alberghi né strutture per ospitare esterni. E in quella tragedia, in quel disagio, io ovunque ho trovato una splendida ospitalità. Dalle tende alle nuove case, passando per i rustici in costruzione. Non hanno mai perso la loro forza, nonostante gli attacchi subiti, dalla natura e non solo. Hanno mantenuto un senso civile e sociale fortissimo».