Estremismo nell’agire politico e ricambio della classe dirigente

Franco Astengo
www.paneacqua.eu

In questi giorni è stato presentato il “5° rapporto sulla classe dirigente” elaborato dalla LUISS: si tratta di una fotografia delle élite locali del nostro Paese, realizzata attraverso uno studio di sei realtà italiane (Torino, Varese, Treviso, Reggio Emilia, Ancona e Lecce) che hanno rappresentato, a giudizio dei ricercatori incaricati dello studio, altrettanti “localismi di classe dirigente”.

A questa classe dirigente locale (evidentemente accomunabile ad altra operante in diverse situazioni di provincia) sono affidati tre compiti, l’elaborazione di tre strategie fondamentali attorno a nodi decisivi di quello che abbiamo definito “agire politico”: si tratta di aprire una stagione straordinaria di “mutazione” che abbia a che fare con la crescita effettiva della competitività e della produttività, riferita a tutti i soggetti in gioco e non soltanto alle imprese ma anche alle diverse componenti della Pubblica Amministrazione; la seconda strategia riguarda la capacità di riconoscere che appunto per le élite diventa fondamentale saper gestire i diversi processi di integrazione tra soggetti differenti a partire dalla collaborazione tra le istituzioni, le aziende, i territori e tra i diversi segmenti della classe dirigente; infine si tratta di applicare alla mutazione in corso gli stessi processi di generazione e di ricambio della classe dirigente stessa, con l’obiettivo di fare in modo di “lasciare” ad eredi adeguati.

Dedichiamo questo breve commento al terzo punto appena esposto, relativo proprio al “ricambio della classe dirigente” riferendoci alla politica e segnalando subito che le cose, a questo proposito, stanno in una maniera veramente difficile.
Assistiamo infatti all’emergere di un fenomeno particolare, ormai in atto da tempo ma in via di definitiva affermazione, che definiremmo di “estremismo nell’agire politico”.

Un “agire politico” fuori e dentro alle istituzioni che ormai rifugge dalla mediazione dei corpi intermedi e dalle attese, non facili a volte molto complesse, del completamento di processi di formazione.
Si opera soltanto agli estremi, appunto:considerando, da un lato, l’affermazione elettorale in chiave del tutto personalistica il momento esaustivo del proprio impegno politico.

Un riflesso questo di una personalizzazione esasperata e della scomparsa dei partiti quale veicolo e punto di raccolta delle diverse spinte soggettive all’interno di un progetto comune che poi può assumere anche la vesta di una presenza istituzionale (basta vedere, nelle Città, dove si voterà a maggio per le elezioni amministrative i manifesti con foto e slogan di ogni singolo candidato al Consiglio Comunale per comprendere la profondità e la negatività di questo fenomeno, che tra l’altro provoca difficoltà anche al completamento stesso delle liste, perché coloro i quali si sentono tagliati fuori da questo meccanismo sono riluttanti a “tirare la volata” ai soli noti già appesi sui muri).

Dall’altro lato l’idea dominante appare essere quella di utilizzare la “piazza”, ripetutamente chiamata a manifestare per questa o quell’altra questione, molte tra queste giustissime ovviamente, fornendo a questo modo, attraverso la presenza in piazza, un veicolo di partecipazione che si rivela, però, alla fine del tutto simbolica (senza tener conto, fra l’altro, che la “piazza” è sempre la stessa, sono più o meno le stesse persone che di volta, in volta, manifestano per l’acqua pubblica, contro il nucleare, per la scuola pubblica, per la pace, per la dignità delle donne, e via dicendo: tutti obiettivi sacrosanti ma che, a questo modo, pare impossibile racchiudere in un progetto politico complessivo tale da offrire, anche dal punto di vista della formazione di adeguate strutture organizzate, una ipotesi di cambiamento).

Magari con il solo sbocco politico rappresentato dai referendum: un terreno molto scivoloso, soprattutto sul piano della prospettiva di aggregazioni stabili e, per quanto possibili, coese.

Insomma, il modello dominante, a sinistra, appare essere quello o del “partito personale” o di “Uniti contro la crisi”: entrambi insufficienti sul piano politico, mentre il PD pare dibattersi in una sorta di “incapacità di scelta” proprio rispetto al modello dell’agire politico, tra partito per correnti, partito di massa, federazione tra i soggetti originari “vocazione maggioritaria”, soggetto trainante di una larga coalizione alternativa ed altro ancora.

Una incertezza che, alla fine, lascia tutto fermo dando l’impressione ( più che un’impressione) di sostanziale blocco nell’azione politica di una opposizione, ridotta alle schermaglie verbali.

In queste condizioni, il ricambio della classe dirigente, opportunamente richiamato dai ricercatori della LUISS appare molto difficile, quasi impossibile: registriamo una “staticità” nella composizione delle compagini istituzionali (favorita anche dalle leggi elettorali, ma per ragioni di economia del discorso non apriamo adesso questo capitolo) e il completo dissolvimento dei gruppi dirigenti di partito (ovviamente in parallelo con la distruzione dei partiti sotto l’aspetto del radicamento sociale e della capacità di intervenire sul territorio: mentre mai i partiti sono stati così potenti sul terreno del potere di nomina e di quello di spesa. Ma proprio questa constatazione fa quadrare il cerchio del nostro ragionamento).

La “rottamazione” come pretenderebbe qualcuno si risolverebbe semplicemente con un ulteriore incremento ai fortissimi processi di disaffezione e di populismo- qualunquismo già in atto.

La sola strada possibile per aprire il discorso di una nuova classe dirigente è quella del recupero di “cultura politica”: per far questo occorre, però, disporre di soggetti, agenzie, in grado di lavorare collettivamente attorno a questo obiettivo.
La sinistra dovrebbe riflettere su questi punti, partendo da una analisi del deficit di rappresentanza accumulato nel corso di questi anni, dal cedimento al modello imposto dall’avversario sul piano teorico, sulla necessità di affrontare l’evidente “crisi della politica” attraverso scelte nette, anche sul piano della costruzione dei soggetti rappresentativi.

Le “primarie” non possono essere fondative, in questa direzione: l’idea di un aggiornamento nella forma del partito ad integrazione di massa potrebbe rappresentare invece, almeno a nostro modesto avviso, un campo di studio sul quale ci si potrebbe cominciare ad impegnare.