Siamo stanche di guerra. Siamo stanche di cimiteri marini

Lettera aperta alla donne e agli uomini della provincia di Como
e alle donne e agli uomini che ci rappresentano nelle istituzioni locali.

Siamo stanche di guerra. Siamo stanche di cimiteri marini.
Siamo per l’accoglienza di tutte e di tutti. Qui. Adesso. Se non ora quando?

«Dovremmo protenderci nel Mediterraneo non come “arco di guerra” ma come “arca di pace”». Diceva inascoltato don Tonino Bello. La tragedia avvenuta il 6 aprile nel Canale di Sicilia ci interroga su quanto il nostro paese e l’Europa tutta stiano smarrendo il senso di umanità. Dopo le Rivolte dei gelsomini, le manifestazioni in Libia represse violentemente e l’inizio della guerra (a cui anche l’Italia partecipa nonostante l’articolo 11 della nostra Costituzione), sono ormai centinaia i morti per i naufragi nel Mediterraneo.

Ognuno di loro − donne, uomini, bambine e bambini − ha avuto una donna che gli ha dato la vita e adesso ha una striscia d’acqua a scarnificarne il corpo e a trasportarne le ossa. Dei loro nomi non sappiamo, delle loro storie nemmeno; conosciamo il mare che li porta con sé attorno ai luoghi da noi abitati. Noi Donne in nero, che amiamo la vita, di fronte alla morte restiamo attonite, ma abbiamo il coraggio di nominarla, di ricordarla e di narrarla. Il coraggio del dolore e del lutto, per evitare altre morti e altre tombe marine.

La Camera dei Deputati ha osservato un minuto di silenzio per quelle vittime innocenti. Ma noi non dimentichiamo che è lo stesso Parlamento che il 6 febbraio del 2009 ha ratificato il Trattato di amicizia italo libico che prevede l’impiego di mezzi e risorse per controllare le frontiere e impedire le partenze verso l’Italia. Un’ulteriore norma disumana ha reso istituzionale questo mare di morte, dopo la legge Bossi-Fini, che negli anni precedenti aveva determinato le nuove forme di schiavitù con cui sono stati accolti gli immigrati e le immigrate. Nel Mediterraneo avviene un’altra guerra. La guerra contro gli esclusi.

E non dimentichiamo che il 6 maggio del 2009, dopo che per anni le navi italiane avevano soccorso i migranti anche fuori dalle acque territoriali, per la prima volta il nostro Paese respinse 3 barconi con 227 persone a bordo, cancellando di colpo il principio di non respingimento previsto dall’articolo 33 della Convenzione di Ginevra sul diritto d’asilo. Quelle donne, quegli uomini, quei bambini, quelle bambine provenivano dal Corno d’Africa, la stessa regione da cui provengono i morti di oggi.

In questi mesi di fronte alla Rivolta dei gelsomini e ai conflitti interni ai paesi arabi le istituzioni hanno usato la tracotanza di chi pensa di riuscire a tenere tutto sotto controllo e non ammette di dover guardare con attenzione a ciò che succede. «Di fronte all’esodo, del tutto prevedibile, di alcune migliaia di migranti e profughi non potrebbe essere più indegna la farsa che si recita nell’infelice paese in cui è ci dato vivere. […] E stridente è il contrasto fra la nobiltà della Primavera araba e la miseria delle italiche risposte all’esito scontato e secondario di questa straordinaria svolta storica: nient’altro che caos, disumanità, allarmismo sociale, competizione fra egoismi istituzionali, campi di concentramento, filo spinato, minacce di rimpatri collettivi, ronde “spontanee” e caccia ai fuggitivi perfino nell’ospitale Puglia». Ha scritto Annamaria Rivera, docente di Etnologia ed Antropologia sociale all’Università di Bari.

Le ragioni che spingono i giovani nordafricani a rischiare la vita imbarcandosi sulle carrette del mare sono molteplici: per molti il crollo del settore del turismo e del suo vasto indotto significa perdita di lavoro e reddito, impossibilità di mantenere la famiglia; per altri l’allentamento della sorveglianza poliziesca è stata l’occasione per realizzare il progetto migratorio che avevano nel cassetto; per altri partire, andare a vedere che c’è sull’altra sponda, è il corollario della libertà conquistata con la sollevazione. E per tante e tanti che partono dalla Libia le ragioni sono quelle di fuggire dalla guerra, dalla repressione, dal destino di lavoratori senza diritti, trattati come schiavi.

Pensare di costringere tutte queste aspirazioni umane «entro i fili spinati della nostra mediocrità pigra e incattivita, del nostro egoismo inetto e provinciale, è semplicemente dissennato poiché va nella direzione opposta a quella dei desideri collettivi altrui e del momento storico. Già ora nei recinti di filo spinato si aprono squarci e vie di fuga» (Annamaria Rivera).
Nessuno può fermare una fiumana di uomini e donne che scappano dalla miseria, dalla sofferenza, dalla guerra (di cui spesso siamo responsabili noi) e bussano alla nostra porta.

La Tunisia, piccolo paese alle prese con una difficile transizione politica e sociale, ha accolto con efficienza e umanità 140.000 profughi dalla Libia. L’Italia, grande potenza europea, annaspa nell’emergenza per l’arrivo di poche migliaia di persone. In Italia e in Europa ci si arrampica sulle parole: “Sì ai profughi, no ai clandestini”. Noi non accettiamo che il mondo venga diviso in clandestini e non. Ci sentiamo cittadine del mondo. Per caso nate in Italia. L’unica razza che conosciamo, proprio come Albert Einstein è la razza umana.

Per anni la parola “clandestino”, nel nostro Paese e nel nostro territorio, è stata usata come sinonimo di pericolo, di criminale. Non neghiamo che ci siano anche tra i migranti soggetti pericolosi o criminali, questi vanno puniti individualmente se hanno commesso reati accertati. Ma troviamo inaccettabile considerarli tutti pericolosi. Soggetti pericolosi e criminali ci sono anche tra noi, non sono clandestini e molti vestono in doppio petto, sono stimati e rispettati, con soldi e potere, talvolta dietro il loro volto sorridente ci sono le mafie.

C’è una responsabilità collettiva della nostra società ed una, più pesante, di chi ricopre ruoli istituzionali e ha il potere di produrre, con le proprie scelte, conseguenze concrete sulla vita delle persone.

Alle cittadine e ai cittadini italiani si dice che la guerra si fa per senso di “responsabilità”. Noi consideriamo irresponsabile chi invece di aiutare forze democratiche a crescere porta bombe in nome della difesa dei diritti umani e invece di difendere i diritti umani per tutte e per tutti difende i propri interessi, siano essi economici o geopolitica. E mentre parte con dispiego di aerei e missili per difendere diritti umani calpestati, respinge dalle sue coste popolazioni civili in fuga dalla povertà, dalle dittature e dalle guerre.

Siamo impietrite dalla guerra alla Libia, dalla ripetizione di cose già viste, dal potere maschile che occupa e gestisce gli organi di comando internazionali e nazionali, un potere incapace di cercare strade alternative all’uso della forza e della prepotenza e incapace di prevedere le conseguenze delle proprie azioni.

Di pensieri e azioni rivolti all’umanità che soffre non ne vediamo, vediamo solo le “guerre umanitarie”. Sono all’opera prepotenza, violenza, ignoranza, disinformazione, falsificazione.

Si fa la guerra per “salvare i civili”. Gli stessi che poi si trattano in modo vergognoso e incivile e si cacciano perché non sono “profughi”. Si “ripulisce” Lampedusa dalla loro presenza, una pulizia peggio che etnica, igienica da esseri sottoumani, sporchi. E per farlo si allestisce un campo per gli sfollati a Manduria, nella campagna brindisina, su una spianata polverosa dove nelle tende vengono “internati” migliaia di immigrati, sprovvisti di tutto, con insufficienti servizi igienici, pochi operatori, pochi poliziotti.

Noi Donne in nero pensiamo che si possa e si debba reagire. Non vogliamo sentirci complici, anche solo per scoraggiamento e rassegnazione. Vogliamo urlare in silenzio che noi, che le donne e gli uomini di questo territorio siamo accoglienti e ospitali. Continueremo a essere in piazza in modo nonviolento ma non rassegnato e passivo. Siamo indignate e lo manifestiamo.

Per poco che sia, possiamo ancora dire e far sentire “Non in nostro nome” e il nostro sostegno alle donne e agli uomini del Nord Africa e del Medio Oriente.

Proclamiamo noi una Giornata di lutto per i morti nel Mediterraneo perché anche quei bambini e quelle bambine, quelle donne e quegli uomini fanno parte della nostra comunità umana. Giovedì 14 aprile alle 20.30 porteremo un mazzo di rose rosse al Municipio di Como che rappresenta la nostra comunità locale. La comunità che mancava a quelle vittime della frontiera fuggite dalle guerre in cerca di sicurezza e protezione per sé e per i propri figli. Vogliamo dare, simbolicamente, almeno per un giorno, cittadinanza in questo Paese che li ha respinti e li ha costretti ad un viaggio mortale a quelle persone che non incontreremo mai e che sarebbero potute diventare nostre concittadine.

Continueremo ad impegnarci, nel nostro territorio, per garantire accoglienza e protezione a chi sta arrivando. Continueremo a chiedere che siano aperti adesso canali umanitari per gli altri profughi che sono ancora in Libia e Tunisia, che venga fermata la macchina dei respingimenti, che il nostro paese faccia il suo dovere per sostenere concretamente i diritti umani e i processi di democratizzazione nel Nord Africa. Vogliamo vivere in un paese, in un territorio, in una città viva. Che dica chiaro che c’è un’altra Italia, un’altra Lombardia, un’altra Como. E siamo anche noi.

Vorremmo che altre donne e altri uomini, altri gruppi, altre associazioni − prime fra tutte ACLI Como, ARCI Como, ecoinformazioni, Associazione del Volontariato Comasco-Centro Servizi per il Volontariato, IPSIA Como, Liceo Scientifico “G. Terragni” di Olgiate Comasco, Associazione I Bambini di Ornella, Istituto di Storia Contemporanea “P. A. Perretta”, ANOLF CISL, FIM CISL, CGIL, CLAS CGIL, FIOM CGIL, La Rosa Bianca, Associazione Trapeiros di Emmaus, ASPEm, Cooperativa Questa Generazione, che insieme a noi hanno aderito e partecipato, nel dicembre 2009, al convegno In alto mare del Coordinamento comasco per la Pace − si unissero per chiedere alle donne e agli uomini delle istituzioni del nostro territorio di dare un segno di esistenza e di comprensione della realtà: «Fate subito qualcosa all’altezza dell’emergenza. Dite che la nostra comunità è pronta ad accogliere profughi e migranti. Realizzate subito un piano di ospitalità diffusa. E, intanto, aprite le porte della Caserma della Guardia di Finanza di Capiago Intimiano, della Caserma De Cristoforis di Como e di qualsiasi altro luogo in grado di accogliere con dignità esseri umani. Proprio come noi».

Como, 11 aprile 2011
Donne in nero
via Anzani 9 Como,
tel. 339.1377430, celgros@tin.it