Solidarietà e giustizia verso i migranti: dovere “non negoziabile”

mons. Luigi Bettazzi*
da Adista 32/2011

Cari fratelli nella fede cattolica, sento di dover condividere con tutti voi – e certo con moltissimi altri cittadini d’Italia – la sofferenza per l’ennesima, enorme tragedia di oltre duecentocinquanta immigrati annegati nel Mare Mediterraneo.

Ha già parlato la Cei, l’hanno fatto personalmente tanti vescovi, richiamandoci la domanda che Dio rivolge a Caino (Gen 4, 9): «Dov’è tuo fratello?». Ma sento di dover ancora una volta scrivere una lettera aperta. Non so – e spero di no! – se vi sia qualcuno che dica: «Se lo sono voluti!» oppure «Sanno che non vogliamo vengano a toglierci spazio e lavoro, stiano a casa loro!», e che la frase di un ministro («fuori dai piedi», o giù di lì) fosse una battuta, anche se infelice.

Posso rendermi conto che sul piano politico si possa cavalcare la preoccupazione che persone tanto diverse per condizione sociale, per cultura e spesso anche per religione possano creare situazioni di tensione e di rivalità, ma non posso accettare che lo facciano persone che si professano cristiane, cioè discepole di Cristo, Dio fatto uomo per insegnarci che Dio è amore e che l’amore è non chiudersi in sé ma aprirsi all’altro, tanto che Giovanni (1 Gv 4, 20) potrà definire bugiardo chi dice di amare Dio e non ama il fratello: «Chi infatti non ama il fratello che vede, non può amare Dio che non vede».

Arroccarsi nella difesa delle proprie sicurezze chiudendo il cuore alle sventure dei fratelli che affrontano il rischio della tragedia per trovare una possibilità di vita adeguata ci rende responsabili di queste tragedie, di coloro che muoiono e di quanti sopravvivono.

Certo, dobbiamo affrontare questi problemi in tutta la loro realtà e complessità; ma il modo umano, prima ancora che cristiano, di risolverli è quello di chiederci perché tanti “disperati” affrontino questi rischi, sollecitando quindi ed appoggiando iniziative che sviluppino possibilità nei loro Paesi di origine, spesso già impoveriti dai nostri sfruttamenti, poi organizzando tempestivamente politiche di accoglienza e di distribuzione di questi fratelli nel nostro territorio ed in quello europeo. Dico “tempestivamente”, perché lasciare che i problemi si corrompano rende poi più difficile il loro risanamento. Proprio come l’aver ignorato sul piano politico la tragedia della Libia ha obbligato poi a interventi militari, per di più inadeguati.

Se questo crinale spinge ogni uomo di buona volontà a dedicarsi con impegno a soluzioni “umane” di questi problemi, mette noi cristiani di fronte alla verifica della nostra fede: non possiamo più dirci cristiani se non affrontiamo queste situazioni con una solidarietà che – al dire di papa Giovanni Paolo II – è il nome attuale della carità, quindi la condizione per essere e dirci cristiani.

Dobbiamo essere solidali, dobbiamo spingere i responsabili della politica e della vita sociale alla solidarietà. È un dovere “non negoziabile” di cristianesimo, è un impegno irrinunciabile di umanità.

* vescovo emerito di Ivrea, già presidente di Pax Christi