Migranti di seconda generazione: un nodo da affrontare

Ileana Montini
www.womenews.net

Nei consultori le migranti bisognose di essere seguite per le maternità, ma si tralasciano le secondo generazioni che frequentano o non frequentano le scuole. E quando anche si organizzano incontri (laboratori) per ragazzi e ragazze nelle scuole, è assente quasi sempre un’ottica di genere o la volontà di toccare tematiche come quelle delle religioni.

L’hanno chiamata Jamila la diciannovenne pachistana dell’Istituto Professionale Fortuny di Brescia. Un professore aveva scritto una lettera al quotidiano locale Bresciaoggi per segnalare l’assenza troppo prolungata della giovane peraltro molto brava in tutte le materie. Non era il primo caso però: succede abbastanza spesso, magari alla fine dell’anno scolastico, che le ragazze non facciano più ritorno a scuola perché inviate andate nei Paesi di origine per un matrimonio combinato.

Jamila, pare avesse l’aggravante della bellezza che turbava i sonni dei suoi dei compagni e quelli dei fratelli poco più che ventenni esercitanti “la patria potestà” al posto del padre morto. L’attenzione dei media che dal quotidiano locale si è estesa ai grandi nazionali e persino alle Tv, ha costretto il console pachistano a intervenire ottenendo il suo ritorno a scuola. Non senza una sorta di conferenza stampa in casa, alla presenza vigile del console, di un fratello, della mamma non parlante l’italiano e con il contorno di un nipotino.

Conferenza stampa necessaria a spiegare che non c’era stata alcuna segregazione perché, ha dichiarato uno dei fratelli, l’assenza (prolungata ) da scuola era finalizzata alla ricerca di un volo per lei e la mamma alla volta del Pachistan a causa di un nonno morente. La giovane, coperta dalla testa ai piedi ha poi spiegato che non c’è stata alcuna intenzione di costringerla a un matrimonio forzato, anche se lei si sposerà certamente con un connazionale.

Né si ritiene paragonabile alla pachistana uccisa, sempre a Brescia, dal padre alcuni anni fa in quanto “eccessivamente occidentalizzata”. Ha spiegato che a scuola ci va soltanto accompagnata dalla madre o dai fratelli; e se si rifiuta di dare la mano ai giornalisti uomini è in ottemperanza alla cultura pachistana. Si è anche vantata di non andare mai alle feste delle compagne sempre perché la sua cultura prevede che una donna non esca mai da sola.

Qualche giornalista (maschio) ha elogiato il “pudore” della ragazza così lontano “nel Paese del Ruby Rubacuori” perché ha già saputo rifiutare offerte televisive variegate. E altri che si interessano nella città di Brescia dei problemi dei migranti, si sono precipitati a ripetere che queste situazioni non sono da imputare allea religione.

In una mia intervista realizzata lo scorso anno proprio in questa scuola con un gruppo di ragazze tra 16 e i 16 anni, in maggioranza pachistane, era emerso un comune denominatore: arrivare vergini al matrimonio, sposare un connazionale, condividere a scuola la vita con compagni e compagne, ma poi rientrare nel gruppo etnico.

Jamila vuole la cittadinanza italiana, ma anche il diritto a osservare i comportamenti e i valori della cultura dei genitori di cui la religione islamica è l’esplicitazione rituale e normativa. Il suo corpo di donna deve allora essere oscurato dalla testa ai piedi in quanto rappresenta l’onore della comunità familiare; che si basa proprio sulla proprietà delle donne da parte degli uomini: padri, fratelli, mariti e figli maschi.

Nelle comunità immigrate si cerca strenuamente di mantenere viva la tradizione dei padri, mentre in occidente vige la crisi della figura paterna mal tollerata da psicoanalisti e politici. La crisi del padre coincide con la crisi della religione tout court.

E’, in fondo, la crisi della “legge di natura” che impone i ruoli complementari maschio-femmina. Le religioni del dio unico predicano esattamente lo stesso principio dell’eguaglianza dei sessi nel “rispetto” delle differenze presunte naturali.
Ormai serpeggia, non troppo dissimulata, la nostalgia della legge del Padre; che trapela così bene quando si legge che le donne in Occidente essendosi svincolate dalla tutela maschile, la “danno” con facilità anche per fare carriera; mentre Jamila “non usa come merce la sua bellezza” (Tedeschi, Bresciaoggi 19.4.011).

E’ vero che in Italia, paese cattolico per eccellenza, l’on.Daniela Santanchè può dichiarare che vigilerà su questo caso emblematico perché le donne devono essere libere. Evitando di fare i conti con una cultura ancora intrisa di valori patriarcali dalla Chiesa ribaditi, e che si manifesta in una politica legislativa ancora fortemente discriminante per le donne.

Come si evince dalle statistiche che ogni tanto ci informano sul maggior peso del lavoro di cura sulle mamme-mogli-figlie-sorelle ecc… _ La cultura patriarcale-cattolica del paese Italia ha prodotto il mantenimento della dicotomia vergine o madre, contro puttana-escort.

Damiano Galletti della Camera del lavoro di Brescia, ha raccontato alla stampa che i cittadini pachistani sono 16 mila a Brescia e le donne il 36%. Donne che stanno sempre a casa, tra di loro. Non è l’unica comunità a vivere chiusa, separata dal resto della cittadinanza. Il timore di perdere i connotati identitari collettivi spinge, soprattutto gli emigrati (maschi) di religione islamica, a imporre tacitamente alle donne, anche mediante l’abbigliamento, il compito di fungere da marcatori d’identità.

Mentre nei Paesi islamici, soprattutto nell’area araba, i fermenti femminili di ribellione dilagano producendo riletture interpretative del Corano, molto simili a quelle che sono state prodotte in Occidente dopo il Concilio Vaticano II per l’Antico e il Nuovo Testamento.

Nell’emigrazione le donne tacciono o colludano con il potere maschile. Troppo spesso insegnanti, psicologi, personale medico, formulano letture superficiali e affrettate di queste realtà perché hanno ricevuto una formazione incentrata ,al massimo, sull’intrapsichico decontestaulizzato. Sono privi di formazione sociologica,antropologica e politica o geopolitica. Soprattutto psicologi e psicoterapeuti ricevono una formazione al neutro universale: è assente ,sempre, una lettura di genere.

Ha scritto Paola Zaretti sul Paese delle donne: La psicanalisi non è donna, non lo è mai stata – e forse non è neppure necessario che lo sia – benché si debba alle donne e alle loro cosiddette “patologie” la sua esistenza e la fortuna di molti “professionisti della psiche” tra la metà degli anni ’70 e gli anni ’80. Neppure la filosofia, in verità, è mai stata donna e Luce Irigary – filosofa prima che analista – lo sapeva così bene da dar vita, a suo tempo, al pensiero delle differenza su cui un certo numero di filosofe femministe, soprattutto italiane, si sono poi cimentate e confrontate dando il meglio di loro stesse, denunziando e mettendo radicalmente in discussione l’impianto fallologocentrico del pensiero filosofico maschile e l’ordine simbolico che da sempre affliggono la cultura dell’occidente.

Un ordine simbolico ereditato acriticamente dalla psicanalisi ortodossa e non, che, dopo aver elaborato – con buona pace di Arendt – una teoria declinata rigorosamente al maschile singolare, si è sempre preoccupata di “curare” le donne includendole a forza e senza riuscirci, in una dottrina scritta da uomini e per uomini. A cominciare da Freud e da quelle “isteriche” resistenti e ingrate – come Dora – per nulla inclini ad accreditare successi immeritati sul conto del grande Maestro.

Le donne, è vero, hanno una funzione importante e decisiva: servono, non c’è dubbio. Sono servite alla psicanalisi e agli psicanalisti, sono “servite”, il 13 Febbraio, alla sinistra e ai fautori dell’antiberlusconismo con la loro imprevedibile e sontuosa presenza nelle piazze d’Italia dopo oltre trent’anni di silenzio tombale.

Dinanzi a una così massiccia partecipazione di donne diverse per età, condizione sociale, razza e religione, si è riaccesa in cuor mio, – perché non dirlo – la segreta speranza di un ritorno di fiamma, quanto mai salutare e benefico, di un po’ d’ “isteria” dopo anni di scomparsa – forse non casuale – e di omologazione del disagio femminile entro quadri clinici e nosografici tipicamente maschi, a riprova – se ce ne fosse bisogno – dei danni risultanti da un egualitarismo indifferenziato in cui il marchio vincente del patriarcato diventa preclaro persino nella “malattia”.

Certo, si varano corsi di alfabetizzazione fondamentali per le donne immigrate di una certa età che non accedono alla scuola pubblica. Certo, si ricevono nei consultori le donne bisognose di essere seguite per le maternità, ma si tralasciano le secondo generazioni che frequentano o non frequentano le scuole.

E quando anche si organizzano incontri (laboratori) per ragazzi e ragazze nelle scuole, è assente quasi sempre un’ottica di genere o la volontà di toccare tematiche come quelle delle religioni. Il cui ruolo negativo nella formazione o mantenimento degli stereotipi di genere è sempre assai pesante.