Riprendersi il futuro con l’ecologia

Guido Viale
www.ilmanifesto.it

Anche i quattro milioni di precari italiani, come i due milioni di disoccupati, e i milioni di lavoratori “scoraggiati” di cui le statistiche nemmeno tengono conto, anzi, soprattutto loro hanno bisogno di una grande conversione ecologica. Questa economia, questo sistema, prima ancora che questa politica economica non offrono a nessuno di loro alcuna chance. E’ in pieno svolgimento nel nostro paese una competizione al ribasso, destinata a portare allo smantellamento e alla liquidazione di tutto ciò che nell’attuale assetto dei rapporti internazionali non ha la forza per competere: aziende, interi settori, ruoli, saperi, posti di lavoro, redditi.

Ma non è che, in un schumpeteriano processo di “selezione naturale”, per ogni impresa, settore, posizione e reddito che si perde se ne creino uno o più di nuovi. Perché ciò accada bisognerebbe “mettere al lavoro” le energie e le risorse presenti nel del corpo sociale oggi latenti, sopite, sprecate o represse; che sono tantissime. C’è chi sostiene che “il Capitale” lo sta facendo, o lo ha sempre fatto; anche se non le remunera per quello che valgono. D’altronde lo “sfruttamento”, in senso proprio, non è che questo. Ma più passa il tempo e più è difficile dare pieno credito a questo schema.

Si ha l’impressione che quello che non viene messo al lavoro sia molto ma molto di più; e sembra comprovarlo il senso di frustrazione che attanaglia migliaia di giovani – e sempre più, anche di meno giovani – precari maltrattati, avviliti, adibiti a funzioni sempre più povere di contenuti, di innovazione, di soddisfazioni, o anche disoccupati o addirittura scoraggiati; mentre dall’altro lato si spremono sempre di più, fino all’ultima frazione di secondo, i sempre meno che sono al lavoro; quando sono al lavoro.

E’ difficile pensare che nel medio periodo (e come dicono i precari, «il nostro tempo è adesso») ci sia, in Italia o in Occidente, una ripresa economica sufficiente a fare da traino a un aumento dell’occupazione di qualità. Ancora più difficile pensare che il contratto unico a tempo indeterminato – con libertà di licenziamento senza giustificazioni – da tempo proposto dal senatore Pd Pietro Ichino, e ora abbracciato anche dall’ex senatore Pd Nicola Rossi e dall’aspirante sostituto di Berlusconi, Luca di Montezemolo, possa contribuire a ricreare il lavoro che non c’è.

Il fatto è che se non si cambia rotta il declino è non solo irreversibile, ma destinato a un’accelerazione. E cambiare rotta vuol dire produrre e consumare altro: altre energie, altri alimenti, altre abitazioni, un’altra mobilità; con fonti rinnovabili, agricoltura sostenibile, veicoli condivisi, un’urbanistica e un’edilizia ecologiche, una educazione permanente fondata sull’alternanza scuola e lavoro, sul recupero della manualità, sull’apertura della scuola e dell’università al mondo esterno: che non è il mondo delle imprese e dei loro manager, introdotti surrettiziamente – e gratis – dal ministro Gelmini nei consigli di amministrazione degli atenei; bensì il mondo dei saperi diffusi, delle buone pratiche e delle scuole di vita, di cui il modo del lavoro, della precarietà e della disoccupazione è così ricco.

In questa apertura, di cui il movimento degli studenti e le loro organizzazioni possono e dovrebbero farsi promotori, ci può essere spazio per tutti i saperi e le competenze acquisite, per le esperienze già fatte, ma anche per le aspirazioni, le aspettative, i sogni e i bisogni di cui il popolo disperso dei precari, ma anche il mondo dei lavoratori ancora occupati, e non solo loro, sono portatori.

Vanno sottoposti a una verifica di fattibilità in uno “spazio pubblico” finalmente aperto al confronto tra chi non ha mai avuto la possibilità di incontrarsi. Una verifica di fattibilità articolata per obiettivi, progetti e programmi, che ne definisca dimensioni, modalità, tempi, localizzazioni, costi, interlocutori (i potenziali stakeholder); mantenendo i piedi per terra, ma senza piegarsi al diktat della mancanza di risorse.

I soldi ci sono (ne hanno molti i ricchi, anche se è sempre più difficile riprenderglieli); le risorse (soprattutto il cosiddetto capitale umano) sono molte di più di quelle attualmente impegnate, perché la maggior parte giace inutilizzata o viene sprecata. Ma senza progetti e programmi nati da un impegno e un confronto congiunto di bisogni, interessi e competenze diverse anche le rivendicazioni non hanno gambe per camminare.

L’ultimo approdo del liberismo, la big society propugnata nel Regno Unito dal governo Cameron, vorrebbe mettere al lavoro quelle risorse gratis, per risparmiare sui budget pubblici, e poi devolverli alla finanza internazionale per tapparne i buchi. Difficile riuscirci in un panorama di desolazione, disperazione e soprusi come quello attuale.

Ma certo il liberismo le risorse le sa individuare, e lo vediamo all’opera nel saccheggio dei beni comuni, dei servizi pubblici locali, delle residue forme di welfare, nell’evasione fiscale, nel ricorso al lavoro nero, nella contiguità con criminalità organizzata, nel cinico sfruttamento della disperazione di chi si è visto rubare presente e futuro.

Con la prospettiva di riprendere in mano la gestione della propria vita e dei propri affari molte di quelle risorse possono essere messe in valore con un approccio differente. Non c’è solo il mercato per mettere all’opera le risorse esistenti. E, soprattutto, non lo può e non lo sa più fare il mercato esposto alla concorrenza internazionale più sregolata, dove tutti sono destinati prima o dopo a perdere e nessuno può mai vincere. La riterritorializzazione di programmi e progetti, l’economia e la democrazia a chilometri zero, invece, possono rimettere in moto molte cose. Lo hanno fatto e lo hanno dimostrato con tanti esempi e buone pratiche di “altra economia”.

Lo potrebbero fare su una scala infinitamente più ampia se solo ricevessero dalle amministrazioni e dai governi locali, anche senza risorse aggiuntive, la legittimazione e l’appoggio necessari a diffondersi e moltiplicarsi. Si possono promuovere accordi che scavalchino l’intermediazione del mercato, o che l’accorcino; promuovere forme di scambio modellate sul principio del baratto; rivalutare l’usato se impariamo a prenderne cura e a ripararlo; promuovere il dono se i destinatari sono noti e non surroga i mancati adempimenti di chi ci governa. Soprattutto, si possono elaborare progetti e piattaforma sulla cui base rivendicare una diversa allocazione delle risorse esistenti.

In ogni caso, uno spazio pubblico ricreato in queste forme può diventare una scuola di autoformazione e di crescita per tutta la cittadinanza attiva; ma anche il vivaio di una nuova imprenditoria o la sede di una riconversione di un’imprenditoria senza più futuro lungo le vecchie strade. Non bisogna averne paura: le imprese e gli imprenditori (singoli, sociali, collettivi, pubblici o privati) servono.

Quello che si rivendica poi bisogna saperlo fare senza delegalo a una qualsiasi controparte; e l’occupazione, qualsiasi forma di occupazione che impegni con reciproca soddisfazione chi la rivendica e la vuole conquistare, è sempre un’impresa: cioè un progetto da formulare e realizzare in forme tali da poterne mantenere il controllo nelle mani di chi lo ha promosso e voluto: non solo i lavoratori che vi sono direttamente impegnati, ovviamente, ma anche tutte le componenti organizzate e le istituzioni della cittadinanza attiva che hanno partecipato alla sua elaborazione e alla sua realizzazione. L’importante è cominciare.

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Dopo la ThyssenKrupp. Diritti sul lavoro e possibile protagonismo sindacale

Gabriele Battaglia
www.peacereporter.net

Marco Revelli, sociologo, studioso dei processi produttivi, ha analizzato per anni la fabbrica e la sua trasformazione con Torino come punto d’osservazione. A lui chiediamo un commento a freddo sulla sentenza ThyssenKrupp.
Per il rogo che la notte del 6 dicembre 2007 uccise sette operai, la corte d’assise di Torino ha condannato a sedici anni e mezzo per “omicidio volontario” l’amministatore delegato Harald Espenhahn. Altri dirigenti sono stati condannati a diverse pene per “omicidio colposo”.

Si dice che questa sentenza farà storia, e sarà un importante precedente per la giurisprudenza italiana, perché la Procura di Torino ha deciso per la prima volta di procedere per omicidio volontario e non, come si è sempre fatto nei casi di infortuni sul lavoro, per omicidio colposo. Come si inquadra in un contesto come quello torinese e italiano che sembrava segnato dal referendum di Marchionne?

La sentenza è davvero storica perché permette un salto di qualità nella considerazione sociale degli omicidi bianchi, che finora erano ritenuti “non voluti” dal datore di lavoro, come gli incidenti stradali provocati da guidatori sobri. Si afferma un nuovo punto di vista: chi fa lavorare le persone in condizione di rischio evidente, ne assume poi la responsabilità oggettiva in caso di incidente. È in controtendenza rispetto al contesto odierno. Tutto sembrerebbe andare in altra direzione, compreso il modo in cui i media hanno affrontato il referendum alla Fiat. L’impresa viene assunta con le priorità e l’autorità che un tempo erano assegnati agli oggetti sacri o alla sovranità statale. In questo caso non è stato così perché ciò che è accaduto alla Thyssen è di una gravità straordinaria, uno di quegli eventi che aprono una breccia nella pigrizia prevalente: per il modo in cui la strage è avvenuta, per come è stata documentata, per l’agonia delle vittime, per la possibilità di ascoltare addirittura le voci dei protagonisti e anche perché è avvenuta a Torino, dove la memoria del lavoro continua ad avere una traccia profonda.

Come ha reagito Torino?

Una Torino “diversa” si era rivelata nelle settimane del braccio di ferro tra operai di Mirafiori e Marchionne. Lì davvero respiravi in città un sotterraneo senso di solidarietà nei confronti degli operai, il riconoscimento della loro dignità contro l’asservimento che voleva la Fiat. Non era così scontato. Oggi invece domina l’opacità di una campagna elettorale stanca, lontana dal sociale. Forse si è arrivati a questa sentenza anche perché la proprietà della Thyssen è straniera.

Infatti c’è da chiedersi se una sentenza del genere sarebbe stata possibile anche contro la Fiat.

Tutto sarebbe stato molto più complicato, soprattutto perché gli organi d’informazione e i vari poteri avrebbero creato difficoltà ai giudici nell’esprimersi con tale nettezza.
Va detto che la sentenza è sacrosanta: dice a tutti che l’Italia non è la Sun Belt, non siamo in un distretto periferico dell’Europa in cui ci si può permettere di far lavorare la gente in condizioni che nel proprio Paese non sarebbero accettabili. Non siamo una colonia della Germania.

A volte però sono gli stessi lavoratori a ritenere la giustizia controproducente. C’è anche chi ha detto: “Ecco, bell’affare, adesso chiudono tutto e portano la produzione altrove”.

È l’altra metà del cielo: la voce di un mondo del lavoro che ha subito la sconfitta sociale dell’ultimo quarto di secolo ed è stata posta in condizioni di lavoro servile. Si è assuefatta alla perdita dei diritti e pensa alla sopravvivenza come accettazione di una realtà ineluttabile in cui il rapporto di forza è così asimmetrico che non resta che piegare la testa. Le organizzazioni sindacali che hanno sottoscritto l’accordo della Fiat voluto da Marchionne, che spoglia i lavoratori dei loro diritti, riflettono lo stesso punto di vista: “Primum vivere”. Solo che qui si muore. È il paradosso imposto da Marchionne: “Accetta di lavorare come uno schiavo o non lavorerai per niente”.

Dal punto di vista giuridico, è stata accettata la tesi della “negligenza consapevole” di chi, dovendo investire sulla sicurezza antincendio, non lo ha fatto, “accettando il rischio” di un incidente. Ci sono vicende in corso su cui la sentenza di Torino potrebbe influire?

Sicuramente nel caso dell’amianto, infinitamente più esteso di quello della Thyssen e tutt’ora aperto. In quel caso, la sentenza di Torino può avere una ricaduta a pioggia. Esistevano ricerche che dimostravano le conseguenze dell’esposizione all’amianto e i dirigenti hanno continuato la produzione a lungo, esponendo a rischi mortali non solo i lavoratori, ma anche la popolazione attorno alle imprese.

Dopo questa sentenza, il sindacato può passare di nuovo all’offensiva sul piano dei diritti?

Bisognerebbe innanzitutto che esistessero ancora dei sindacati. Oggi ci sono solo dei settori del mondo sindacale che fanno sindacato: la Fiom, la Cgil – in modo alternante – continuano a pensare che il proprio compito sia quello di tutelare i lavoratori sul posto di lavoro, negoziando tutte le condizioni in cui il lavoro viene svolto. Una parte del mondo sindacale ha invece considerato “naturali” le scelte delle imprese e fornisce servizi ai propri iscritti senza negoziarne le condizioni di lavoro. La sentenza dovrebbe rafforzare tutti coloro che vogliono tutelare i lavoratori sul luogo di lavoro, in modo preventivo e non dopo che la catastrofe è avvenuta. Questo perché chiama in causa direttamente tutti coloro che hanno a che fare con il problema della sicurezza.