Alla Camera il ddl Calabrò sul testamento biologico

Cinzia Gori (*)
www.cronachelaiche.it

Ddl Calabrò, autodeterminazione, articolo 32, nutrizione, DAT (Dichiarazione anticipata di trattamento), testamento biologico, libertà, Costituzione, laicità…

Queste le parole che ci hanno accompagnato negli ultimi mesi, provocando accese discussioni con massivo coinvolgimento dell’opinione pubblica a tutti i livelli. Definizioni fumose, contorte, articoli farraginosi, per una legge che invece di garantire l’applicazione dell’articolo 32 della Costituzione («Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana») si è trasformata in una legge contro il testamento biologico. Una legge che avrebbe dovuto rispettare la libertà di autodeterminazione degli italiani, avrà invece un effetto liberticida in ogni suo enunciato, rispettosa di principi confessionali e ideologici anziché dei diritti fondamentali della persona.

A conferma di ciò basti pensare a quanto detto il 18 febbraio scorso dal capo del Governo in occasione dell´incontro delle delegazioni dell´Italia e del Vaticano all´annuale vertice celebrativo dei Patti Lateranensi: «Il Governo su temi etici e scuole cattoliche terrà conto delle indicazioni della gerarchia ecclesiale. Ma non autorizzerà nemmeno l´adozione ai single, accogliendo le riserve già espresse dal Vaticano», nell’evidente tentativo di lavarsi dei suoi peccati e pagando pegno al Vaticano.

Ma proviamo ad analizzare nei dettagli questa autentica mostruosità legislativa del decreto Calabrò (qui il testo in discussione alla Camera).

L’articolo 1 apre dichiarando di tener conto degli articoli della Costituzione 2, 3, 13 e 32; il punto a richiama doverosamente il principio per cui «nessuno può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario», e questo farebbe sperare bene perché si riconosce la libertà di autodeterminazione della persona, cosa che però viene sconfessata nell’articolo 7 al punto 2 quando si afferma che «il medico non può prendere in considerazione indicazioni orientate a cagionare la morte del paziente».

Si torna poi trionfalmente al vecchio paternalismo medico quando si ribadisce che «Le indicazioni sono valutate dal medico» facendo appello alla deontologia professionale che il legislatore sembra però non conoscere, poiché il codice deontologico medico all’articolo 38 – quando tratta dell’autonomia del cittadino e direttive anticipate – afferma che «Il medico deve attenersi, nell’ambito della autonomia e indipendenza che caratterizza la professione, alla volontà liberamente espressa della persona di curarsi e deve agire nel rispetto della dignità, della libertà e autonomia della stessa.[…] Il medico, se il paziente non è in grado di esprimere la propria volontà, deve tenere conto nelle proprie scelte di quanto precedentemente manifestato dallo stesso in modo certo e documentato».

Si procede quindi con cavilli e legacci, che rendono l’attuazione della legge particolarmente insidiosa e di difficile attuazione. Già nei primi articoli, infatti, sorgono problematiche che sembrano di poco conto per il legislatore.

Articolo 2, punto 3: «L’alleanza terapeutica […] si esplicita in un documento di consenso informato, firmato dal paziente, che diventa parte integrante della cartella clinica».

Questo concetto della firma si riprende anche nell’articolo 4, punto 1: «Le dichiarazioni anticipate di trattamento non sono obbligatorie, sono redatte in forma scritta con atto avente data certa e firma del soggetto interessato» e al punto 2 si ribadisce che «Le Dichiarazioni anticipate di trattamento, manoscritte o dattiloscritte, devono essere adottate in piena libertà e consapevolezza, nonché sottoscritte con firma autografa». Questa ultima puntualizzazione della firma autografa è proprio la ciliegina sulla torta. A questo punto il legislatore dovrebbe spiegare come pensa che un paziente tetraplegico, o in stato avanzato di SLA o con altro impedimento che non gli permetta di tenere in mano una penna possa firmare le sue dichiarazioni. Cosa accadrebbe in questo caso?

Articolo 3, punto 5: «Anche nel rispetto della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, stipulata a New York il 13 Dicembre 2006, alimentazione ed idratazione delle diverse forme in cui la scienza e la tecnica possono fornirle al paziente, devono essere mantenute fino al termine della vita […] Esse non possono formare oggetto di dichiarazione anticipata di trattamento». Qui per rafforzare il principio che pane ed acqua non si negano a nessuno, ci si appella strumentalmente anche alla Convenzione delle Nazioni Unite che nell’articolo 25 dice: «Richiedere agli specialisti sanitari di prestare alle persone con disabilità cure della medesima qualità di quelle fornite agli altri, in particolare ottenendo il consenso libero e informato della persona con disabilità coinvolta, accrescendo tra l’altro la conoscenza dei diritti umani della dignità, dell’autonomia e dei bisogni delle persone con disabilità».

Visto che l’articolo 3 inizia con un “anche”, è proprio in forza di questa congiunzione che se vogliamo rispettare anche la convenzione Onu è opportuno precisare che anche qui si richiede di ottenere il consenso informato e non l’imposizione obbligatoria della nutrizione «fino al termine della vita». Sottolineiamo inoltre che anche l’articolo 3 (Principi generali) di questa Convenzione ribadisce: «il rispetto per la dignità intrinseca, l’autonomia individuale, compresa la libertà di compiere le proprie scelte, e l’indipendenza delle persone».

Dal momento che i nostri politici tirano in ballo la Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti delle persone con disabilità, per amor di coerenza dovrebbero citarla ed applicarla in tutta la sua completezza in particolare laddove si raccomanda di garantire l’apporto delle dovute risorse e supporti alle persone disabili (non agli stati vegetativi). Si ricorda, inoltre, al ministero della Salute, che nel 2006, su esplicita richiesta dello stesso ministero, sono state redatte le linee guida per la Nutrizione Artificiale dove l’articolo 15.5.0 recita: «Nel caso rappresenti terapia alla fine della vita o nello stato vegetativo permanente, la Nutrizione Artificiale dovrà rispondere ai criteri di beneficienza in Medicina […] e cioè assicurarla/interromperla rispettando le documentate convinzioni etiche del paziente». Anche questo piccolo particolare sembra essere stato dimenticato dell’onorevole Calabrò e compagni.

Articolo 4, punto 3: «[…] la dichiarazione anticipata di trattamento ha validità per cinque anni, che decorrono dalla redazione dell’atto ai sensi del comma 1, termine oltre il quale perde ogni efficacia». Cosa succede se un cittadino firma oggi la sua dichiarazione di volontà e fra quattro anni subisce un grave incidente, cade in coma per un certo numero di mesi e deve poi attendere un altro anno per essere dichiarato in Stato Vegetativo? La sua DAT nel frattempo sarà scaduta e in forza di questa legge perderà ogni efficacia.

Ci troveremo quindi nella paradossale situazione che colui che aveva scelto la sospensione dei trattamenti in caso di Stato Vegetativo si vedrà costretto a subire esattamente quello per cui si era esplicitamente espresso contro. Visto che lo stesso articolo al punto 4 prevede che «la DAT può essere revocata o modificata in ogni momento dal soggetto interessato» che bisogno c’era di mettere una scadenza? Forse nella subdola speranza che il soggetto se ne dimentichi o che raggiunga, con il passare dei quinquenni, uno stato di demenza senile tale da non poterla più rinnovare?

Quelli sopra elencati sono solo alcuni dei punti poco chiari o contradditori di questo disegno di legge. Scendere in ulteriori dettagli sarebbe lungo e noioso. La speranza è che tutti i cittadini possano prendere coscienza di quanto questa legge sia falsa e liberticida, contraria al principio di laicità dello Stato e, soprattutto, incurante della libertà individuale garantita dalla Costituzione.

(*) portavoce Coordinamento Laico Nazionale