La lezione di Giolitti

Emilio Carnevali
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Ha fatto molto scalpore quella citazione di Antonio Giolitti – straordinaria personalità del riformismo italiano scomparsa un anno fa e ricordata lo scorso 4 maggio con un convegno organizzato dalla Treccani e dalla Fondazione Basso – che il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ha voluto dedicare «a chi fa politica oggi ed è, a quanto pare, all’opposizione». In sostanza un appello affinché la sinistra italiana – sulla scorta di una riflessione di Giolitti contenuta nelle Lettera a Marta (un testo del 1992) – possa finalmente darsi il profilo di una «alternativa credibile, affidabile e praticabile», dove per “praticabile” deve intendersi una linea politica che renda «realistiche e perciò convincenti le valutazioni degli obiettivi programmatici perseguibili, degli ostacoli da superare, delle gradualità a tal fine necessarie».

Ha ragione Eugenio Scalfari quando, sulla Repubblica di ieri, parla dell’attualità del «lascito politico, morale e culturale di Antonio Giolitti» inquadrando la sua figura in quella tradizione del «Socialismo liberale» nata con i fratelli Rosselli e il movimento di Giustizia e Libertà, transitata nell’azionismo e poi riemersa, pur fra mille ambiguità, nel travagliato percorso che il Partito socialista italiano affrontò fra la crisi dell’Ungheria (1956) e la primissima fase dell’era craxiana (prima dell’apogeo della “stagione dei nani e delle ballerine”). Per Socialismo liberale è da intendersi, riprendendo ancora le parole di Scalfari, il «tenace tentativo di tenere stretti insieme i due grandi valori della libertà e dell’eguaglianza che non possono essere separati senza dar luogo il primo ad una selva di privilegi in favore di una oligarchia dei forti a danno dei deboli e il secondo alla demagogia e infine alla dittatura».

La sostanza di questo messaggio era già tutta presente nelle parole pronunciate dallo stesso Giolitti nel corso di quel celebre VIII Congresso che segnò – all’indomani della repressione sovietica della rivoluzione ungherese – lo strappo di Giolitti dal Partito comunista italiano: «La società socialista, nel suo stesso farsi, elabora ed applica nuove e più avanzate forme di democrazia – anche diretta – specie per quanto riguarda la partecipazione dei lavoratori alla direzione dell’attività produttiva. Ma essa fa anche proprie le libertà formali dei regimi borghesi, riempiendole di quel contenuto concreto e universale che esse possono avere, solo quando non sono limitate e falsate dall’esistenza di privilegi di classe. Perciò noi oggi possiamo e dobbiamo proclamare, senza riserve e senza doppiezze, che le libertà democratiche, anche nelle loro forme istituzionali di divisione dei poteri, di garanzie formali, di rappresentanza parlamentare, non sono “borghesi” ma sono elemento indispensabile per costruire la società socialista nel nostro paese».

Poco dopo, nel corso di quel Congresso, intervenne con toni assai polemici un giovane delegato di Caserta, Giorgio Napolitano, che accusò «il compagno Giolitti» di non vedere «come nel quadro della aggravata situazione internazionale, del pericolo di ritorno alla guerra fredda non solo ma nello scatenamento di una guerra calda, l’intervento sovietico in Ungheria, evitando che nel cuore dell’Europa si creasse un focolaio di provocazioni e permettendo all’Urss di intervenire con decisione e con forza per fermare l’aggressione imperialista nel Medio Oriente, abbia contribuito in misura decisiva, non già a difendere solo gli interessi militari e strategici dell’Urss ma a salvare la pace nel mondo». Una posizione sulla quale lo stesso Napolitano è più volte tornato anche in tempi recenti con parole di autocritica: «Mi mosse allora», ha scritto il Presidente della Repubblica nella sua autobiografia politica uscita nel 2005 con Laterza, «un certo zelo conformistico»: «ci condizionarono», ha dichiarato Napolitano con riferimento alla quasi totalità del gruppo dirigente comunista, compatto dietro la linea tracciata da Palmiro Togliatti (con la lodevole eccezione del segretario della Cgil Giuseppe Di Vittorio), «soprattutto il concepire il ruolo e l’azione del partito comunista in Italia come inseparabili dalle sorti del “campo socialista” guidato dall’Urss e l’aderire alla suprema necessità – quale solo la leadership sovietica potava valutare – dell’intangibilità di quel campo di fronte alla sfida del fronte “imperialista”».

Cinquanta anni dopo quel dibattito e quella rottura, che tante conseguenze ebbe sulle sorti della sinistra italiana e sul rapporto fra le due principali forze politica che di essa erano espressione, l’intuizione di Giolitti parla ancora al mondo di oggi: non può esserci giustizia senza libertà e libertà senza giustizia.
L’istanza di libertà vive nelle rivoluzioni che nel mondo arabo stanno faticosamente cercando di tracciare un’alternativa laica e democratica all’islamismo politico nel nome del quale ha preso forma in passato la voglia di riscatto delle masse diseredate e l’opposizione nei confronti di oligarchie corrotte; ma vive anche, deve vivere, nei tentativi di fronteggiare una crisi strutturale della democrazia che interessa praticante tutti i paesi occidentali, soprattutto riguardo al nevralgico e tuttora irrisolto problema del rapporto fra sistema delle comunicazioni di massa, finanziamento privato della politica e meccanismi di creazione democratica del consenso.

E d’altra parte l’istanza di giustizia ed eguaglianza non può non tornare prepotentemente al centro dei programmi di una sinistra capace di far tesoro della devastante crisi economica che ci ha investito nel biennio 2007/2008 e che tuttora fa sentire le sue pesanti conseguenze in termini sociali. Una crisi nata dagli scompensi finanziari innescati da una insostenibile distribuzione del reddito fra le famiglie americane e che fra le altre cose, come ha scritto il premio Nobel per l’economia Joseph Stiglitz, «ha messo alla prova alcuni degli assiomi che imputano la responsabilità della disoccupazione alla rigidità del mercato del lavoro, poiché i paesi con salari più flessibili come gli Usa se la sono passata peggio».

Oggi l’America, che non ha affatto eliminato i problemi strutturali alla base della crisi (la disparità di reddito fra le famiglie semmai è ancora più rilevante), si sta avviando secondo molti analisti a vivere un lungo malessere «stile giapponese» (la lunga stagnazione che ha interessato il paese del Sol Levante dopo i ruggenti anni Ottanta). Ma, come ha precisato lo stesso Stiglitz, esistono soluzioni a questo destino apparentemente inesorabile: «Rafforzare il potere contrattuale collettivo, ristrutturare i mutui, utilizzare il bastone e la carota per far sì che le banche riprendano a erogare prestiti, ristrutturare le politiche fiscali e della spesa per stimolare l’economia tramite investimenti a lungo termine, mettere in atto politiche sociali che garantiscano opportunità per tutti». Lo ha detto perfino il presidente del Fondo Monetario Internazionale – un’istituzione che fino al passato più recente è stata in prima linea nella promozione di politiche di deregolamentazione e di compressione salariale – Dominique Strauss-Khan: «L’occupazione e l’eguaglianza sono le pietre angolari della stabilità economica e del benessere, della stabilità politica e della pace».

Su un punto ci sembra invece di scorgere un limite storico nella lezione di Giolitti, come in quella di altri grandi maestri sostanzialmente riconducibili al Socialismo liberale come Norberto Bobbio. L’insistenza sulla “mitezza” della strategia riformista, sulla gradualità, la concretezza e il senso di responsabilità che deve contraddistinguere l’iniziativa politica di una sinistra moderna risente molto di una ormai inattuale contrapposizione fra riformisti e rivoluzionari. Negli ultimi venti anni la sinistra europea di matrice socialista ha se mai commesso l’errore opposto: quello della subalternità culturale al proprio avversario, della rinuncia ad una lettura autonoma dei cambiamenti sociali in corso (secondo una sorta di «zelo conformistico», per riprendere l’espressione di Napolitano, applicato non più all’ortodossia marxista ma a quella neoliberista). La “virtù” della prudenza è stata coltivata con tanto impegno da apparire spesso troppo simile ad un “incolore amministrativismo”. Il risultato – nella crescente sofferenza sociale portata dalla “ristrutturazione economica globale” avviatasi dagli anni Novanta – è stato quello di lasciare intere praterie al populismo identitario e xenofobo.