Lampedusa, cronache dal dolore

Alberto Chiara
www.famigliacristiana.it

E’ rientrata da poco. A Lampedusa ha indagato la sofferenza di chi arriva su barconi di fortuna e quella di chi accoglie gli immigrati. Lo ha fatto con la competenza professionale che le deriva dall’essere psicoterapeuta unitamente all’umanità che l’ha spinta nel 2001 a fondare a Torino, insieme con suor Giuliana Galli, una religiosa del Cottolengo, un’Onlus chiamata Mamre, che opera nell’ambito della solidarietà sociale attraverso progetti, in Italia e all’estero, di aiuto per la promozione e la valorizzazione della persona umana.

Francesca Vallarino Gancia, dalla famiglia diventata sinonimo di spumante in tutto il mondo, ragiona di immigrazione, accoglienza e dolore la mattina di domenica 8 maggio, quando le prime edizioni dei Gr e i siti web dei quotidiani danno conto dell’ennesimo incidente avvenuto: un barcone con a bordo 500 migranti si è incagliato in prossimità del porto di Lampedusa e molte persone si sono gettate in mare; risulta che tutti si siano salvati a differenza, purtroppo, di quanto accaduto sabato 7 maggio al largo di Tripoli, con un’imbarcazione colata a picco, diversi morti accertati e molti dispersi.

«Sono stata sulla collina della vergogna, ho parlato con gli extracomunitari, li ho ascoltati», esordisce Francesca Vallarino Gancia. «Ero stata altre volte, ma adesso mi premeva capire il senso di invasione che provoca l’arrivo in massa di tanta gente. Ho dovuto vincere diffidenza e rabbia. Io, che non fumo, ho comprato tre stecche di sigarette per avviare il dialogo. “Ciao”. “Ciao, hai una sigaretta?” “Sì, ecco, prendi. Ti va che chiacchieriamo un po’?».

«Alla fine tutti coloro ai quali l’ho chiesto, si sono lasciati intervistare e molti si sono fatti anche fotografare», prosegue Francesca Vallarino Gancia. «Hanno raccontato di viaggi lunghi, estenuanti, costosi, pericolosi. Oltre alla comprensibile fatica fisica e al grande stress, hanno denunciato il disagio legato all’incertezza: “Quando ci sposteranno da qui?”, “Hanno detto oggi, ma lo dicono da quattro giorni”. Infine, lo scoraggiamento: diffuso, traversale ai gruppi etnici e ai Paesi di provenienza. “Se avessi saputo non sarei partito”. “Se potessi, tornerei indietro”. “Vorrei andare a casa”.

Sono rientrata confermata sul dovere che abbiamo di assicurare un’accoglienza in senso pieno: “Sotto le querce di Mamre, nell’ora più calda del giorno, Abramo accolse, confortò e ascoltò tre stranieri e li accompagnò per un tratto del loro cammino”, si legge nel capitolo 18 della Genesi, alla radice del mio, del nostro impegno con gli immigrati e con chiunque vive forme di marginalità. Non si tratta, dunque, soltanto di dare un piatto caldo e una bottiglia d’acqua, cose già, sia chiaro, già di per sé meritorie».

«Mentre ero giù, a Lampedusa, mi ha fatto piacere ed è stato utile parlare anche con alcuni abitanti dell’isola», prosegue Francesca Vallarino Gancia. «Ho conosciuto solo gente di buon cuore, disponibile, attenta. E conscia d’esser stati un tempo, noi italiani, come gli extracomunitari di oggi, ovvero dei migranti. Un signore già di una certa età me l’ha detto chiaro e tondo: “Sono marinaio, sono pescatore, tanti di qua hanno dovuto andarsene.

Io so cosa vuol dire finire in terre che non sono le tue, tra gente che non parla la tua lingua”. Una signora mi ha spiegato cosa significa provare un senso d’invasione: “Diamo loro l’aiuto di cui siamo capaci, ma sono arrivati in tanti, tutti insieme. Prima, noi giravamo tranquillamente per tutta l’isola, uscivamo la sera, non conoscevamo la paura. Ora è tutto diverso. La sera stiamo chiusi in casa, al primo rumore temiamo che qualcuno sia entrato in salotto o in camera”. Alterazione dell’umore e depressione erano patologie pressoché sconosciute a Lampedusa, ora c’è chi soffre a causa di questi mali».

Che fare, allora? «Madre Teresa di Calcutta diceva che quello che possiamo fare è una goccia, ma senza quella goccia non si ha un oceano», conclude Francesca Vallarino Gancia.«Ero contenta quando al termine delle lunghe chiacchierate, gli stranieri o gli italiani, non importa, erano più sereni, avevano un minor carico di rabbia, di inimicizia. Come Mamre continueremo a fare ciò che abbiamo sempre fatto: progetti personalizzati di aiuto. Che speriamo arrivino tutti a buon fine come quello che ha visto protagonista una giovane nigeriana che adesso, tornata a casa, in Africa, ha un lavoro, si sente realizzata, sorride».