Eucarestia, cuore della nostra esperienza ecclesiale

Cari amici e care amiche del “Chiccodisenape”,

è da qualche tempo che non facciamo avere nostre notizie eppure questo è stato un periodo fecondo di elaborazione, in vista di lavorare insieme alla crescita della riflessione e del confronto critico tra credenti.

In questo periodo non abbiamo mancato di chiederci se la nostra presenza e la nostra passione potessero essere ancora utili nella nostra diocesi e nella nostra città: sono passati quattro anni dalla nostra “nascita” in seguito alla confusione creata dalla proposta di legge sui Dico, diversi amici si sono uniti alle nostre riflessione, altri hanno scelto altre strade. Abbiamo vissuto due percorsi di condivisione lunghi e partecipati, che ci hanno portati ai convegni Vi ho chiamato amici (nel 2008) e Non sapete interpretare i segni dei tempi? (2010).

Quest’anno abbiamo proposto di tornare all’essenziale, di commentare, discutere, vivificare il tema dell’Eucarestia, cuore della nostra esperienza ecclesiale. Questa volta con la speranza che non saranno solamente le riflessioni teoriche ad arricchirci ma anche lo scambio sulle prassi pastorale e l’impegno per la creazione di una chiesa sempre più accogliente.

Sappiamo bene che sul lungo periodo iniziative di questo tipo, così poco strutturate e, forse, coinvolgenti, rischiano di sentire la fatica del tempo, eppure speriamo che ancora una volta il nostro percorso condiviso sia fecondo e vivificante.

Invitiamo così tutti quanti a partecipare all’incontro che si terrà il 24 maggio alle ore 21 presso il Centro Studi “Bruno Longo” in via Le chiuse 14 durante il quale potremo meditazione sul tema guidati da Oreste Aime e faremo il punto della situazione.In quella occasione sarà anche possibile ritirare (per chi aveva già dato il contributo lo scorso anno) o acquistare la copia degli atti del convegno 2010.

Sperando di vedere una vostra numerosa partecipazione,  vi salutiamo caramente,
Oreste Aime, Guido Allice, Luigi Bassis, Simona Borello, Nino Cavallo, Paolo Chicco, Claudio Ciancio, Giuseppe Elia, Giovanni Fiorio, Tommaso Giacobbe, Paola Giani, Antonio Gorgellino, Marco Mazzaglia, Giulio Modena, Ugo Perone, Enrico Peyretti, Lanfranco Peyretti, Domenico Raimondi, Toni Revelli, Maria Adele Roggero, Ugo Gianni Rosenberg, Stefano Sciuto, Poppi Simonis, Adriana Stancati Momo, Riccardo Torta
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Chi siamo

Il senso della nostra presenza.
Siamo un gruppo di credenti della diocesi di Torino. Ciò che ci accomuna è la passione per la Chiesa, il desiderio di creare le condizioni per una vera comunione che accetti le diversità e la franchezza dei rapporti interpersonali

Il nome.
Non è stato semplice cercare un nome per definire questo gruppo e questo percorso. L’idea è nata tra un gruppo eterogeneo di credenti: ci siamo riuniti per ragionare insieme in merito all’attuale situazione ecclesiale e alla difficoltà di un confronto aperto sulle questioni che, in modo sempre più impegnativo, interrogano la nostra coscienza di uomini e di cristiani. Difficile, così, trovare un nome che piacesse a tutti. Alla fine abbiamo scelto “chicco di senape”: il Vangelo di Luca (17,6) suggerisce che tanto basterebbe per far sì che un albero prenda dimora nel mare e il Vangelo di Marco (4,31) sceglie questa immagine per rappresentare addirittura il Regno di Dio. Chicco di senape, perché pensiamo che le strade siano da scoprire camminando con gli altri e perché speriamo che questo chicco ci permetta di avere il coraggio e la speranza. Ci anima lo spirito di partecipazione che vivificò il Concilio Vaticano II e il desiderio di proporre strade di confronto tra persone che possono avere idee diverse ma che hanno voglia di interrogarsi, tra fedeli laici e preti, tra credenti e non credenti.

Comitato. Abbiamo costituito un comitato di coordinamento la cui funzione è proprio quella di tenere i contatti fra i gruppi, proporre e far circolare idee, raccogliere indicazioni, critiche, proposte, risultati della riflessione, organizzare incontri, divulgare il progetto.


PROPOSTA  2011 –
È tempo dell’essenziale: il terzo passo del progetto

Abbiamo quindi pensato di riprendere la nostra ricerca con la stessa metodologia adottata sinora: – ogni gruppo può affrontare un qualsiasi aspetto del documento proposto, ma questo non significa che possa anche esprimere delle sue valutazioni su aspetti che non abbiamo qui adeguatamente considerato e che ritiene molto significativi; – ogni gruppo può scegliere le modalità che ritiene più opportune per svolgere il suo compito; – poiché lo scopo della nostra iniziativa è anzitutto quello di aprire spazi di dialogo e di confronto, deve esser favorita la massima libertà di espressione, purché all’interno del tema (o sottotema) scelto; – a ogni gruppo chiediamo di mettere per iscritto il frutto della sua discussione, sia in termini di idee condivise, sia evidenziando le diversità di opinioni; – il comitato di coordinamento provvederà a raccogliere i documenti pervenuti, al fine di avere un quadro complessivo delle questioni discusse, delle posizioni presenti nella comunità ecclesiale, della omogeneità / disomogeneità delle idee, delle proposte evidenziate; – i risultati di questa riflessione saranno oggetto di una serie di iniziative, destinate a rendere visibile il lavoro fatto e coinvolgendo la comunità ecclesiale, che pensiamo di realizzare nei primi mesi del 2012; – i componenti del comitato di coordinamento sono disponibili, se richiesti, a partecipare a gruppi per spiegare e il significato dl progetto che si intende attuare.Abbiamo previsto che questa ricerca si possa sviluppare su un tempo adeguatamente lungo, per consentire a tutti i gruppi (anche quelli che hanno ritmi di incontro più radi) di lavorare senza fretta.  Ricordiamo che sono disponibili in rete sul blog alcuni documenti che riteniamo interessanti per chi voglia approfondire i temi in discussione. Questa documentazione viene integrata nel tempo, ed è molto gradita la collaborazione di tutti coloro che vorranno inviarci articoli, documenti e riferimenti bibliografici. Chiediamo ad ogni gruppo che intende aderire al progetto di segnalarci la sua partecipazione. I rapporti saranno preferibilmente tenuti attraverso la posta elettronica.


Introduzione biblica

Dalla prima lettera di Paolo apostolo ai Corinzi (11, 23-11-23)

23 Io, infatti, ho ricevuto dal Signore quello che a mia volta vi ho trasmesso: il Signore Gesù, nella notte in cui veniva tradito, prese del pane 24e, dopo aver reso grazie, lo spezzò e disse: “Questo è il mio corpo, che è per voi; fate questo in memoria di me”. 25Allo stesso modo, dopo aver cenato, prese anche il calice, dicendo: “Questo calice è la nuova alleanza nel mio sangue; fate questo, ogni volta che ne bevete, in memoria di me”. 26Ogni volta infatti che mangiate questo pane e bevete al calice, voi annunciate la morte del Signore, finché egli venga. 27Perciò chiunque mangia il pane o beve al calice del Signore in modo indegno, sarà colpevole verso il corpo e il sangue del Signore. 28Ciascuno, dunque, esamini se stesso e poi mangi del pane e beva dal calice; 29perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. 30È per questo che tra voi ci sono molti ammalati e infermi, e un buon numero sono morti. 31Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; 32quando poi siamo giudicati dal Signore, siamo da lui ammoniti per non essere condannati insieme con il mondo. 33Perciò, fratelli miei, quando vi radunate per la cena, aspettatevi gli uni gli altri. 34E se qualcuno ha fame, mangi a casa, perché non vi raduniate a vostra condanna. Quanto alle altre cose, le sistemerò alla mia venuta.


La traccia tematica

La crisi della Chiesa richiede una riscoperta dell’Eucarestia

In una delle tracce di riflessione proposte ai gruppi del chiccodisenape due anni fa si sottolineava «l’importanza della liturgia come luogo in cui la Chiesa manifesta ed esercita il suo impegno di conversione, anzi la stessa opera di redenzione nel suo farsi un solo corpo in Cristo e con Cristo». E di fronte alle particolari difficoltà in cui si trova la Chiesa e al disagio che in essa vivono molti credenti, ci si chiedeva se «il punto di partenza non dovrà essere una riscoperta dell’eucarestia come fonte di una chiesa sinodale e comunitaria».

Riflettere sull’eucarestia è probabilmente un modo efficace non solo per ripensare la partecipazione responsabile dei laici in vista di una Chiesa più comunitaria, ma anche per affrontare i nodi essenziali della fede cristiana oggi. Fra questi nodi possiamo ricordare la difficoltà di trasmettere la fede e soprattutto la difficoltà di definire e riconoscere la specificità cristiana, difficoltà costante per il cristianesimo ma oggi aggravata dal contesto interreligioso. Si pensi ai tentativi di fare del cristianesimo una religione civile o una dottrina dei buoni costumi e dei buoni sentimenti, oppure di accostare il cristianesimo a forme di religiosità del benessere psico-fisico, o ancora di tentare tortuose conciliazione con il pensiero scientifico o più in generale di oscillare tra adattamento al mondo e tentativi di differenziarsi. Questa oscillazione finisce per lo più in un sostanziale adattamento accompagnato da alcune circoscritte prese di posizione etiche, i cosiddetti principi non negoziabili, molto nette nella forma ma riduttive nella sostanza: alla non negoziabilità dei principi corrisponde una grande acquiescenza rispetto alle gravissime ingiustizie del mondo che diventano questioni negoziabilissime. E infine fra i nodi problematici va ricordata la crisi dei segni sacramentali, con il loro svuotamento causato dalla separazione di segno, significato e realtà.

Non si può uscire dalla crisi se non attraverso una riscoperta eucaristica, perché l’Eucarestia è l’essenziale della fede: è l’incorporazione in Cristo, la partecipazione alla sua morte e resurrezione, nelle quali il nostro peccato è perdonato, è la realizzazione della comunione dei credenti, che in questo modo anticipano, testimoniano e attendono la venuta del Signore. E tuttavia come può l’esperienza e la realtà eucaristica rispondere alle difficoltà che abbiamo indicato, se essa stessa, come si è detto, partecipa, in quanto segno sacramentale e liturgia, delle medesime difficoltà? L’insignificanza dei segni comporta che anche il segno eucaristico spesso finisca per significare solo più se stesso o tutt’al più abbia un’efficacia limitata al singolo: l’Eucarestia è consumare l’ostia e trarre beneficio spirituale da questa consumazione. Ma il segno eucaristico fallisce se non rimanda all’incorporazione nella morte e resurrezione di Cristo e se attraverso questa incorporazione non si costituisce la comunione dei credenti che muore al peccato e attende la venuta di Cristo.

Per ripensare il segno e la realtà eucaristica conviene partire dalla I Corinzi, 11, 17-34, uno dei testi neotestamentari sull’Eucarestia più intensi, completi e anche impressionanti. Paolo deve infatti constatare che in una comunità di convertiti della prima ora, una piccola comunità cha ha avuto Paolo come apostolo, già lì l’Eucarestia non è più tale: il vostro non è più un mangiare la cena del Signore – dice Paolo – dunque non è un’Eucarestia, anzi è il contrario, perché chi mangia e beve senza riconoscere il corpo del Signore, mangia e beve la propria condanna. E’ stupefacente che sia così e inoltre che fra i Corinzi vi siano casi gravissimi di immoralità al punto che Paolo chiede di non mescolarsi ai responsabili e di non mangiare con essi (5, 9-13). Dunque non vi può essere Eucarestia e non vi può perciò essere Chiesa se non si realizza la conversione. Naturalmente la condanna di Paolo colpisce chi non si pente del suo peccato, ma persevera in una condotta antievangelica. La comunità cristiana è una comunità di peccatori convertiti e perdonati. Quali insegnamenti trarre per noi dalla I Corinzi?

L’Eucarestia è un pasto, ma non un pasto ordinario

L’istituzione dell’Eucarestia da parte di Gesù avviene all’interno di un pasto, ma come particolare momento di questo pasto. Ciò significa che è sbagliato tanto eliminarne il momento conviviale quanto ricondurla ad esso. Eliminare il primo aspetto significa occultare la portata antropologica e simbolica del pasto comune, sulla quale s’innesta il pasto eucaristico. Si capisce la difficoltà di organizzare in questo modo l’Eucarestia, ma è un fatto che oggi si perde buona parte dello spirito comunionale della convivialità, che va certo innalzato ma non eliminato (non si potrebbe ad es. far seguire alle nostre Eucarestie un momento conviviale?). La sacralizzazione dell’Eucarestia ne è stata anche un impoverimento. Dall’altra parte si rischia (come accade talvolta) di banalizzarla assimilandola troppo al convivio, che è come dimenticare che gli uomini possono entrare davvero in comunione non se sono socievoli e buoni, ma soltanto se muoiono al peccato (e cioè riconoscendolo e chiedendo perdono), se credono nella partecipazione alla grazia del Risorto e se attendono il Regno. Questa è la differenza rispetto a un normale convivio. Fra riduzione mondana e sacralizzazione dell’Eucarestia i Corinzi poi avevano scelto la modalità peggiore: quella di una discontinuità contraddittoria fra pasto comune e pasto eucaristico, una contraddizione molto illuminante: infatti poiché il pasto comune non è fraterno, l’Eucarestia perde il suo senso; ma il pasto non è più fraterno (non c’è più comunione), proprio perché si riceve l’Eucarestia indegnamente, “senza riconoscere il corpo del Signore”, dunque facendo un gesto rituale vuoto (e questo avveniva già in un mondo non secolarizzato). 

Morte, resurrezione e attesa

Abbiamo detto che l’Eucarestia è quella comunione dei credenti in Cristo fondata sulla partecipazione alla sua morte, partecipazione alla sua resurrezione, annuncio della sua venuta (dimensione escatologica dell’Eucarestia). Vediamo meglio questi tre aspetti. L’uomo è segnato dal peccato che è principio di divisione e opposizione reciproca. Senza sconfessare il proprio peccato un processo comunionale non può nemmeno iniziare: restiamo un insieme di individui sospettosi, invidiosi o attratti verso l’altro solo nella misura in cui vi siano motivi di interesse o di piacere. Ma vi è oggi un’insensibilità al peccato e per questo si guarda con sospetto alla dimensione sacrificale dell’Eucarestia, anche perché si rischia di non cogliere la trasformazione profonda che il sacrificio ha subito dalle sue forme più antiche, al messaggio profetico fino alla croce di Cristo, una trasformazione che può suggerire di abbandonare quel termine (vedo però il rischio di perdure il senso di questa trasformazione e di annacquare la serietà e la gravità di quell’attraversamento del male, fino alla morte, che la salvezza richiede). Il sacrificio eucaristico non è però una ripetizione di quello della croce, ma è partecipazione ad esso, attraverso il doloroso passaggio del riconoscimento del peccato e della purificazione: il sacrificio è, nella propria vita, morire al peccato, non è invece un atto volto a placare l’ira divina.In secondo luogo nell’Eucarestia si partecipa alla resurrezione: in Cristo siamo già risorti e come risorti siamo in comunione; come la resurrezione, così la comunione non è assolutamente una cosa naturale (non è appunto un prolungamento della convivialità e della benevolenza), ma un evento di grazia. E in terzo luogo ciò che potentemente contribuisce a instaurare la comunione è l’attesa del Signore. Sappiamo bene quanto la speranza comune sia capace di accomunare: l’individualismo odierno nasce anche dall’assenza di speranze comuni, le speranze sono diventate piccole e ristrette tutt’al più all’ambito individuale e famigliare. Solo la condivisa certezza del Regno ci rende fin d’ora partecipi di un’unica realtà e ci spinge ad anticiparlo realizzando per quanto è possibile una concreta comunione fraterna. Si capisce di qui quanto disastrosa per la fede e per la testimonianza cristiana sia la concezione individualistica della salvezza: se posso salvarmi da solo e se la salvezza riguarda me stesso, allora non c’è comunione e l’Eucarestia è vanificata. E inoltre se la salvezza riguarda i singoli e non il mondo, allora non possiamo che essere disinteressati alla sua trasformazione. Ma l’annuncio della venuta di Cristo, che è fede nell’evento finale della storia e non tanto nell’immortalità della propria anima, implica anche un quotidiano atteggiamento escatologico. Il mondo sta infatti sotto il giudizio di Dio e attende una radicale trasformazione; e poiché è questo mondo che deve essere trasformato, allora dobbiamo cogliere i segni di questa trasformazione e svilupparli; e poiché si tratta di una profonda trasformazione, bisogna vivere la provvisorietà della sua figura storica: «Questo vi dico, fratelli: il tempo ormai si è fatto breve; d’ora innanzi, quelli che hanno moglie, vivano come se non l’avessero; coloro che piangono, come se non piangessero e quelli che godono come se non godessero; quelli che comprano, come se non possedessero; quelli che usano del mondo, come se non ne usassero appieno: perché passa la scena [in greco schéma: forma, configurazione] di questo mondo!» (I Cor 7, 29-31).

L’Eucarestia come fondamento della Chiesa e come prova

La Chiesa è sempre stata attraversata dalla sua negazione. Vi sono sempre state, fin dall’istituzione dell’Eucarestia, le divisioni e le contro testimonianze. Esse sono più gravi delle esplicite negazioni della fede, perché la svuotano dall’interno: che la fede sia attaccata dai suoi nemici è ovvio, è ovvio che sia svilita dagli indifferenti, ma che sia smentita dai credenti è come una prova di inconsistenza. Paolo scrive una parola inquietante: «È necessario infatti che avvengano divisioni tra voi, perché si manifestino quelli che sono i veri credenti in mezzo a voi» (I Cor 11, 19). La fede non è soltanto una grazia ma è anche una prova: non è solo garanzia di salvezza ma anche possibilità di condanna. Per questo la Lettera agli Ebrei al cap. 10 usa parole tremende contro coloro che peccano dopo avere ricevuto la fede e conclude dicendo: «E’ terribile cadere nelle mani del Dio vivente!» (v. 31). Non credo che si debba riproporre una visione giudiziaria del rapporto con Dio, ma si deve pur sapere che esiste un discrimine, che si tratta di scelte decisive, che la fede non è un abito che si può mettere o dismettere indifferentemente, che ne va di qualcosa di essenziale. La lettera ai Corinzi dice la stessa cosa ma senza trascurare la misericordia. Dice cioè che se è solo un consumare l’ostia come atto decontestualizzato, o meglio inserito in un contesto che ne smentisce il significato, l’Eucarestia diventa una condanna, come sarebbe provato dal gran numero di ammalati e di morti fra i Corinzi, ma aggiunge subito come una correzione a questa conseguenza: «Se però ci esaminassimo attentamente da noi stessi, non saremmo giudicati; quando poi siamo giudicati dal Signore, veniamo ammoniti per non esser condannati insieme con questo mondo» (I Cor 11, 31-32). Fare l’Eucarestia in quel modo è una grave esperienza di peccato; se però lo riconosciamo, non siamo condannati e il giudizio del Signore è un giudizio per la nostra conversione.In altro modo qui l’esperienza del peccato viene nuovamente messa in relazione con l’Eucarestia. E però – dobbiamo chiederci – quale esperienza di peccato facciamo noi? Invece che di peccato per lo più si parla di errori o di stupidaggini (“ho fatto un casino!”, dice qualcuno dopo aver commesso un omicidio), e ciò vale anche per i credenti. Ma in questo modo non si percepisce più nemmeno il senso dell’Eucarestia. Un tempo si insisteva sulla necessità di accostarsi all’Eucarestia in grazia di Dio. In questo modo se ne sottolineavano l’importanza e la serietà, ma forse si finiva per cadere in due errori: da un lato si presumeva di poter valutare il proprio stato di grazia e dall’altro si finiva per mettere tra parentesi il fatto che l’Eucarestia stessa come partecipazione al sacrificio di Cristo è un morire al peccato. Oggi invece spesso ci si accosta ad essa con indifferenza senza prendere sul serio questa immersione nel sacrificio di Cristo. E ciò precisamente perché non si sa più che cos’è il peccato. Ma chi non fa l’esperienza del peccato non fa nemmeno l’esperienza della grazia. Talvolta sarebbe forse opportuna una certa astinenza eucaristica, non perché ci si debba accostare ad essa solo quando si è in grazia di Dio, ma per ritrovarne il senso e la grandezza.

E infine occorre soffermarsi su quel versetto in cui Paolo dice ai Corinzi che le loro celebrazioni eucaristiche gettano disprezzo sulla Chiesa e fanno vergognare i poveri. Il mondo ci può riconoscere come discepoli di Cristo solo se siamo una realtà eucaristica, altrimenti ha ragione di disprezzarci, come Luca dice di colui che vuole costruire una torre e non calcola prima se ha le risorse per farlo: «Per evitare che, se getta le fondamenta e non può finire il lavoro, tutti coloro che vedono comincino a deriderlo» (14, 29). La nostra torre è la comunione eucaristica. Lo sanno bene coloro che da fuori ci guardano e non possono che deriderci e non prenderci sul serio, come persone che hanno puntato troppo in alto e sono in molti casi peggiori degli altri. Anche questo è un tema terribile, come lo è l’altro tema di quel versetto. Io ricco che mi accosto alla mensa eucaristica con tutta la mia ricchezza (non solo di cibo e di vino, come certi fedeli di Corinto), anzi persino inebriato da essa, insuperbito, io faccio vergognare il povero della sua povertà. Se infatti io, ripieno della mia ricchezza, partecipo all’Eucarestia, se questa partecipazione diventa per il povero occasione per trovare conferma alla sua povertà, allora il povero avrà un nuovo motivo di vergognarsene. E non credo che si tratti di adottare misure ipocrite di buona educazione, come sembrerebbe risultare dal versetto in cui Paolo dice: «Non avete forse le vostre case per mangiare e bere?» (I Cor 11, 22). Direi piuttosto che qui Paolo suggerisce ai ricchi di starsene a casa a mangiare e a bere invece che venire a gettare fango sull’Eucarestia. Non è un’Eucarestia quella in cui il povero viene confermato ed anzi umiliato nella sua povertà. L’Eucarestia si rivela come un dono grande e difficile che coinvolge tutte le nostre relazioni con Dio, con i fratelli nella fede e con gli altri uomini.