La primavera araba e i soliti dannati

don Filippo Di Giacomo
l’Unità, 12 maggio 2011

Morire per Damasco? Quando le strade arabe, prima a Tunisi, poi al Cairo, Sanaa, Tripoli, Rabat e nella capitali di altri Paesi sono andate in fiamme, i media occidentali sono entrati in fibrillazione. Quella che per settimane ci è stata raccontata, sembrava essere la prima rivoluzione dell’era digitale. Facebook, Twitter ed altri spazi della socialità virtuale venivano presentati come avanguardie di un capovolgimento storico, capace di ripulire la sponda Sud del Mediterraneo dai sedimenti che decenni di panarabismo deviato vi avevano deposto. Un evento che il web, in barba ai rais di vario genere, miracolosamente rendeva globalizzato e compatto.

Era dicembre 2010, e in quei giorni, tante storie narravano di personaggi e di iniziative che, da un pc portatile alle piazze, accreditavano la “spontaneità” democratica delle rivoluzioni tunisine ed egiziane. Ma allora, come mai dopo le grandi manifestazioni popolari la diplomazia europea e quella americana hanno circondato di tanta discrezione i loro rapporti con Tunisi ed il Cairo? Le recenti “rivelazioni” di WikiLeaks sembrano accreditare l’idea di un movimento a lungo preparato nelle cancellerie occidentali che nella “democratizzazione” dei Paesi arabi vedono l’estremo rimedio per sbarrare la strada alla politicizzazione dell’islam e la riedizione di un “panarabismo conforme”, ufficialmente creato dallo spontaneismo delle masse arabe ma ufficialmente ispirato e controllato dai poteri occidentali.

I dispacci trafugati da WikiLeaks fanno comprendere anche come “il modello Turchia”, inizialmente ritenuto dai diplomatici del dipartimento di stato Usa come possibile modello di “democrazia religiosa “ esportabile nel resto del mondo islamico, viene presto abbandonato. Infatti, ogni tentativo di introdurlo in Iran si è bloccato davanti alla ferrea resistenza del regime dei mullah. Anche in Afghanistan, non è percepito come condivisibile dall’insieme delle tribù che si spartiscono il controllo territoriale del paese. E la resistenza dei talebani si riverbera, mettendola in pericolo, anche sulla fragilissima democrazia pachistana.

Le carte di Assange datano 2003, quindi durante la presidenza Bush, l’epoca in cui la democratizzazione dell’area arabo-musulmana diventò una priorità dell’amministrazione americana. Ed è nella stessa epoca che venne scelta l’opzione “spontaneista”, un cambiamento che non stridesse con le molteplici sensibilità del nazionalismo arabo, punto debole di ogni Paese dell’area. WikiLeaks rivela un telegramma redatto dall’ambasciata americana del Cairo datato fine dicembre 2008.

Nella primavera di quell’anno, un gruppo di giovani egiziani su Facebook lanciava il «movimento 6 aprile» a sostegno di un’agitazione sindacale degli operai occupati nell’industria tessile del basso Nilo, e per i giornali arabi il potenziale politico del gruppo di giovani, ed il loro metodo d’azione, è stato colto ed incoraggiato, soprattutto dall’amministrazione Obama. Nel frattempo, è apparso con chiarezza che le rivoluzioni via Facebooks non hanno leader, e dunque i loro successi rischiano di essere espropriati da forze organizzate, come l’esercito o gli apparati islamici.

Quello che sui nostri media non si ha il coraggio di raccontare è che in Tunisia e in Egitto, Unione Europea e Stati Uniti stanno appoggiando una “transizione democratica” tutta controllata dalle forze armate dei due Paesi. E non si sa se la pressione delle manifestazioni di piazza riuscirà ancora, e per quanto, a far sì che, con il “nuovo ordine” all’ombra dei fucili, le grida di libertà dal Nord Africa non siano state lanciate invano.

Oltretutto, navigando nei blog arabi, anche un osservatore occidentale si pone la domanda che rimbalza con frequenza in rete: perché mai i regimi di Ben Ali, Mubarak, Gheddafi, Assad sarebbero stati più immorali dell’eterna espropriazione di libertà e dignità che le dinastie saudite e alawita ancora infliggono ai popoli dell’Arabia e del Marocco? E se Gheddafi che è berbero e non arabo (anzi considerava gli arabi «incolori e insapori» e questo spiegherebbe perché la Lega Araba sia corsa così in fretta in aiuto agli insorti) suo malgrado, si stesse rivelando un ostacolo alla realizzazione di un piano che prescinde dalla sua persona e dalla sua nazione mettendo in crisi il progetto di una «rivoluzione araba popolare e spontanea»?

Nel 1952, sulla rivista dei gesuiti francesi Esprit, Frantz Fanon pubblicava un articolo: «La sindrome nord-africana». Per l’autore di Dannati della terra e di Pelle nera, maschera bianca gli abitanti del Maghreb già allora vivevano come «uomini che muoiono quotidianamente». Visto che, grazie anche alla nostra politica, questa ancora oggi è la loro condizione, quando naufragano sulle nostre coste, non facciamo finta di non vederli.