Obama, il Nordafrica e il Medioriente

Stefano Rizzo
Paneacqua, 20 maggio

Il discorso di ieri di Barack Obama ai diplomatici americani riuniti al Dipartimento di Stato ha rappresentato un importante punto di svolta nella politica degli Stati Uniti in Medioriente, ma ha anche posto le basi per un conflitto di cui non si vedono al momento gli sbocchi con lo stato di Israele e con il suo primo ministro Benjamin Netaniyahu in visita oggi a Washington

E’ stato, quello di Obama, un discorso a lungo meditato e, considerato che lo ha pronunciato con oltre mezz’ora sull’ora prevista, al quale deve avere dedicato la sua attenzione fino all’ultimo momento. Le ragioni sono molteplici. A distanza di due anni dal famoso discorso del Cairo in cui aveva annunciato l’inizio di una “nuova fase di dialogo e di rispetto” nei rapporti tra Stati Uniti e mondo arabo, si trattava di trarre le conclusioni dagli eventi che negli ultimi mesi hanno scosso il Nordafrica e il Medioriente e rispetto ai quali gli Stati Uniti hanno assunto una posizione incerta e altalenante.

Per settimane la Casa bianca è rimasta a guardare i movimenti di protesta che esplodevano in Tunisia e in Egitto, fino a quando, di fronte all’incapacità dei dittatori locali di venire incontro alle richieste popolari di cambiamento, l’amministrazione americana – sembra per decisione soprattutto dello stesso presidente – ha deciso di venire allo scoperto e di appoggiare la rivoluzione egiziana spingendo il già alleato e cliente Mubarack alle dimissioni.

Ma contemporaneamente, nel mentre che Tunisia e Egitto sembravano avviarsi verso nuovi assetti più stabili e più accettabili per le rispettive popolazioni (non certo ancora democratici nel senso proprio della parola), altri analoghi movimenti scoppiavano in varie parti del Nordafrica e del Medioriente: in Libia, Yemen, Bahrein, Siria. Se nei confronti della ribellione libica e della feroce repressione del dittatore Gheddafi gli Stati Uniti si sono presto schierati a favore della risoluzione delle Nazioni Unite e hanno fin da subito deciso per un intervento militare, nei confronti degli altri paesi della regione la reazione è stata molto più cauta e contraddittoria.

Obama l’ha ammesso francamente nel suo discorso di ieri: se da un lato ha affermato il diritto di ogni popolo della regione di rivendicare un minimo di giustizia e di democrazia, dando credito all’eroismo dei combattenti per la libertà di Tunisia e Egitto, dall’altro ha riconosciuto che gli Stati Uniti non possono e non vogliono intervenire in ogni contesto, né tanto meno mettersi a capo dei movimenti di protesta. Ha sì istruito i suoi diplomatici a favorirli in ogni modo possibile, ma ha condito queste affermazioni con una buona dose di Realpolitik.

Perché è un dato di fatto che, per quanto autoritari e violenti, regimi come lo Yemen sono fondamentali alleati nella lotta contro il terrorismo, che l’Arabia saudita (mai menzionata nel discorso di Obama) è cruciale come fornitore di risorse energetiche, mentre la Siria, che pure è un avversario storico degli Stati Uniti, è un elemento di stabilizzazione per tutta l’area mediorientale; il Bahrein infine è sede della flotta americana nel Golfo persico e essenziale nel non risolto conflitto con l’Iran.

Obama ha così ammesso che gli interessi a breve termine del suo paese possono entrare in conflitto con i valori propugnati e che quindi l’azione americana ha un limite che risiede sia nella sua non infinita potenza (una apprezzabile ammissione di umiltà), sia nella difesa degli interessi nazionali. Nondimeno ha usato parole forti nel denunciare la repressione violenta in questi paesi, particolarmente nei confronti della Siria, invitando il presidente Bashar al Assad a far una di due possibile cose: “o ad andarsene o a venire incontro alle richieste della sua popolazione”.

E’ sul capitolo Israele- Palestina che Obama ha pronunciato le parole più nette e sulle quali c’era stato più dibattito all’interno della sua amministrazione, con il segretario Hillary Clinton che chiedeva una condanna decisa dei comportamenti di Israele e il consigliere per la sicurezza nazionale che raccomandava un corso più prudente. Obama era ben consapevole che lo stallo dei negoziati tra palestinesi e israeliani costituisce il punto di debolezza maggiore di tutta la regione e che, rispetto a poche settimane fa la situazione si è ulteriormente aggravata.

L’accordo tra al Fatah e Hamas potrebbe spingere i palestinesi su posizioni più intransigenti. La caduta rovinosa del regime siriano potrebbe indebolire le frontiere nordorientali di Israele e spingere il suo governo su posizioni di ulteriore chiusura verso il mondo arabo. La perdita di influenza della Siria su Hezbollah in Libano potrebbe aumentarne la dipendenza dall’Iran e aprire un altro fronte di conflitto a nord. Su tutto pesa la minaccia dell’Autorità nazionale palestinese di chiedere formalmente alle Nazioni Unite a settembre il riconoscimento della Palestina come stato, irrigidendo ulteriormente Israele. Si tratta di una serie di mosse e di condizioni che prese nel loro insieme giocano contro la ripresa del processo di pace.

La novità del discorso di Obama è stata una affermazione mai prima fatta da un presidente americano: le trattative dovranno riprendere sulla base dei confini precedenti al 1967, cioè alla guerra che dette ad Israele il controllo sui territori occupati e provocò ulteriori milioni di profughi palestinesi. Ma il problema fatto è che la situazione sul campo da allora si è molto modificata. Nei territori Israele ha costituito nel corso dei decenni centinaia di insediamenti, cacciandone gli abitanti e di fatto rendendo impossibile la creazione di uno stato palestinese dotato di una minima continuità territoriale.

Obama ha precisato che i confini pre-1967 dovranno essere la base, soltanto il punto di partenza delle trattative, aggiungendo che dovranno esservi compensazioni e scambi di territori per gli insediamenti che gli israeliani ritenessero essenziale conservare. Ma Benjamin Netaniyahu, ancor prima di arrivare negli Stati Uniti, ha dichiarato che quella di Obama è una proposta “indifendibile” e che non l’accetterà mai. Su queste premesse i colloqui che si aprono oggi a Washington si preannunciano molto difficili e votati ad un quasi sicuro fallimento.