Cdb San Paolo – Eucarestia del 22 maggio: riflessioni

Eucarestia del 22 maggio 2011 – Cdb San Paolo, Roma
Riflessioni a cura del Gruppo Marconi

Negli Atti vediamo il sorgere di un problema pratico: gli ellenistài, cioè i greci convertiti, si lamentano perché nella diakonìa di ogni giorno le loro vedove vengono trascurate rispetto a quelle di lingua ebraica. Gli Apostoli capiscono il problema ed invitano i discepoli a scegliere sette persone piene di spirito e saggezza per questo ufficio, in quanto loro sono occupati con la preghiera e il servizio della parola. La scelta viene fatta secondo criteri di trasparenza perché le persone che vengono scelte sono tutti greci, come risulta dai nomi; ad essi vengono imposte le mani pregando e questo doveva valere come una ufficiale investitura. Altrove in Atti l’imposizione delle mani è accompagnata dall’invocazione dello Spirito.

C’è, quindi, una contrapposizione tra la diakonìa delle mense e la diakonìa della parola. Le esigenze sono due, l’aiuto nei problemi quotidiani e la diffusione della parola, entrambi importanti, ma forse gli Apostoli ritengono sprecato un loro impegno nei primi, visto che sono stati a diretto contatto col Cristo e sono i più indicati a diffonderne l’annuncio. D’altra parte subito dopo, Stefano, uno dei sette, farà prodigi e miracoli e dopo un’accorata professione di fede nel sinedrio sarà il primo ad andare incontro al martirio.

In tempi moderni nel dopo Concilio è sorto il movimento dei diaconi permanenti: persone sposate con 2-3 anni di corsi di teologia alle spalle, che affiancavano i sacerdoti nella gestione della comunione, nella visita agli infermi; sempre un passo sotto i presbiteri, a loro volta soggetti all’episcopato. Ha avuto una diffusione limitata.

C’è comunque il problema che i diaconi sono tutti maschi. E questo può aver costituito un alibi per chi all’interno della Chiesa ha cercato di eliminare le donne dai posti di responsabilità. Un esempio in sé piccolo ma proprio per questo non insignificante è una correzione che Ratzinger ha voluto nell’ultima traduzione della Bibbia; nella chiusa della lettera ai Romani (16, 1) Paolo affida loro “la nostra sorella Febe, che è diàkonos della ecclesìa in Cencre”. Quel diàkonos è diventato “a servizio della chiesa in Cencre” forse perché il titolo faceva troppa paura; mentre anche Plinio il Giovane, quando nel 110 d.C. fa il governatore in oriente, in Bitinia, svolge delle indagini su una comunità cristiana che ha al proprio interno due ancelle, quae ministrae dicebantur, traduzione latina appunto del greco diàkonos; le sottopone a tortura ma non ottiene nessuna confessione di misfatti.

Oggi varie voci nella Chiesa si alzano per la donna prete (Morris, un vescovo australiano, il vescovo di San Gallo, città della Svizzera, Markus Büchel, nell’aprile 2011) ma la posizione della comunità è per un superamento del sacerdozio.

In Giovanni, un Vangelo tardo, abbiamo la tematizzazione della divinità di Cristo. “Chi ha visto me, ha visto il Padre”, “io sono nel Padre e il Padre è in me”; parole senza ambiguità, molto decise, che appare arduo Gesù abbia potuto dire e sembrano una riflessione a posteriori della chiesa antica per risolvere il problema della consapevolezza di Gesù sul proprio essere dio. Le metafore che usa Gesù sono particolarmente significative: “Io sono la via, la verità, la vita”, al cap. 15 dirà “io sono la vite vera”, al cap. 10 “io sono la porta”, “io sono il buon pastore”.

Sembrerebbe che qui compaia una concezione assolutista della salvezza. A ben guardare, invece, risulta che la fonte della salvazione è Gesù, vale a dire l’adesione al suo messaggio, fornito con la sua vita; che non vuol dire l’adesione ad una chiesa, men che meno ad una serie di dogmi, al di fuori dei quali non v’è salvezza.
Interessante appare il suggerimento di Maggi per la comprensione dell’affermazione di Gesù: “Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore”.

Se confrontata col versetto 23: “Se qualcuno mi ama, conserverà il mio discorso, e il Padre lo amerà, e verremo a lui e stabiliremo dimora presso di lui”, l’espressione non significa che in Paradiso Gesù creerà un posto per i suoi in Paradiso, ma che abiterà col padre nel cuore di chi crede. Essi saranno la verità, come lo è Cristo. La verità non è qualcosa che si possiede ma qualcosa che si costruisce agendo. In Giovanni 18, 37 di fronte a Pilato dirà “per questo sono venuto nel mondo, per rendere testimonianza alla verità. Chiunque è dalla verità ascolta la mia voce” e Pilato “Che cos’è la verità?” Ai Giudei (cap. 8, 31): “Se rimarrete nel mio discorso, sarete miei discepoli e conoscerete la verità, e la verità vi renderà liberi”.

Le parole finali del brano di Giovanni, poi, smitizzano l’unicità di Cristo, il quale indica la possibilità che altri possa fare le stesse sue azioni, o anche maggiori. Il discorso si sposta, quindi, tutto sulle opere, i passi avanti nella costruzione del Regno di Dio.    Arrigoni ha fatto come Gesù?