Istat: l’Italia é povera

Rosa Ana De Santis
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A dire che l’Italia è il fanalino d’Europa non sono le solite agenzie di rating, fallaci quanto interessate, ma l’Istituto centrale di statistica, che nella presentazione dei dati riguardanti il biennio 2008-2009, ha spiegato meglio di qualunque discorso il danno che la destra sta recando al sistema Italia. A cadere sotto i colpi dell’incompetenza del governo sono i due perni sui quali il sistema italiano si reggeva: risparmio e welfare.

A forza di picconare politicamente e legislativamente il lavoro e lo stato sociale, l’Italia è diventata la parente povera d’Europa. E se la riserva storica del nostro paese è sempre stata la relazione di solidarietà interfamiliare, con le generazioni che si venivano reciprocamente in aiuto, a formare una sorta di ammortizzatore sociale permanente, l’analisi dei numeri proposti dall’Istat evidenzia come ormai anche questo filo stia spezzandosi, causa un sovraccarico che non più in grado di sopportare.

I numeri dell’ISTAT raccontano soprattutto, dietro alla crisi dei numeri e delle statistiche, il modo in cui il sistema Italia ha affrontato la crisi economica. L’Italia del risparmio e delle case di proprietà ha protetto le nuove generazioni da un impoverimento che avrebbe avuto nell’immediato un impatto ben più violento di quello che ha effettivamente avuto. Ma tutto questo non basta più.

I numeri della politica economica di questo governo sono ben rappresentati da questi dati: la crescita italiana è in media dello 0,2, contro l’1,3 della media Ue. La produzione industriale è diminuita del 19% rispetto al 2007 e il tasso di disoccupazione reale è attorno al 15%. Il livello di ricchezza del paese è tornato indietro di dieci anni, la mortalità scolastica è al 18% (la media europea è al 14). Ottocentomila sono le donne che, a causa della loro gravidanza, hanno perduto il lavoro e 2 milioni e centomila giovani sono senza lavoro e senza nessuna prospettiva di trovarlo, dal momento che non accedono a nessuna possibile formazione. Ben 15 milioni di italiani (circa il 25% della popolazione) sono a rischio esclusione sociale e 7,5 milioni di individui sono a rischio di povertà cronica; di questi, 1,7 milioni sono già in condizione di grave deprivazione.

Un italiano su quattro, insomma, rischia di lasciare l’universo della cittadinanza per entrare nell’inferno dei senza diritti. E siccome anche nella crisi c’è chi la paga più degli altri, si registra che nelle regioni del Sud il 57% delle persone vive a rischio di povertà: nel biennio 2008-2009 più della metà delle persone che hanno perso il lavoro (532.000 di cui 501.000 giovani sotto i 29 anni) erano residenti al sud, dove l’occupazione si è ridotta di 280.000 unità. E, più poveri tra i poveri, i lavoratori extracomunitari, dove pure assunti regolarmente, segnano una retribuzione inferiore del 24% rispetto a quelli degli italiani.

Le famiglie italiane, un tempo al primo posto in Europa per quota di risparmio, hanno ormai eroso le risorse accumulate. Lo scorso anno la propensione al ribasso è stata del 9,1, il valore più basso dal 1990. Cresce ogni anno il numero delle famiglie che non sono in grado di pagare le utenze domestiche (11,1), che non riescono ad affrontare spese impreviste di 800 euro (33,4), che non possono permettersi di pagare un riscaldamento adeguato per le case nelle quali abitano (11,5), che non possono permettersi nemmeno una settimana di ferie all’anno (39,7) e neanche un pasto adeguato ogni due giorni (6,9).

Sono cifre, queste, che raccontano il declino di un paese che resta tra i primi dieci del mondo per Pil, ma che vede accumularsi la sua ricchezza in fasce sempre più ristrette di famiglie a scanso di una povertà crescente che investe ormai, come si vede, almeno il 30% della popolazione, con una tendenza sempre crescente nella divaricazione della forbice sociale.

E l’assoluta mancanza di qualunque politica si sostegno allo sviluppo segnerà pesantemente anche il prossimo periodo. Finiti i risparmi, se nessuno avrà pensato alla crescita, il lavoro seguirà il trend dell’assoluta precarietà e di una produzione delocalizzata, ovvero low cost, non prima di aver reso superflua ogni traccia di diritto del lavoro, e si abbatterà una nuova emergenza non più solo sui giovani, ma anche sugli over 50. Una disoccupazione senza welfare che si tradurrà in nuova, cronica povertà. Solo che questa volta non avremo nemmeno più la casa di proprietà. E Termini Imerese non sarà un caso, così come non sarà più solo Marchionne il nuovo fenomeno dell’imprenditoria italiana.

Quello che manca è un disegno sul futuro, manovre per uscire dalla depressione che è rimasta dopo la crisi del biennio appena passato, una politica per la crescita che persino per ammissione di Tremonti non è buona. Ovviamente il Ministro non ci sta all’analisi del rapporto ISTAT e continua a parlare di un paese ricco, il cui bilancio ha tenuto (anche se omette di spiegare il come). Non dice il ministro che la ricchezza di alcuni è speculare all’impoverimento di tanti altri (ceto medio in modo particolare) e che la media del benessere non dice sulla distribuzione dello stesso, con l’aggravante, tutta moderna, per cui chi esce dal circuito virtuoso della società non ha più alcuna mobilità in ingresso. Si è mobili per la disoccupazione, ma non per tornare ad essere occupati. La storia delle industrie storiche del paese lo conferma.

Tremonti sostiene che i numeri vanno interpretati e questo è vero: prima ancora che interpretati, però, vanno letti oggettivamente e quello che raccontano, in fondo, sono la rappresentazione di uno scenario che tutto il paese conosce.

Ad aggravare ulteriormente il quadro, è arrivata la relazione della magistratura contabile dello Stato. La Corte dei Conti, infatti, sull’onda dei numeri ISTAT, annuncia altri anni di rigore (intervento del 3% l’anno per rientrare del debito, come imposto dall’Europa) che renderanno impossibile qualunque riduzione della pressione fiscale. Una manovra da 46 miliardi ci attende all’orizzonte e l’ironia del Ministro Tremonti ci invita ad affrontarla con un approccio a metà tra la “sopravvivenza” e il “tiriamo a campare”. Per la crescita c’è tempo dice il governo, dimenticandosi di Confindustria, e ricordando alla chetichella di non poter ridurre la pressione fiscale. O meglio di non poterla ridurre a tutti, perché rimane al posto di sempre la vergogna dell’evasione, alfa e omega di tutta l’iniquità del sistema economico italiano per il quale questo, come altri governi, non hanno saputo e voluto fare granché.

Il Paese, sfugge ai buontemponi di Palazzo Chigi, è già impoverito. E’ l’esodo dei nostri cervelli a dirlo, è l’abbandono scolastico in crescita a confermarlo. Ed è proprio l’inerzia dei nostri amministratori davanti a tutto questo a dirci che i numeri dell’ISTAT suscitano un legittimo allarme per tutto quello che non ci dicono di domani, più che per quello che raccontano di oggi.