La visione errata della Chiesa è il vero problema

Enzo Mazzi, Cdb Isolotto – Firenze
La Nazione, 5 giugno

Don Cantini fu prete dell’intransigenza. Molti danni da riparare in quella stagione

Nella cronaca della la diocesi fiorentina, credo che un evento importante, per la lunga attesa da cui era stato preceduto e per la gravità del conto in sospeso, è stata la visita dell’arcivescovo di Firenze, mons. Giuseppe Betori, nel novembre scorso, alla parrocchia della Regina della Pace devastata dalla dolorosa esperienza di don Cantini. C’è stato poi il ‘Dies Academicus’ della Facoltà Teologica dell’Italia centrale, il 30 novembre, dedicato alla memoria del cardinale Ermenegildo Florit, e il giorno dopo la presentazione del libro “La preghiera spezzata – I cattolici fiorentini nella seconda metà del ’900” di Marcello Mancini, vicedirettore de “La Nazione”, e Giovanni Pallanti.

Vorrei ritornare su alcuni aspetti, toccati in parte da Michele Brancale che ha scritto su questo giornale la cronaca del ‘Dies Academicus’ come anche dal volume curato da Mancini e Pallanti. “La figura del cardinale Florit a Firenze – ha detto l’arcivescovo Giuseppe Betori commemorando il prelato nella Facoltà teologia – rischia di essere rinchiusa in una cornice ristretta che è quella della vicenda dell’Isolotto. Florit è molto più di questo, sia come pastore della Diocesi di Firenze che per il suo ruolo nella Chiesa universale”.

Questa affermazione, sulla quale sono pienamente d’accordo, vale anche per l’Isolotto. Lo dice Michele Ranchetti, uno dei maggiori storici della chiesa e delle religioni, docente universitario a Firenze dal 1973 al 1998: “(occorre) liberare la storia dell’Isolotto dalla prospettiva, in cui viene per solito chiusa, di una conflittualità particolare, quasi caratteriale, privata, presente sì ma come elemento ‘perenne’ della dialettica propria della storia della chiesa …

L’esperienza dell’Isolotto non si misura sui contrasti. la curia fiorentina ha reagito ad essa, ma sarebbe credo limitativo ricondurre il senso dell’Isolotto a quello di una controversia, anche se una lacerazione vi è stata, gravissima ed estremamente dolorosa. Pertanto non è necessario un giudizio sulle ragioni delle parti. Piuttosto è necessario un confronto fra l’esperienza dell’Isolotto e le vicende di quella Chiesa fiorentina che rischia di divenire un parametro nella storiografia, come di un modello di vita e di vitalità religiosa quasi indipendentemente dalle occasioni particolari e dalle figure della sua esistenza storica” (Comunità dell’Isolotto, Oltre in Confini, LEF, 1995 – prefazione).

E’ fondamentale e dovrebbe essere cogente per tutti questo invito dello storico al confronto fra le varie figure personali o le esperienze particolari e la vita della città e in essa della Chiesa all’interno di processi storici complessi.
In questo senso, la recente visita di mons. Giuseppe Betori alla chiesa della Regina della pace ha un significato che va oltre quella parrocchia e investe la vita della diocesi e interessa la città intera. L’arcivescovo nella sua omelia definendo come “visione errata della Chiesa” quella di don Cantini ha adombrato il confronto raccomandato da Ranchetti. Non è andato oltre. Mentre, a mio avviso, era proprio questo, cioè la “visione errata della Chiesa”, il tema da sviluppare.

Don Cantini ha commesso pesanti reati di pedofilia, ma la cosa più grave è il silenzio della Curia che ha coperto le sue aberrazioni per quarant’anni. Faceva comodo ai vertici della diocesi il suo modo autoritario di essere prete, la quantità di giovani che riusciva a mandare in seminario per farsi preti e l’impostazione pastorale rigidamente tradizionalista. Betori riconosce la sofferenza della parrocchia e il suo “lungo inverno”.

Avremmo voluto lo stesso riconoscimento per la sofferenza e il “lungo inverno” subito dalla diocesi intera e dalla stessa società civile a causa del tradizionalismo di cui don Cantini era uno dei più fanatici araldi, ma che trovava sostenitori in un’area non piccola della diocesi e nella stessa gerarchia. Ma il problema vero non è nemmeno il tradizionalismo in sé, quanto piuttosto l’autoritarismo, il delirio di onnipotenza, l’intransigenza esclusivista che di norma si accompagnano allo stesso tradizionalismo o forse lo generano. E’ questo il nocciolo di quella “visione errata della chiesa” che ha devastato la diocesi fiorentina e oso dire la chiesa intera negli ultimi decenni del post-Concilio.

E’ storia ormai acquisita lo scontro che si è verificato all’interno dell’assise dei vescovi riuniti da papa Giovanni in San Pietro. Il potente card. Ottaviani, prefetto del Sant’Uffizio, insieme a mons. Marcel Lefebvre avevano organizzato una vera e propria “compagine tradizionalista”, che si dette anche un nome: “Coetus Internationalis Patrum”, composta da 250 prelati fra cui l’arcivescovo di Firenze Ermenegildo Florit, il cui obiettivo conclamato era quello di trasformare il Concilio in un evento di semplice colore senza reali aperture, anzi con la conferma delle intransigenze disciplinari, delle rigidezze dogmatiche e di tutte le condanne. La loro potenza era tale che avrebbero potuto veramente portare il Concilio al fallimento. Glielo impedì papa Giovanni con un intervento diretto nel Concilio stesso che ridette spazio al confronto con le istanze innovatrici.

Lo scontro verificatosi in Concilio si ripropose nella vita della Chiesa a livello mondiale e nella stessa diocesi fiorentina. Un esempio. Dal novembre 1967 al gennaio 1968 fu indetto un Corso di aggiornamento biblico per il clero durante il quale furono duramente contestate e sostanzialmente zittite d’autorità le posizioni innovatrici. Il 18 gennaio 1968, don Bruno Borghi prete operaio, don Luigi Rosadoni della Nave a Rovezzano, don Fabio Masi del Vingone, don Enzo Mazzi sostenuto da don Paolo Caciolli dell’Isolotto e da don Sergio Gomiti della Casella, scrivono una lettera “al nostro Vescovo e ai nostri fratelli sacerdoti”, che terminava con queste parole:

“A questo punto noi domandiamo al card. Arcivescovo e agli altri sacerdoti se reputano che nella comunità diocesana ci sia pieno diritto di cittadinanza per questa parte della Chiesa giudicata inquieta e scomoda… vi chiediamo solo se pur mantenendo verso di noi il vostro giudizio, pensate che ci sia per noi, così come siamo, pieno diritto di cittadinanza nella comunità diocesana; se c’è posto per la nostra ubbidienza giudicata disubbidienza; se c’è posto per la nostra pastorale giudicata eversiva; se c’è posto per la nostra visione teologica giudicata contestativa; se c’è posto per la moltitudine di uomini, dei quali cerchiamo di essere portavoce; se c’è posto per il nostro amore per la Chiesa, giudicato risentimento e rivendicazione”.

Da una decina di parroci fiorentini tradizionalisti con in testa don Cantini fu indirizzata a Florit una controlettera di ben altro tenore. Vi si poneva al vescovo una alternativa netta: “O loro o noi: se non mette fuori loro, andiamo fuori noi”. Ecco il nodo di cui parlavo sopra: l’intransigenza esclusivista incapace di convivere con istanze diverse. Sappiamo come è andata a finire: la Curia fiorentina ha scelto l’intransigenza di don Cantini e confratelli tradizionalisti ed ha colpito e cacciato gli oppositori.

E’ stata così svuotata l’anima creativa della diocesi e della città ed è iniziato il “lungo inverno” di cui si rammarica mons. Betori. Ma basta, come egli ha detto nell’omelia alla Regina della pace, “una parola di vicinanza da parte della chiesa a quanti hanno sofferto a causa di quel lungo inverno, riconoscendo con dolore i peccati compiuti e guardando con fiducia alla forza del Signore”, o ci vuole una vera conversione che recuperi lo spirito del Concilio e insieme compia una riparazione concreta in primo luogo dei danni subiti dalle persone, minori e loro famiglie, a causa degli abusi di don Cantini, e contemporaneamente una riparazione per quanti nella Chiesa fiorentina sono stati colpiti dall’intransigenza?

Firenze 5 giugmo 2011