iCloud, felici e espropriati

Carlo Formenti
www.micromega.net

Con il lancio del servizio iCloud, Apple si è allineata alla strategia che altre grandi corporation, come Google e Amazon, avevano inaugurato da tempo: convincere i propri utenti a rinunciare al possesso e al controllo dei contenuti da loro stessi creati o acquistati (musica, video, testi, foto e quant’altro) per archiviarlo nelle “nuvole” dei rispettivi fornitori di servizi.

Dietro questo termine etereo e vagamente poetico si nasconde qualcosa di assai più terreno: le cosiddette nuvole non sono altro che edifici (o farm come vengono a volte definiti) in cui vengono stipati centinaia o addirittura migliaia di server deputati a immagazzinare i dati dei clienti, né più e né meno di come affidiamo i nostri quattrini o altri oggetti di valore alle banche, le quali li custodiscono sui conti correnti o nelle cassette di sicurezza.

In quest’ultimo caso, come abbiamo imparato a nostre spese in questi tempi di crisi, i nostri averi non sono affatto “al sicuro”, visto che le banche li usano, come si è visto, per operazioni speculative sempre più azzardate. Perché continuiamo malgrado tutto a fidarci delle banche?

La risposta è banale: perché non abbiamo alternative; in una società capitalistica dove tutti i segni di valore si sono smaterializzarti – “liquefatti” per dirla con Bauman, o “virtualizzati” per dirla con i guru della New Economy – nessuno, salvo qualche vecchio con le rotelle fuori posto, tiene più i soldi nel materasso.

Ma la “fiducia” nelle banche è frutto di un processo di evoluzione economico e culturale durato qualche secolo e in cui le costrizioni del potere politico nei confronti dei cittadini hanno svolto un ruolo tutt’altro che marginale. Ebbene, quello che sta succedendo con il cosiddetto cloud computing è l’inizio di un processo molto simile.

Ciò che ci viene presentato come una evoluzione “naturale” della tecnica, un salto di qualità della rete, inevitabilmente destinata a trasformarsi da canale di connessione fra computer in dispensatrice di software e servizi, nonché contenitore di dati, è in realtà il primo passo di un progetto politico di riconcentrazione delle risorse culturali ed economiche nelle mani di un pugno di corporation.

Come ci hanno spiegato Richard Stallman e Nicholas Carr, dopo un periodo in cui la rivoluzione del personal computer aveva restituito ai produttori/consumatori il controllo sui propri contenuti (autoprodotti o acquistati), qualcuno ha deciso che la ricreazione è finita, si torna alla logica del monopolio (sia pure aggiornata all’era digitale).

Come tutte le controrivoluzioni degli ultimi anni, la cruda realtà dell’esproprio capitalistico ai danni dei prosumer viene infiocchettata come facilitazione della vita, miglioramento del servizio, aumento della sicurezza (“volete mettere come vi proteggiamo noi dalle incursioni degli hacker: non vorrete mica fare da soli?!”).

Ma date retta: prima che chi vuole continuare a custodire i suoi dati sul proprio disco rigido venga irriso come i vecchietti che tengono i soldi nel materasso, è il caso di ragionarci sopra e organizzare la controffensiva.