La guerra infinita in Libia

Michele Paris
www.altrtenotizie.org

La dodicesima settimana dell’aggressione militare NATO contro la Libia è iniziata con una serie d’incursioni aeree tra le più intense finora registrate. Un’escalation, quella messa in atto da Stati Uniti, Francia, Gran Bretagna e dai loro alleati, avvenuta in contemporanea con un meeting dei membri del Patto Atlantico a Bruxelles per aumentare le pressioni su Gheddafi e favorire un cambiamento di regime.

Nel corso del summit dei paesi aggressori, il Segretario alla Difesa americano uscente, Robert Gates, assieme ai suoi colleghi di Parigi e Londra, ha sollecitato alcuni governi ad aumentare il loro impegno bellico. Destinatari delle richieste americane sono stati quei paesi che hanno finora dimostrato le maggiori perplessità circa le operazioni contro la Libia, vale a dire Germania, Turchia, Spagna, Polonia e Olanda.

Il tentativo di coinvolgere nell’intervento altri governi è stato fatto per alleviare il peso, soprattutto economico, degli attacchi, finora a carico di una manciata di paesi. Nonostante le cifre ufficiali parlino di oltre dieci mila incursioni effettuate sulla Libia dalla fine di marzo, l’obiettivo della NATO di piegare la resistenza delle forze fedeli a Gheddafi e spianare la strada per i ribelli di stanza a Bengasi è, infatti, ancora lontano dall’essere raggiunto.

Come tutta l’operazione, anche la retorica di Gates tesa ad allargare la coalizione si basa su una falsa preoccupazione “umanitaria”. Il numero uno del Pentagono ha così insistito perché paesi come Germania o Turchia facciano di più per implementare la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza dell’ONU che autorizza l’uso della forza per proteggere la popolazione civile. Un appello singolare quello di Gates, dal momento che fin dal giorno successivo al voto dell’ONU, la NATO ha calpestato quella stessa risoluzione, schierandosi a fianco di una delle due parti coinvolte nel conflitto, senza alcuno riguardo per i civili residenti nelle località controllate da Gheddafi.

Pur senza nuovi contributi, le forze attuali della NATO hanno comunque portato a termine intensi bombardamenti negli ultimi giorni. Nella sola giornata di martedì, come ha testimoniato un inviato del New York Times a Tripoli, sono state ben 157 le incursioni aeree nella capitale libica, tre volte di più rispetto alla precedente media giornaliera. A differenza di quanto fatto finora, i bombardamenti sono poi avvenuti in pieno giorno, rivelando sia l’intenzione di terrorizzare la popolazione sia l’abbandono definitivo dei rimanenti scrupoli per eventuali vittime civili.

Con le difese aeree libiche pressoché completamente annientate, le bombe occidentali, secondo alcune fonti, avrebbero causato solo tra martedì e mercoledì più di trenta morti, distrutto svariati edifici governativi e danneggiato pesantemente abitazioni, scuole e ospedali. Con la consueta giustificazione che gli obiettivi colpiti sarebbero “centri di comando” da cui partono gli ordini del regime per colpire i civili, le forze NATO hanno praticamente raso al suolo il complesso residenziale di Gheddafi Bab al-Aziziya, ma anche l’accampamento nel deserto a sud di Tripoli dove il rais era solito accogliere i propri ospiti stranieri all’interno di lussuose tende.

Questi ultimi bersagli, assieme a varie dichiarazioni dei leader politici e militari alleati, evidenziano come l’assassinio mirato di Gheddafi – del tutto illegale – sia ormai un obiettivo principale delle operazioni NATO. La sua rimozione con mezzi meno estremi era d’altra parte apparsa da subito complicata alla luce dell’inadeguatezza delle forze del governo di transizione sostenuto dall’Occidente. Allo stesso modo, il tentativo di fomentare una rivolta contro Gheddafi all’interno del regime non ha ancora prodotto risultati concreti.

Il cambio di marcia nei bombardamenti è stato segnato inoltre dai recenti annunci da parte di Francia e Gran Bretagna dell’impiego di elicotteri d’attacco che, volando a quote più basse, sono in grado di colpire con maggiore precisione ed efficacia, pur essendo esposti più facilmente al fuoco nemico. Gli Apache britannici e i Tiger francesi hanno iniziato le loro incursioni sabato scorso e, come ha fatto notare alla stampa il vice-premier russo Sergei Ivanov, il loro utilizzo rappresenta “l’ultimo passo che precede un’operazione di terra”.

Il giorno successivo al meeting di Bruxelles, si è riunito poi per la terza volta il cosiddetto “Gruppo di contatto” per discutere del dopo Gheddafi, quando alla guida del paese nord-africano dovrebbe esserci un governo fantoccio formato dai leader dei ribelli di Bengasi. Ad Abu Dhabi, oltre alla promessa di stanziare un miliardo di dollari a beneficio di un “Consiglio Nazionale di Transizione” alla ricerca disperata di fondi, si è parlato in sostanza dei progetti di spartizione delle ricchezze energetiche della Libia nel prossimo futuro.

Oltre a gas e petrolio, all’Occidente fanno gola però anche i miliardi di dollari del fondo sovrano libico depositati dalla famiglia Gheddafi all’estero e che vari paesi hanno da tempo provveduto a congelare. L’intraprendenza finanziaria del rais e della sua cerchia aveva d’altra parte attirato come avvoltoi banche e governi occidentali quando ancora il regime di Tripoli veniva considerato un affidabile partner d’affari.

I rapporti tra le istituzioni finanziarie occidentali e Gheddafi, com’è noto, erano ben consolidati e, alla vigilia delle rivolte nel mondo arabo, poco o nulla ci si curava dei diritti umani della popolazione libica. Le transazioni finanziarie avvenivano ai più alti livelli dei vertici bancari, facendo ricorso quando necessario a pratiche illegali, verosimilmente con il più o meno tacito consenso dei governi.

Tra gli esempi emersi più recentemente, come ha rivelato l’altro giorno il Wall Street Journal, ci sarebbe ad esempio un’indagine aperta negli USA dalla SEC (Securities and Exchange Commission, l’agenzia federale che vigila sul mercato azionario americano) e che riguarda alcune importanti banche d’investimenti.

Secondo gli ispettori statunitensi il gigante Goldman Sachs avrebbe violato una legge sulla corruzione progettando di versare 50 milioni di dollari all’Autorità per gli Investimenti della Libia, incaricata di gestire un fondo sovrano di oltre 40 miliardi di dollari e controllata appunto dalla famiglia Gheddafi. Il pagamento – alla fine bloccato dalla rivolta esplosa nel paese – avrebbe dovuto rientrare in un piano per recuperare le pesanti perdite subite dal fondo libico su un investimento di 1,3 miliardi di dollari gestito da Goldman Sachs.

A intrattenere proficui rapporti con il fondo di Tripoli, secondo le carte delle indagini in corso, sarebbero state però anche altre banche di primo piano nel panorama finanziario internazionale, tra cui almeno Société Générale, HSBC, Carlyle Group, Bear Sterns e la ormai defunta Lehman Brothers.