Ogni rifugiato è un cittadino

Rosa Ana De Santis
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Sì è celebrata il 20 giugno la Giornata Mondiale per i rifugiati politici. Sessanta anni fa nasceva l’Alto Commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) e poco dopo la Convenzione in merito alla quale tutt’ora l’agenzia interviene per soccorrere coloro che abbandonano i propri paesi per motivi di discriminazione politica, religiosa, etnica o razziale.

La ricorrenza ritorna con un carico simbolico molto forte. Nell’anno della guerra in Libia, degli esodi dal Nord Africa, dei barconi inabissatisi sotto le onde appena qualche giorno fa e soprattutto nel coro di un governo assediato sulle posizioni dei rimpatri e sull’isteria di un esodo da collasso che, numeri alla mano, non c’è stato. Un’improvvida rincorsa alla banalizzazione di questa categoria politica, piuttosto alla sua negazione prima teorica e poi pratica è il modo in cui la maggioranza che guida il Paese ha affrontato questa giornata di riflessione e di memoria.

Ma non basta. Alla propaganda populista sulla difesa accorata dei confini è seguito l’accordo con il Comitato nazionale di Transizione libico per i rimpatri forzati verso le zone di guerra e la detenzione nei centri di accoglienza prolungata fino a 18 mesi, alla stregua di una pena per un reato. Tutto questo per poco meno di 19mila persone scappate dalla Libia dall’inizio della guerra e arrivate sulle nostre coste, a differenza della Tunisia che ne ha accolte quasi 300mila.

E’ dal 2009 inoltre che l’Italia ha visto una drastica diminuzione delle domande d’asilo, preferendo respingimenti indiscriminati prima di qualsiasi valutazione delle richieste d’asilo, come la fuga di tanti disperati da paesi in guerra avrebbe dovuto suggerire.

A questo clima politico va aggiunta una solita modalità estemporanea e priva di sistematicità con cui l’Italia ha gestito queste procedure, delle quali non abbiamo neppure, a differenza degli altri paesi europei, stime e numeri precisi.

La questione italiana rimane in certa misura irrisolta proprio perché è la stesso programma di Stoccolma, approvato dal Consiglio Europeo nel 2009, che si limita a proclamare che “il rafforzamento dei controlli alle frontiere non dovrà impedire l’accesso ai sistemi di protezione a chi ha diritto di beneficiarne”, senza dirci nulla sul come.

Il dato certo è che la politica dei rimpatri e l’impedimento delle partenze ab origine non ha affatto sradicato l’immigrazione clandestina, ma piuttosto ha inciso negativamente, riducendolo di molto, il diritto ad essere accolti come rifugiati.

Solo il 10% delle domande viene accolto al termine di lungaggini burocratiche incomprensibili, di errori e lacune procedurali, di mezzi e persone insufficienti senza alcuna assistenza o supporto per le persone richiedenti.

Dovrebbe essere proprio questa eccezionale condizione di cittadinanza, quella dei rifugiati politici, a darci il segno tangibile di una nazionalità transnazionale. Il sogno del più classico cosmpolitismo settecentesco, l’utopia della città globale, il diritto come categoria di giustizia, senza particolarismi di sorta. Ed è proprio questa idea a soccombere sotto il peso di ogni rinuncia aprioristica all’accoglienza e alla gestione seria di chi arriva sui barconi. Quelli che la cronaca dipinge come invasori e conquistatori e che la storia ricorderà solo come i più disperati.

Sarà allora forse che l’esame della nostra democrazia avrà i suoi voti peggiori, quelli che ora suonano come un rimbrotto accademico dell’Europa o dell’UNHCR alle uscite del Ministro Frattini e che un giorno saranno invece una vergogna.

L’odiato fantasma della clandestinità perpetua è proprio figlio del limbo giuridico in cui queste persone sono costrette a vivere in attesa di un’audizione che può arrivare anche 24 mesi dopo, per assicurare un rimpatrio all’ennesimo straniero di troppo.

Uno di quelli che senza identità giuridica, intrappolati nel non riconoscimento silenzioso, diventano “la schiuma della terra”. Scriveva così Anna Harendt per parlare di questi fantasmi che venivano privati di quei diritti di umanità intrinsechi alla condizione stessa di cittadinanza, diventando un po’ meno umani.

Perché è proprio questo a renderci uomini e donne, insieme alla nostra stessa natura. E’ la presenza o l’assenza di patria a darci un luogo, ed è la cittadinanza universale a darcene uno solo davanti a tutti che si chiama dignità. Quel riconoscimento in mezzo agli altri che ci salva dalla solitudine dell’anonimato. Quello che ne ha rovesciati tanti nel mare senza sepoltura, né un nome, di notte. O quello che li ha lasciati nelle dune del deserto, scheletriti dal sole.

Tutti costoro che erano cittadini, e come decaduti dallo stato di umanità, per naturale e necessaria condizione naturale, sono morti in viaggio per non esserlo stati più.