Un libro che fa chiarezza

Recensione di Marcello Vigli
da www.italialaica.it

Sergio Luzzatto, IL CROCIFISSO DI STATO, Giulio Einaudi editore, 2011

Dopo le due contraddittorie sentenze della Corte di Strasburgo sulla presenza del crocefisso nelle scuole, la questione è stata rilanciata nel dibattito culturale e politico. In poco più di cento brevi pagine Sergio Luzzatto, nel suo Il crocifisso di Stato, ripercorre le tappe del suo emergere e svilupparsi in Itala e ne analizza gli elementi più significativi e giunge, sgombrando il campo dalle argomentazioni devianti, ad enucleare il nocciolo del problema: il concetto di laicità.

Ricorda innanzi tutto la benemerita iniziativa di Marcello Montagnana che, scrutatore in un seggio elettorale a Cuneo nel 1994 si dimise perché il Presidente non aveva voluto accogliere la sua richiesta di eliminare il crocifisso che, come in tutte le aule scolastiche, era restato appeso alla parete.

Nei processi, a cui fu sottoposto per quell’abbandono, sostenne che il crocifisso era diventato un simbolo discriminante da quando la religione cattolica, dopo gli Accordi di Palazzo Madama del 1984 fra Santa Sede e Repubblica italiana, non è più religione di Stato. Dopo successive condanne fu assolto nel 2000 dalla Corte di Cassazione che accogliendo queste sue argomentazioni concluse che il crocifisso non aveva più titolo per essere appeso alle pareti dei pubblici uffici.

Proprio a questa sentenza si sono appellati i coniugi di Abano Terme per rivolgersi alla Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo, dopo che il dirigente della scuola frequentata dal loro figlio si era rifiutato di togliere il crocifisso dall’aula.

Nel far memoria di questa battaglia ideale condotta, insieme a sua moglie che già nel 1988 sollevando il problema nella sua scuola, da Montagnana docente, ebreo e comunista, che da bambino era stato costretto ad emigrare in Australia con i suoi genitori al tempo delle leggi razziali, le cui richieste d’intervento erano state ignorate da Giorgio Napolitano, ministro degli Interni all’epoca dei fatti, e che infine era stato dileggiato come don Chisciotte da Marco Travaglio su la Repubblica di Torino, l’autore la colloca in una prospettiva più ampia.

Chiarisce tempi e motivi della progressiva assunzione del crocifisso, volutamente trascurato dalle prime comunità cristiane, come oggetto di culto nell’ambito della liturgia cattolica: e diventato poi simbolo di quei “nobili guerrieri” che, con la croce sulle armature scatenarono guerre e distruzioni per liberare il sepolcro di Gesù, ma, soprattutto, posero le premesse dell’antigiudaismo che si è progressivamente trasformato in antisemitismo fino alle leggi razziali.

Fra gli altri episodi del lungo percorso dell’affermarsi del crocifisso nella religiosità cattolica evidenzia che tornò di prepotenza nelle aule delle scuole italiane subito dopo la marcia su Roma:

delle elementari, nel 1923, di quelle di ogni ordine grado, nel 1924, e dei tribunali due anni dopo. Per imporlo ministri e gerarchi fascisti si richiamarono all’ormai inapplicata legge Casati del 1859, che lo aveva imposto a fianco del ritratto del re, per significare l’avvicinamento del neonato regime alla Chiesa e l’arruolamento delle sue gerarchie al suo fianco. Analogo oggi, scrive l’autore, l’intento chiaramente profano degli atei devoti che difendono strumentalmente la presenza del crocifisso nelle aule scolastiche anche dopo che dalle loro pareti sono scomparsi i ritratti del re e del duce.

Di questi riferimenti, che evidenziano l’intreccio fra interessi politici e motivi religiosi nelle vicende che accompagnano l’uso pubblico del crocifisso, l’autore si serve per raggiungere lo scopo del suo libro: Un libro scritto contro la leggerezza, contro l’ignoranza, contro l’ipocrisia di chi vuole il crocifisso alle pareti dei nostri edifici statali sulla base di argomenti inconsistenti.

Sono gli argomenti del bigottismo dei cattolici e le incongruenze dei laici che difendono il crocifisso di Stato.

Dei cattolici difensori dell’obbligatorietà della presenza scrive che non ci deve meravigliare dato che essi appartengono ad una chiesa che venera la Sindone ed esalta padre Pio, dopo che alcuni papi lo avevano sconfessato. Ai laicisti, fra i quali nomina Cacciari, Ferrara, Pera, ed altri atei devoti presentandoli come epigoni di Mussolini e Malaparte nell’attribuire al crocifisso il valore di simbolo dell’umanità sofferente e non tanto di una particolare religione, rimprovera di ignorare il significato politico, derivante dal contesto che ne svela la strumentalizzazione, e di rovesciare la tradizione risorgimentale segnata dall’utopia di Cavour.

Questo significato era stato, invece, ben chiaro a quei cattolici, come Milani e Gozzini, che in nome di una religione vera consideravano profano il crocifisso secolarizzato, laicizzato sottaciuto nel suo messaggio specifico intorno alla salvezza. Questa loro denuncia fa giustizia definitivamente di quella estrema linea di difesa della presenza del crocefisso nelle scuole fondata sulla “necessità di salvaguardare e valorizzare il tradizionale patrimonio identitario e di valori espresso, in particolare nei paesi europei e nel nostro paese, dalla millenaria presenza cristiana e cattolica”.

Sono parole del Presidente dal Repubblica ma hanno ispirato anche la tesi del ricorso presentato dal governo italiano alla Corte di Strasburgo contro la sua prima sentenza, che riconosceva il carattere discriminatorio della presenza del crocefisso nelle scuole pubbliche e che essa ha sostanzialmente accolta nel riconoscere la competenza dei diversi Stati a regolarsi sulla questione secondo le loro tradizioni nazionali

A questo rovesciamento ha contribuito anche la diversa composizione della Corte che l’ha emessa in una sessione nella quale a sostegno del governo italiano erano intervenuti delegati di otto governi di Stati confessionali non cattolici, rappresentati dal giurista, ebreo osservante, Joseph Weiler. Lo Stato, sostiene Weiler, deve essere garante del pluralismo evitando che esso, per non favorire l’espressione delle religioni, avvantaggi di fatto i non credenti.

L’eliminazione del crocifisso, infatti, crea un muro denudato… uno spazio dove il non credente ha vinto sul credente. Il crocifisso, che Weiler non considera ipocritamente simbolo neutrale, ha diritto a restare sul muro perché espressione di quella religione cristiana, che in Italia è maggioritaria. Dall’analisi di queste argomentazioni, esibite come più valide dal suo essere non cattolico, Luzzatto rileva che la sua battaglia in difesa della neutralità degli Stati, è in verità una lotta ma contro la laicità ispirata di fatto ad una versione aggiornata del principio cuius regio, eius religio.

Attraverso questa contestazione egli giunge ad affrontare il cuore del problema costituito dal rapporto con l’eredità dell’illuminismo e il nuovo modo con cui Joseph Ratzinger si è posto nei suoi confronti. Il papa muove dalla denuncia di Horckheimer e Adorno della ragione settecentesca come utilitaristica, mercificata e disumanizzata per inaugurare una nuova alleanza fra fede e ragione attraverso una cristianizzazione dell’Illuminismo sulla quale fondare una idea di laicità in nome della quale sconfiggere quei laicisti “ideologici” che escludono Dio dalla storia e di conseguenza il crocifisso dagli edifici pubblici.

Questa esclusione di Dio e della religione dalla vita sociale mina, secondo lui, le basi stesse della convivenza umana e rappresenta la vera linea di faglia del mondo attuale che divide i credenti dai non credenti e tale frattura investe direttamente il problema della separazione fra Chiese e Stati.

Per dimostrare l’infondatezza di questo assunto l’autore argomenta sia nominando cattolici che hanno ben altra concezione della laicità, sia affermando che in Italia la pratica della laicità non esclude affatto la presenza della religione nella vita collettiva, sia, infine, citando recenti studi condotti da autorevoli sociologi e demografi che smentiscono la convinzione che senza Dio tutto sia perduto.

Proprio da una rielaborazione del principio di laicità l’autore individua la via per uscire da quell’ignoranza e da quell’ipocrisia che intende combattere, a partire dall’assunto inequivocabile che le identità collettive sono calate nella storia: identità e tradizione nascono e si trasformano, sono realtà evolutive sono costrutti umani prodotti ad ogni latitudine e longitudine, dall’inesauribile fucina dell’umanità.

Su questa fondamentale intuizione della “storicità” dell’animale uomo si può, in verità, fondare la nuova cultura della laicità. Libera da limiti ideologici che la vogliono indissolubilmente legata alla “non credenza”, diventa così la dimensione nella quale le ideologie e le religioni, le utopie e le fedi si incontrano e si confrontano in un continuo processo di contaminazione.