Il grano e la zizzania

don Alessandro Santoro
Adista n. 48/2011

Commento al Vangelo di Matteo cap. 13, 24-43

In questa parte del Vangelo Matteo mette in bocca a Gesù tre parabole che partono dalla vita semplice della gente, per arrivare a “spingere” il popolo di allora, e tutti noi oggi, a non rimanere imprigionati dentro le strettoie del legalismo farisaico sterile ed ottuso ma a cercare “il Regno di Dio e la sua giustizia”.

“Aprire la bocca in parabole” per proclamare e raccontare le cose nascoste “fin dalla fondazione del mondo” è un regalo a quella gente abituata a sottomettersi e a subire la “verità” della legge e mai coinvolta e fatta partecipe della costruzione del Regno.

La parabola della zizzania e del grano è solo Matteo a trasmetterla e fa da cornice a tutto il testo: all’inizio il racconto e solo alla fine la spiegazione ripetendo così l’espediente letterario che Matteo aveva utilizzato per la parabola del seminatore.

Queste tre parabole messe insieme dal redattore finale sembrano invitare a riflettere sui pericoli e le “tentazioni” che ci sono nel “fare comunità”, nel “costruire il Regno”.

Il primo e più evidente di questi pericoli che emerge dal racconto della zizzania è quello di sentirsi e diventare una comunità di “eletti e puri”. La zizzania e il grano, ci dice il Vangelo, crescono insieme, non può essere altrimenti.

Gesù sembra dire alla religione del tempo e a tutti noi oggi che, nella storia e dentro la storia, questa convivenza è inevitabile e addirittura nessuno riesce ad accorgersi della presenza del “grano velenoso” e dell’intreccio delle sue radici con quelle del grano buono.

La presenza della zizzania non dipende da Dio ma dal nemico, e i “figli del maligno” sono dentro e fuori di noi, crescono ed esistono all’interno delle nostre comunità e all’esterno, nessuno ne è esente ed immune e tutti dobbiamo farci i conti.

Il messianismo nazionalistico del tempo immagina il Messia come il giudice che immediatamente separa i buoni dai cattivi; Gesù prende le distanze da questo messianismo e invita a pensare e vivere questo tempo come un tempo altro, dove le comunità non diventano luoghi separati di buoni e santi e puri, ma spazi di condivisione, dove essere testimoni di un tempo di misericordia, di liberazione, di conversione profonda.

Perché se così non fosse non potremmo fare altro che rischiare di creare una religione e un cristianesimo superbo ed altezzoso, fatto di uomini e cristiani presuntuosi nella verità ed incapaci di coltivare la speranza e l’accoglienza.

Ecco allora il senso della seconda parabola dove si paragona il Regno di Dio ad un granellino di senape, che nel crescere diventa “infestante” fino ad entrare in tutti gli interstizi della storia: questo devono essere e diventare i nostri cammini di comunità, una presenza costante che non si fa grande e potente ma che si diffonde dovunque e si fa forte nel suo essere piccola e quasi impercettibile.

Bisogna invece imparare ad essere un po’ lievito che fermenta tutta la pasta delle nostre storie di relazione e di vita… Piccoli come il granello di senape, nascosti come il lievito nella massa di farina, ma capaci di stare dentro la storia con la forza inerme e debole dell’amore che si fa dono, che si “perde”, che si mette in gioco.

Allora avverrà che tutto si fermenterà e le nostre comunità, spesso affaticate, chiuse e stanche torneranno capaci di generare vita.

Facciamo in modo che il Figlio dell’uomo, quando manderà i suoi angeli, non incontri, nelle nostre comunità, troppi “operatori di iniquità”, troppi apparenti bravi cristiani che, pur annunciando il Vangelo, non si lasciano trasformare, costruttori del nulla fanno finta di ascoltare, si permettono di annunciare, ma non praticano e non testimoniano il Regno.

La sensazione è che troppe volte chi si sente cristiano rischi di diventare così. Allora facciamo nostro il “grido” del Vangelo di oggi: “Chi ha orecchi ascolti”. Ripartiamo e ricominciamo da lì!