Egitto, la promessa tradita

Christian Elia
www.peacereporter.net

”Nessuno può sapere come andrà a finire…però indietro non torniamo. Ormai questa piazza è la porta del futuro…l’abbiamo attraversata, abbiamo fatto il passo più difficile. Abbiamo varcato la soglia una volta, la più dura…siamo pronti a tornare ogni volta che sarà necessario. Sappiamo come si fa!”. Asmaa non aveva dubbi. Era l’11 febbraio, Mubarak era stato appena defenestrato. Lei, studentessa di architettura, festeggiava abbracciata a Rasha, contadina di 60 anni.

Classi sociali differenti, storie differenti. Ma condividevano una gioia incontenibile. Da giorni erano accampate, come milioni di persone, in piazza Tahrir, al Cairo. Lo sguardo del cronista era rapito da un mosaico che sembrava tratteggiato a uso e consumo dell’occhio dei media. Militari che festeggiavano con il popolo, cittadini di tutte le età e le estrazioni sociali, musulmani e cristiani, laici e religiosi. Tutti uniti. Sono passati poco meno di cinque mesi e Piazza Tahrir, di nuovo, bolle di rabbia.

Almeno duemila persone sono arrivate, seguendo il tam tam dei social network, com’è accaduto mesi fa, per il ‘venerdì della punizione e dei martiri’. Appuntamento, ovvio, in piazza Tahrir, dopo la preghiera del venerdì. A capo dell’organizzazione la coalizione dei Giovani della Rivoluzione e dal movimento 6 aprile. Sembra di portare indietro le lancette dell’orologio. Non è il primo problema che la giunta militare subentrata a Mubarak (c’erano già tutti prima) affronta, guidata dal generale Tantawi, ma gli scontri violenti tra manifestanti e forze dell’ordine di martedì notte hanno lasciato il segno.

Le forze dell’ordine hanno reagito con violenza alla richiesta, semplice, di ottenere giustizia. I dimostranti chiedono che vengano processati velocemente i responsabili della violenta repressione che nella rivoluzione di gennaio e febbraio ha provocato la morte di oltre 830 manifestanti.

Le cose sembrano uguali, ma c’è una differenza chiave: il fronte dei manifestanti ha perso unità. Mubarak, icona del dispotismo prima ancora che anello di un sistema, è caduto. E’ innegabile che l’odio per lui e la sua cricca e i suoi metodi di governo unissero quello che, in una dinamica ‘normale’, unito non è. Ecco che, oggi, mancano i movimenti islamisti dei Fratelli Musulmani e dei salafiti. Che hanno un’agenda differente, al punto da trattare con gli Usa, che li hanno sempre guardati come il fumo negli occhi.

Washington ha passato anni a sostenere una tesi semplice, quanto efficace: Mubarak non è il capo di Stato perfetto, ma senza di lui la deriva islamica è certa. Peccato che Washington mentisse, sapendo di mentire. I Fratelli Musulmani sono un’organizzazione politico-sociale molto complessa, ma non hanno nulla a che spartire con i salafiti, quelli veri e quelli oltranzisti. Ora che l’Egitto è cambiato, bisogna parlare con i Fratelli, facendo finta che non sia successo nulla.

Il popolo resta vigile, ma diviso. La magistratura ha dato segnali non incoraggianti per i manifestanti: un tribunale di Alessandria ha rinviato fino a dopo l’estate l’attesa sentenza nel processo sulla morte di Khaled Said, il giovane blogger pestato a morte l’anno scorso dalla polizia e che è diventato un simbolo della rivolta. La magistratura egiziana ha deciso, inoltre, il rinvio di un mese del processo intentato da undici avvocati delle famiglie dei ‘martiri’, che hanno chiesto la ricusazione del presidente del tribunale, che deve giudicare l’allora ministro dell’Interno Habib el Adly per avere incitato a usare la violenza sui manifestanti.

La giunta militare tenta di limitare i danni e ha annunciato la creazione di un fondo speciale per il sostegno delle persone rimaste ferite durante la rivoluzione, circa 9 mila, e delle loro famiglie. Potrebbe non bastare a riportare la calma. Come diceva Asmaa, a febbraio, ormai i ragazzi di piazza Tahrir sanno come si fa.