Immigrati/ Polveriera Sud

Redazione
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Un’indagine sul rischio Rosarno boccia il piano sicurezza del ministero dell’Interno, attuato dal 2008. Non ha migliorato le condizioni di vita e ha acuito il rischio banlieu. Lo afferma una ricerca Ires – Cgil dal titolo “Immigrazione, sfruttamento e conflitto sociale. Una mappatura delle aree a rischio e quattro studi di caso territoriali”, che ha individuato le province più a rischio di conflitti sociali fra migranti e italiani delle comunità locali e in cui la combinazione di sfruttamento, corruzione e mancato sviluppo stanno creando delle polveriere, pronte a scoppiare in presenza di un qualche episodio che faccia da detonatore

I fatti di Rosarno del gennaio dello scorso anno, come quelli di Castel Volturno, non sono casi isolati ed episodici ma il frutto di “equilibri distorti” che permangono non solo in quelle stesse aree colpite dalla “rivolta degli immigrati” ma in tante altre parti del paese: potenziali “nuove Rosarno” che specie in alcune zone del Mezzogiorno sono vere e proprie “polveriere”.

Prendendo come paradigma il caso Rosarno, l’Ires Cgil – in collaborazione con il dipartimento Mezzogiorno e l’ufficio Immigrazione della Cgil insieme con le categorie Flai e Fillea – ha realizzato una ricerca sul territorio dal titolo “Immigrazione, sfruttamento e conflitto sociale”. Una vera e propria mappatura delle aree a rischio del paese da dove emerge che le province di Caserta, di Crotone e di Napoli, sono le prime tre nella classifica tra le quindici province a maggior propensione rischio di conflittualità sociale (a queste si aggiungono Siracusa, Ragusa, Caltanissetta, Reggio Calabria, Salerno, Catania, Trapani, Foggia, Taranto, Palermo, Agrigento e Lecce) . Le quattro diverse aree territoriali sono state individuate incrociando quattro fattori anticipatori di conflitti, indici di qualità sociale, economica, abitativa e occupazionale.

La rivolta degli immigrati di Rosarno, come quella di Castel Volturno – spiega la ricerca – non ha una genesi casuale, non è una mera questione di ordine pubblico in cui affiorano d’improvviso gravissimi atti di razzismo e xenofobia, ma è il prodotto di una serie di fattori, di equilibri distorti.
Profondi squilibri territoriali e di sviluppo che vanno ricercati nella crisi economica, nelle condizioni di lavoro particolarmente dure al limite della schiavitù, in un sistema d’impresa in cui la contrazione del costo del lavoro è l’unica risposta per migliorare la competitività e in cui il peso del sommerso è sempre maggiore, nelle connivenze con la criminalità organizzata e nella mancanza di controlli da parte delle istituzioni.
Secondo il Rapporto annuale pubblicato alla fine del 2009 dall’European Network Against Racism (ENAR), ad esempio, in Italia il 65% dei lavoratori stagionali vive in baracche, il 10% in tende e solo il 20% in case in affitto. Sono lavoratori fondamentali per l’economia agricola soprattutto nelle regioni meridionali eppure nella maggior parte dei casi sono costretti a vivere in condizioni disumane, senza acqua, luce e cure mediche, con paghe che non superano i 25 euro giornalieri.

I lavoratori immigrati rappresentano un’ingente quantità di manodopera a basso costo, utilizzata per attività poco specializzate ed altamente ricattabile. Inoltre, il fatto che spesso questi lavoratori non siano in possesso di un valido titolo di soggiorno, li priva di qualsiasi forma di tutela e garanzia contrattuale. Ma, spesso, anche nei casi in cui si tratti di cittadini comunitari, come romeni, polacchi e bulgari, le condizioni di lavoro e salariali non migliorano affatto.

Questi lavoratori non sostituiscono quelli italiani, perché svolgono sempre occupazioni che i residenti non vogliono più fare. Per questo, secondo la ricerca, “la presenza degli immigrati e stata sempre tollerata, ed in molti casi è stata anche incentivata, proprio perché necessaria all’economia locale”, ad esempio nel settore edile, ” con condizioni salariali e contrattuali inique”.

La presenza di questi lavoratori ha cominciato a divenire “scomoda” e sempre meno gradita dalla popolazione locale e dalle stesse istituzioni nel momento in cui non viene più ritenuta funzionale all’andamento dell’economia locale. Questo è avvenuto soprattutto con la crisi economico-finanziaria. E il “modello Caserta”, basato sull’aumento della repressione e la militarizzazione del territorio, non è servito a migliorare le condizioni di vita quotidiana della popolazione in termini di sicurezza e stabilità. “Applicare un modello repressivo, in un territorio carico di problematiche e di conflitti, significa più che altro incentivare la “guerra tra poveri” – afferma lo studio – significa aumentare il rischio di conflitto sociale, significa mettere gli uni contro gli altri, ad esempio italiani contro stranieri, per poi giustificare l’uso della violenza e dei provvedimenti speciali. Inoltre l’adozione di questo modello di controllo del territorio ha inciso pesantemente sulle già difficili condizioni lavorative della polizia locale”.

L’indagine evidenzia che nel casertano peggiora la convivenza tra italiani e stranieri, dove a eccezione della “strage di Castel Volturno” non erano mai stati segnalati episodi di tensione e di razzismo. Prova della convivenza del passato è il fatto che si è reso possibile l’insediamento da oltre vent’anni di diverse comunità di immigrati che si sono andate stabilizzando in alcune aree della provincia. Un punto di forza è l’associazionismo che ha creato una rete della società civile unita su una possibile piattaforma di rivendicazioni e richieste da rivolgere alla classe dirigente locale ed agli altri attori sociali, responsabili anch’essi delle carenze strutturali della provincia.

La rete di associazioni è la peculiarità positiva della zona, ma questa “potenziale alleanza tra tutti i componenti della società civile – si legge nel rapporto – invece di essere incoraggiata e sostenuta dalle istituzioni locali, è stata attaccata e messa in discussione” fomentando al contrario il disagio sociale e lo scontro, la guerra tra poveri, italiani e stranieri che vivono nelle stesse condizioni.

Il rapporto cita come esempio in questo senso, “la politica e la retorica dell’attuale sindaco di Castelvolturno, Antonio Scalzone, che ha individuato negli immigrati che vivono in questo comune il capro espiatorio di ogni problema, definendo la loro presenza una vera e propria invasione”. Numerosi episodi di tensione si sono verificati in un piccolo comune dell’aversano, San Marcellino, dove da anni risiede un’importante comunità marocchina che ha sempre convissuto con la popolazione locale.

Oggi le cose stanno cambiando in negativo è l’allarme lanciato dalla ricerca. “Nonostante infatti la comunità di nord africani che vive lì è storica, la popolazione locale sembra tollerala sempre meno. Basti pensare che qualche tempo fa in un negozio di italiani, fuori c’era scritto che non volevano clientela straniera.