Rwanda, genocidio alla sbarra

Eugenio Roscini Vitali
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Dopo un processo durato dieci anni, il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda (Ictr) ha condannato all’ergastolo Pauline Nyiramasuhuko, ex ministro delle Politiche Femminili del Rwanda ritenuta colpevole di aver preso parte al genocidio e di aver ordinato i massacri e gli stupri avvenuti nel distretto di Butare nel 1994. Condannati al carcere a vita anche il figlio Arsene Shalom Ntahobali, allora studente, e il borgomastro di Muganza, Élie Ndayambaje, entrambe ritenuti colpevoli dei reati di genocidio e crimini contro l’umanità, incitamento diretto e pubblico allo sterminio, di stupro e persecuzione, di violenze e di oltraggio alla dignità della persona.

Con pene che vanno da 25 a 35 anni di reclusione sono stati inoltre condannati l’ex tenente colonnello dell’esercito ruandese, Alphonse Nteziryayo, il borgomastro di Ngoma, Joseph Kanyabashi, e il prefetto di Butare, Sylvain Nsabimana. Riconosciuta colpevole per sette degli 11 capi di imputazione, Pauline Nyiramasuhuko ha ascoltato la sentenza emessa dal giudice William H. Sekule senza mostrare emozioni.

Il genocidio in Rwanda è stato uno dei più sanguinosi episodi della storia del XX secolo: dal 7 aprile 1994, in circa 100 giorni, vengono massacrate più di 800 mila persone, in massima parte Tutsi e Hutu moderati; i principali responsabili dell’eccidio sono le milizie Interahamwe e le milizie Impuzamugambi, gruppi paramilitari addestrati ed equipaggiati dalle stesse forze governative fedeli al defunto presidente Juvénal Habyarimana.

Il genocidio s’inserisce in un contesto di rivalità etnica che prende il via con la divisione a sfondo razziale decisa da quello che sarà definito il peggior regime coloniale africano (e mondiale): quello belga.

Rilasciando le “patenti di identità etnica”, i belgi hanno amministrano il potere appoggiandosi alla minoranza Tutsi, ma dopo quasi mezzo secolo di discriminazioni gli Hutu si ribellano e con la rivolta del 1959 riescono a cacciare la monarchia Tutsi e gli schiavisti europei; il 1 luglio 1962 il Rwanda ottiene l’indipendenza da Bruxelles.

Per vendicarsi delle angherie subite gli Hutu organizzano feroci rappresaglie che causano migliaia di morti e portano alla fuga di 150.000 Tutsi. Le violenze non risolvono però la questione e a distanza di trent’anni i gruppi più estremisti decidono mettere fine alla presenza Tutsi nel paese. Il 6 aprile 1994 l’aereo su cui viaggia il presidente del Rwanda, Juvénal Habyarimana, e quello del Burundi, Cyprien Ntaryamira, viene abbattuto.

Gli Hutu ritengono responsabili dell’attentato il Fronte patriottico ruandese (Rpf), il movimento fondato dai Tutsi in esilio che dai primi anni novanta ha dato il via alla lotta armata contro il regime Hutu di Kigali; il 7 aprile, sotto gli occhi dell’UNAMIR (United Nations Assistance Mission for Rwanda), comincia il genocidio. Nell’arco di pochi giorni il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite riduce il contingente da 1705 a 270 unità; rimangono in Rwanda le sole forze canadesi del generale Roméo Dallaire, che si rifiuta di abbandonare il paese.

Oltre ad aver organizzato ed armato le milizie Hutu del distretto di Butare, aver eliminato ogni forma di resistenza interna ed aver pianificato e coordinato i massacri, Pauline Nyiramasuhuko è anche stata condannata per aver ordinato i sequestri e gli stupri di donne e ragazze appartenenti all’etnia Tutsi: comportamenti che la Corte ha definito tipici di una persona depravata e sadica. Fuggita dal Rwanda a causa dell’avanzata del Fronte patriottico ruandese, per alcuni anni la Nyiramasuhuko si è nascosta nella vicina Repubblica Democratica del Congo. Entrata in Kenya, il 18 luglio 1997 è stata arrestata e quindi tradotta nel carcere di Arusha, in Tanzania; il Tribunale Penale Internazionale per il Rwanda l’ha giudicata come caso n. ICTR-98-42-T.

Durante il processo l’accusa ha dimostrato come tra il 9 Aprile e il 14 Luglio 1994 gli imputati siano stati parte rilevante nel progetto di annientamento della popolazione ruandese di etnia Tutsi: avvalendosi della testimonianza di alcune vittime sfuggite alla morte, il pubblico ministero ha ricostruito il ruolo determinate della Nyiramasuhuko e di Arsene Shalom Ntahobali nei massacri consumati tra il 20 e il 23 aprile presso la chiesa di Mugombwa e sulla collina di Kabuye e nel sequestro e nella morte migliaia di Tutsi; le responsabilità del borgomastro di Muganza e degli altri imputati nella strage commessa alla scuola Evangelista e nell’attaccato alla collina di Kabakobwa, così come nelle stragi avvenute allo stadio di Mutunda e presso la clinica di Matyazo.

Lo scorso maggio il Tribunale penale internazionale per il Rwanda aveva condannato a 30 anni di reclusione Augustin Bizimungu, ex capo di stato maggiore delle forze armate ruandesi, arrestato in Angola nell’agosto del 2002 mentre combatteva a fianco dei ribelli dell’UNITA; insieme a Bizimungu erano stati condannati a 20 anni di carcere altri due ex alti ufficiali e l’allora capo di stato maggiore della gendarmeria, il generale Augustin Ndindiliyimana, rilasciato perché la pena a cui era stato sottoposto era equivalente al tempo passato in prigione dal momento del suo arresto.

Fino ad ora la Corte di Arusha ha portato a termine 65 processi, 38 le condanne, 19 i ricorsi in appello, 8 le assoluzioni; 10 i processi ancora in corso, 2 le persone in attesa di giudizio, 9 i ricercati. Pauline Nyiramasuhuko è la prima donna che l’Ictr ha condannato per il reato di genocidio; molte altre donne sono state direttamente giudicate dai tribunali ruandesi.

Recentemente le vittime del Rwanda hanno ottenuto giustizia anche in Belgio: a Bruxelles la Corte ha condannato due suore, un professore e un ex ministro perché ritenuti complici dei massacri avvenuti a Sovu. Insieme ad Alphonse Higaniro, ex ministro dei Trasporti in Rwanda, e a Vincent Ntezimana, ex professore universitario, Maria Visito Mukabutera e Gertrude Mukangango consegnarono alle milizie Hutu i 500 cittadini Tutsi che si erano rifugiati nel loro convento, fornendo agli assassini il carburante necessario a bruciare il garage dove si erano nascosti.