Scola e nuova laicità

Marcello Vigli
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La nomina di un vescovo è indubbiamente un fatto di Chiesa, ma la nomina del nuovo arcivescovo di Milano è anche un fatto destinato a pesare nella vita sociale e politica del nostro Paese: lo testimonia l’interesse per l’evento diffuso fra opinionisti e politici.

Interesse su chi è Angelo Scola e sui motivi che hanno indotto il papa a imporre alla chiesa di Milano, retta negli ultimi trenta anni da Martini e Tettamanzi, che, pur senza strappi con la Cei, avevano mostrato di non condividerne la linea filo berlusconiana, proprio Scola, che, per la sua affiliazione a Comunione e liberazione dovette lasciare il seminario ambrosiano di Venegono ed essere ordinato prete e Teramo, l’ha pienamente condivisa.

In verità la scelta ha radici nella sintonia teologica e pastorale fra Scola e papa Ratzinger. Con lui ha collaborato nella rivista teologica Communio, ostile alle speranze di rinnovamento suscitate dal Vaticano II, è stato rettore “ortodosso” dell’Università Lateranense, è tra i fondatori e primo rettore di quell’istituto Giovanni Paolo II sul matrimonio, che ne promuove il carattere “naturale” e indissolubile.

La sua nomina costituisce la sconfessione della linea pastorale dei suoi predecessori che era aperta alla modernità e poco attenta a rilanciare l’identità cristiana e una forte presenza della fede nella società e nella cultura italiana, che il papa promuove .

Per di più, la scelta di un settantenne, il cui nome è tra i cardinali “papabili”, appare finalizzata ad offrire un candidato all’ala conservatrice del prossimo conclave, perché contraddice il criterio, raccomandato dallo stesso Papa, di scegliere, come vescovi, candidati che abbiano almeno dieci anni prima della rinuncia canonica a 75 anni.

Anche a questo motivo si deve, forse, la lunga fase d’incubazione della nomina da cui è uscito sconfitto il segretario di Stato, Tarcisio Bertone, che non ha potuto insediare un suo candidato sulla cattedra di Ambrogio.

Sconfitta è anche la chiesa ambrosiana fedele alla linea martiniana, come rivela l’articolo di don Giorgio De Capitani intitolato La Diocesi di Milano è in lutto, che denuncia in primo luogo il “criterio” usato dal papa per la scelta che ha ignorato le richieste apertamente proposte o sommessamente espresse, ma pur sempre ufficialmente sollecitate, da buona parte del clero e dai cattolici di base.

Ben più grave è la sconfitta, a livello nazionale, di quei cattolici che ancora coltivano le speranze conciliari di rinnovamento.

Per essi gli episcopati di Martini e Tettamanzi erano rimasti l’unico punto di riferimento essendo ormai passato il tempo di vescovi come Lercaro a Bologna, Pellegrino a Torino, Ballestrero a Bari e poi a Torino, Bettazzi a Ivrea, Tonino Bello a Molfetta, Giuseppe Casale a Foggia.

Oggi nessuno tra i vescovi delle principali diocesi italiane è attento come loro alle istanze dei cattolici democratici e progressisti dei diversi schieramenti.

Si può così intendere perché si dice, invece, entusiasta della nomina di Scola Maurizio Lupi, berlusconiano vicepresidente della Camera ed esponente di quella Comunione e Liberazione, sempre più caratterizzata come soggetto economico e politico, molto attento agli affari e al potere.

”Accolgo con infinita gioia la notizia della nomina del cardinale Angelo Scola ad arcivescovo di Milano”. Afferma in una sua nota presentandolo, però, al tempo stesso impegnato a muoversi in continuità con l’opera di Tettamanzi. Lo stesso fa anche il presidente della Fondazione Cariplo Giuseppe Guzzetti dichiarando: Scola proseguirà l’opera di Martini e di Tettamanzi. Si farà notare per caratteristiche come l’attenzione all’integrazione.

Anche altri minimizzano la discontinuità rappresentata da questa nomina e si ostinano a considerare Angelo Scola un conservatore aperto al dialogo, smentendo quanti invece indicano l’evento come un risarcimento alla destra cattoleghista, che aveva contestato sistematicamente il cardinale Tettamanzi per la sua opera a favore degli immigrati e del diritto dei musulmani ad avere luoghi ove celebrare la loro fede.

Ricordano anche il suo rapporto a Venezia con Massimo Cacciari e che fu lui stesso ad inaugurare con la fondazione Oasis un dialogo culturale con l’Islam.

A questa interpretazione che, nella migliore delle ipotesi vuole evitare di regalare Scola alla destra più retriva, sembrano ispirarsi anche le parole di prudente apertura del neo sindaco Pisapia che all‘Unità ha dichiarato: L’attenzione che l’arcivescovo Scola ha dimostrato verso gli immigrati è di grande stimolo e mi spinge a immaginare un percorso condiviso che possa promuovere conoscenza, dialogo e integrazione.

Questa sospensione di giudizio non regge, però, se si riflette che a lui si deve l’elaborazione di quel “nuovo” concetto di laicità, sintetizzato in un patto per una nuova laicità e ripreso nella sostanza anche da Ratzinger.

In esso rivendica il diritto di esprimere la mia idea buona di famiglia, senza commettere un’invasione di campo. Io dico la mia, tu dici la tua, poi il popolo sovrano… prenderà le sue decisioni… Lo Stato laico, dopo il confronto fra le parti e dopo che il popolo sovrano si è espresso, è tenuto ad assumere il risultato.

In nome di questa laicità a maggioranza, una minoranza coesa e soprattutto obbediente ad un’autorità autosufficiente perché finanziata con pubblico denaro e operante in regime di privilegio, sarebbe “democraticamente” legittimata ad imporre le proprie scelte etiche e religiose?

Scola lo lascia intendere. Forse pensa che a distanza di 1700 anni sia da rilegittimare un ritorno all’età costantiniana iniziata proprio nel lontano 313 con quell’editto di Milano che attribuiva, in nome dell’imperatore, uno statuto particolare al cristianesimo avviato a diventare, ben presto, con Teodosio “religione imperiale”.

Si può sospettare che proprio a questa ricorrenza da celebrare abbia pensato, tra l’altro, papa Benedetto XVI!