Freedom Flotilla, si prepara la battaglia legale

Maria Elena Delia
www.freedomflotilla.it

Quello della scorsa notte (6 luglio, ndr) è stato forse il più complesso ed emotivamente intenso di tutti i meeting e i tavoli di lavoro che hanno visto riunire la Coalizione della Freedom Flotilla 2 durante l’ultimo anno.

Ricordo molto bene come, sul nascere di un torrido giugno 2010, immediatamente dopo l’attacco alla prima Flotilla, avevamo già deciso, senza esitazioni, che quanto accaduto non ci avrebbe fermato e che l’arroganza dell’impunità che aveva consentito a Israele di oltrepassare l’ennesimo limite teoricamente invalicabile, non avrebbe potuto impedirci di ritentare.

Per più di un anno centinaia e centinaia di persone in tutto il mondo hanno dedicato le proprie vite, il proprio tempo, le proprie energie alla costruzione di un progetto comune. Coordinare più di venticinque paesi e trovare una linea e una metodologia di lavoro condivise poteva sembrare un obiettivo irraggiungibile. Ma sul finire di questo torrido giugno ateniese, miracolosamente, c’eravamo. C’eravamo tutti.

Pronti, con le nostre dieci barche, cuori pulsanti di questa impresa: le due navi cargo che avrebbero dovuto essere colme di cemento, medicinali, materiale scolastico e ospedaliero, e le otto navi passeggeri che avrebbero dovuto portare fino a Gaza quest’umanità determinata e tenace, quella stessa che ieri notte potevo riconoscere chiaramente negli sguardi e nelle parole dei compagni di questa avventura, che mi lega ormai indissolubilmente a loro da quando, il 23 agosto 2008, le prime due imbarcazioni del Free Gaza Movement riuscirono a raggiungere Gaza creando un precedente importante e dimostrando che, oltre che lecito, era anche possibile.

Non ci aspettavamo certamente che sarebbe stato semplice. Dopo l’operazione Piombo Fuso a nessuna imbarcazione era mai più stato permesso di raggiungere la Striscia di Gaza. E molte erano state le ipotesi prese in esame relativamente a come avrebbero potuto tentare di dissuaderci, rallentarci, fermarci, prima o dopo la partenza.

Ma quanto ci siamo trovati a dover affrontare durante questi ultimi giorni è stato il superamento di un confine che mai avremmo pensato di veder oltrepassare.

La Freedom Flotilla 2 è stata considerata dal governo greco/israeliano (difficile ormai distinguere tra i due) un problema di sicurezza nazionale. Un decreto speciale del Ministero dell’Interno ha vietato a qualunque imbarcazione di lasciare i porti greci con destinazione Gaza. Ma, non fosse stato sufficiente a dimostrarci quanto la nostra eventuale partenza li avrebbe messi in difficoltà, alle nostre barche è stato impedito qualunque tipo di spostamento, anche nel caso in cui la destinazione richiesta fosse stata semplicemente un altro porto greco o europeo.

Le imbarcazioni che hanno tentato di far rispettare il proprio diritto di movimento sono state puntualmente bloccate dalla guardia costiera greca, compresa la Dignitè, la barca francese partita dalla Corsica il 25 giugno, autorizzata dall’unico governo a cui possiamo riconoscere il merito, così raro di questi tempi, di non aver ceduto alle pressioni e al condizionamento di Israele.

Alcuni passeggeri sono stati addirittura arrestati. John Kushmire, il capitano dell’Audacity of Hope, la barca statunitense che ha cercato di partire qualche giorno fa dal Pireo, forzando questo inaccettabile blocco, ha trascorso tre notti in carcere, senza che nessun rappresentante dell’ambasciata americana gli abbia mai fatto visita, accusato di aver messo a repentaglio la vita dei 45 passeggeri e di aver trasgredito l’articolo 128 del codice navale greco relativo alla condotta che un capitano dovrebbe adottare in “situazioni di guerra o intensificazione delle relazioni internazionali”. Fossimo stati in guerra, quindi, John avrebbe dovuto obbedire solo ed esclusivamente agli ordini del Ministero degli Interni. Lo siamo, dunque?

Dai giornali, poi, senza mai essere stati contattati né ufficialmente né ufficiosamente, veniamo a sapere che il governo greco e quello israeliano starebbero valutando la possibilità di portare gli aiuti della Freedom Flotilla ad Ashdod e, da lì, consegnarli a Gaza. Dobbiamo forse intuire che anche i nostri aiuti verranno sequestrati e tenuti in ostaggio come le nostre barche?

Se il governo greco è seriamente interessato a portare quegli aiuti a Gaza, che apra un dialogo, ma con la Freedom Flotilla, che quegli aiuti ha raccolto durante mesi di lavoro e grazie al supporto di migliaia di sostenitori in ogni paese e che sarebbe felice di proporgli l’apertura di un corridoio marittimo, verso Gaza, protetto e controllato, lungo il quale le nostre barche, ma non solo, potrebbero finalmente portare a destinazione tutto il materiale che non ha mai neppure ricevuto l’autorizzazione per essere caricato sulle nostre navi ed attende, stipato in qualche magazzino, la sua sorte.

Così come noi attendiamo spiegazioni di fronte all’incredibile rifiuto da parte di un’azienda produttrice di cemento, che proprio ieri ha improvvisamente rifiutato di onorare il contratto di acquisto che aveva stipulato con noi, restituendoci l’acconto versato e dichiarando che questa decisione era stata presa per “cause di forza maggiore”, allegando alla lettera di rifiuto il decreto del ministero dell’interno greco sul veto di navigazione alla Flotilla. Non ci è neppure più consentito acquistare cemento in Grecia. Quale sarà il prossimo passo?

Se non si coglie la gravità di quanto sta accadendo, se non ci si rende conto che una missione umanitaria internazionale è stata considerata e affrontata come fosse stata l’esercito di un paese nemico, se non si comprende l’unicità di quello che sta accadendo, mai accaduto prima d’ora, non si può capire che quello che è stato creato è un precedente gravissimo che potrebbe e potrà ripetersi. Per noi è molto chiaro.
Le nostre barche, attualmente tutte ostaggi dei porti greci, saranno la nostra priorità per il prossimo futuro. Le riavremo, com’è nostro diritto. E affronteremo legalmente quanto abbiamo subìto, fino in tribunale, se necessario.