Cara democrazia, ritorna a casa che non è tardi

Adriano Gizzi
www.confronti.net

Come in una bella canzone di Fossati, la voglia di partecipazione e la democrazia diretta hanno prevalso sull’apatia e la sfiducia nel cambiamento. Nonostante il silenzio dei media tradizionali, dopo tanti anni gli italiani si sono ripresi il diritto di decidere, andando a votare ai quattro referendum di giugno.

Solo pochi mesi fa sembrava impossibile che la maggioranza degli elettori potesse superare la pigrizia e lo scoraggiamento, scegliendo di recarsi alle urne per una consultazione referendaria. Quest’araba fenice della democrazia italiana era già morta e risorta una volta, all’inizio degli anni Novanta. Poi il referendum, un tempo considerato un preziosissimo strumento di democrazia diretta, è caduto in un lunghissimo letargo, durante il quale il quorum non è stato mai raggiunto. L’ultima volta, infatti, era successo nel 1995. Ma il 12 e 13 giugno circa 26 milioni di elettori sono andati a votare contro il nucleare, per l’acqua pubblica e contro la legge sul legittimo impedimento. Un altro milione ha sportivamente partecipato al referendum rispondendo «no» nel merito dei quattro quesiti e un certo numero di elettori si sono consapevolmente astenuti, sommandosi agli astenuti «fisiologici», nella speranza di far mancare il quorum.

Ovviamente non è possibile sapere con esattezza quanti elettori abbiano praticato l’astensione in modo «attivo», ma si può ragionevolmente ipotizzare che oltre a Berlusconi, Bossi e gran parte della classe dirigente di Pdl e Lega, solo pochi milioni di elettori si siano astenuti perché contrari ai quesiti. Un indizio ci viene dal fatto che la sera di domenica 12 giugno è stata data la notizia che il raggiungimento del quorum era ormai abbastanza probabile (mancavano meno di dieci punti percentuali), per cui molti di quelli che si stavano astenendo «tatticamente», cioè solo per impedire il raggiungimento del quorum, avrebbero potuto cambiare strategia andando a votare «no» la mattina del lunedì. Ma non l’hanno fatto. E una percentuale di «sì» così schiacciante (95%) prova che, anche se avessero votato tutti coloro che erano interessati ai quesiti, le leggi sarebbero state comunque abrogate con una maggioranza molto larga.

Nessuno ammette la sconfitta

Come accade in ogni consultazione elettorale, quasi tutti si autoproclamano vincitori ed è difficilissimo trovare qualcuno che ammetta di aver perso. I partiti di maggioranza hanno tentato la carta dell’indifferenza, dissimulando la delusione con una certa nonchalance: referendum? Quali referendum? Come se non avessero fatto di tutto per boicottarli, fissando il voto in una data differente dalle elezioni amministrative di maggio (oltretutto con grande dispendio di denaro pubblico) proprio per rendere quasi impossibile il raggiungimento del quorum. Come se i quesiti poi non avessero riguardato leggi fortemente volute dalla maggioranza di governo. Si pensi per esempio alla questione del legittimo impedimento, una delle tante leggi ad personam volute dal presidente del Consiglio per tentare di sfuggire ai processi. La maggioranza degli italiani è andata a votare per abrogare quel provvedimento, dimostrando così di non credere al teorema Berlusconi-Ghedini-Cicchitto sulle toghe rosse che attuerebbero una persecuzione giudiziaria dettata solo da odio ideologico.

Va detto che questa volta Berlusconi non è intervenuto continuamente in televisione per invitare gli elettori a restare a casa o andare al mare. Innanzitutto perché scottato poco prima dall’esperienza di Milano e Napoli: più interveniva in campagna elettorale demonizzando gli avversari e più erano i suoi candidati a indebolirsi. Avendo imparato la lezione delle amministrative, nel caso dei referendum ha preferito tenere un profilo più basso, dichiarando che non sarebbe andato a votare ma senza enfatizzare la cosa. Anche per tenersi aperta la possibilità di dire, una volta persi i referendum, che in fondo non si trattava di questioni così importanti per la sopravvivenza del governo. E infatti così ha fatto, dichiarando che il governo andava avanti per il bene del Paese. Si capisce.

È interessante notare come tutte le analisi del risultato referendario abbiano sottolineato l’enorme importanza acquisita dai nuovi mezzi di comunicazione, in particolare internet e i social network. Improvvisamente la televisione era diventata un vecchio arnese da buttare via, neanche fosse un ciclostile obsoleto o una Lettera 22. Come succede spesso, si passa con disinvoltura da un eccesso a quello opposto: prima la televisione determina il voto della stragrande maggioranza degli elettori, poi da un giorno all’altro diventa un mezzo totalmente inutile e superato.

Se guardiamo al passato, negli studi sugli effetti dei mass media si è passati dalla «teoria del proiettile magico» (secondo cui la radio prima e la televisione poi sarebbero state in grado di plasmare la mente delle persone, determinandone in modo diretto i comportamenti) alle teorie degli effetti limitati, come quella sul flusso di comunicazione a due stadi (dove invece si scopre l’importanza dell’azione di mediazione degli «opinion leaders» – dal professore universitario al barista sotto casa – tra mass media e opinione pubblica), seguita da altri studi come quelli di Joseph Klapper sull’esposizione selettiva, per poi tornare ad attribuire ai moderni mezzi di comunicazione di massa un notevole potere di condizionamento; non più momentaneo ma a lungo termine, nella costruzione e rappresentazione della realtà. Detto in soldoni, i media non servono semplicemente a mandarci un messaggio che ci convinca oggi a votare quel certo candidato anziché quell’altro, ma producono effetti ben più profondi, contribuendo in modo determinante a «dettarci la linea» su ciò che dobbiamo considerare importante o irrilevante, normale o anormale, bello o brutto, giusto o sbagliato.

Ma la televisione conta ancora

Eppure da 17 anni e mezzo, da quando cioè l’uomo che possiede quasi la metà del sistema radiotelevisivo italiano ha deciso di occuparsi direttamente di politica, a ogni sua sconfitta elettorale c’è sempre qualche genio che si alza in piedi a dire: «Ma allora dove sta il regime? Avete visto che le televisioni non contano nulla, dato che si può perdere anche essendo proprietari di Mediaset?». In realtà, però, bisognerebbe ribaltare la questione: quanti voti avrebbe potuto prendere un personaggio tutto sommato culturalmente e politicamente mediocre come Berlusconi se non avesse potuto «allevare» intere generazioni, nel corso degli anni Ottanta e Novanta, all’insegna del cattivo gusto televisivo? E come potrebbe sopravvivere ancora oggi, se non avesse almeno tre quarti dell’informazione televisiva dalla sua parte?

Con un tale potere mediatico, è come correre i cento metri partendo da trenta metri più avanti rispetto agli avversari. Se riesce a perdere lo stesso, vuol dire che ormai è diventato davvero poco credibile. Poi, certamente, nessuno gli nega una certa abilità comunicativa. Questo significa che quando raramente gli capita di trovarsi in un duello ad armi pari (come nel caso di un «faccia a faccia» con Prodi) riesce ad essere più efficace e convincente. Un po’ perché conosce meglio il mezzo e un po’ perché l’avversario non era decisamente tra i più temibili dal punto di vista della comunicazione. Con buona pace di chi sottovaluta l’importanza della televisione, un Berlusconi senza potere mediatico ed economico avrebbe avuto certamente meno successo in politica.

Ovviamente, tanti anni di sproporzione nell’accesso ai media non possono certo essere compensati da poche ore di «par condicio». E poi la parità nel tempo di presenza in televisione, anche qualora fosse davvero raggiunta, non basterebbe a far ritenere pienamente democratico il nostro sistema dell’informazione. Non è sufficiente che ci siano due o più leader politici a parlare per lo stesso tempo in tv: occorre che ci sia qualcuno (giornalisti, ma anche intellettuali e rappresentanti della società civile) che li incalzi, ponendogli domande scomode e insistendo con forza quando cercano di sfuggire. Due ingiustizie non fanno una giustizia, quindi due interviste in ginocchio non fanno un’informazione equilibrata né una vera competizione elettorale.

In ogni caso, se torniamo al passato non lontanissimo, notiamo che quando Berlusconi (ma non solo lui) ha avuto la possibilità di comparire in televisione attraverso spot martellanti, tale visibilità si è tradotta in termini di risultati elettorali. Pensiamo al caso delle elezioni europee del 1999, quando solo tre forze politiche fecero un uso massiccio degli spot elettorali in tv: Forza Italia, Lista Bonino e I democratici di Parisi. Il risultato del partito di Berlusconi, che allora era all’opposizione, venne considerato positivo: pur perdendo voti sulle precedenti europee, recuperò quasi cinque punti sulle politiche di tre anni prima. Clamoroso il risultato dei radicali che, abituati a oscillare tra il 2 e il 3 per cento, per la prima e ultima volta nella loro storia si ritrovarono improvvisamente all’8,5%. Ottimo anche il risultato della formazione dell’asinello, che alla sua prima e unica prova elettorale prese quasi l’8%.

Si dirà che in questi dodici anni sono cambiate molte cose. È vero, ma purtroppo i dati del Censis solo due anni fa ci dicevano che più di due terzi degli italiani si formano un’opinione politica grazie alla televisione, in particolare seguendo i telegiornali. Internet è un mezzo senz’altro più libero e pluralista e consente anche l’espressione di opinioni che a volte nei mezzi tradizionali sono tenute volutamente ai margini. Non c’è dubbio che in questi ultimi tempi abbia acquisito un’importanza sempre maggiore e la mobilitazione sul web in occasione dei referendum di giugno ne è stata una conferma. Sicuramente milioni di giovani si sono informati e attivati grazie alle catene di mail e soprattutto ai social network. Però non dobbiamo pensare che la popolazione italiana sia formata in maggioranza di giovani smanettoni sempre davanti a computer, smartphone, iPad e aggeggi simili… esiste anche un esercito di persone che sanno a malapena cambiare canale sul telecomando del televisore e che ricordano ancora con nostalgia (peraltro giustificatissima) il colonnello Bernacca e Carosello.

Non dimentichiamo che questa volta la televisione era in gran parte impegnata nel tentativo di nascondere a più telespettatori possibile il fatto che il 12 e 13 giugno si votava su importanti referendum, ma cosa sarebbe successo se cinque canali su sette avessero martellato dalla mattina alla sera con argomentazioni a favore dell’astensione, utilizzando esperti e testimonial amati dal grande pubblico?

I media enfatizzano vittorie e sconfitte

Non dobbiamo neanche trascurare il fatto che il grande risultato di questi referendum ha visto rimanere a casa pur sempre il 45% degli italiani. Non è che se vota il 55% allora «gli italiani si sono recati in massa a votare» e se invece vota solo il 45% «gli elettori disertano le urne». E infatti un altro vizio tipico dell’informazione è quello di descrivere i fenomeni in modo esageratamente drastico. Uno spostamento di alcuni punti percentuali ed ecco che «l’Italia va a destra», qualche astenuto in più da una parte ed è subito «grande trionfo della sinistra».

I cambiamenti e gli spostamenti, come ci spiegano gli esperti di flussi elettorali, avvengono sempre in misura molto inferiore rispetto a quanto i media tendono a rappresentare. Ce ne accorgiamo soprattutto quando analizziamo con attenzione i risultati espressi in voti assoluti. Nel 2008 Berlusconi ha certamente vinto le elezioni, nessuno lo nega. Ma il suo «trionfo», che ha fatto pensare che l’Italia fosse ormai diventata «tutta berlusconiana», se analizzato in termini reali è molto meno netto. Pdl, Lega e alleati minori avevano preso poco più di 17 milioni di voti: il 46,8% dei voti validi, ma solo il 36% degli aventi diritto al voto. Però nell’immaginario, anche di chi non lo aveva votato, l’Italia era «tutta con Berlusconi». E l’altro 64%?

Due italiani su tre non voteranno Berlusconi, ma potrebbe non bastare

Nel frattempo il numero di coloro che non voterebbero la coalizione berlusconiana è sicuramente cresciuto. Il problema è che non essere entusiasti di Berlusconi non implica automaticamente andare a votare per una coalizione potenzialmente in grado di batterlo. Coalizione che, oltretutto, al momento non si è ancora costituita. Comunque, tra coloro che non hanno nessuna intenzione di votare per l’attuale presidente del Consiglio, c’è almeno un 25% di elettorato che presumibilmente si asterrà o voterà scheda bianca o nulla: questa è più o meno l’area del non voto (o del «chi tace acconsente») prevista se si tenessero oggi le elezioni politiche. Tra coloro che invece si dichiarano pronti a votare, il rapporto di forze è pressappoco questo: 40% alla coalizione Pdl, Lega nord e alleati minori, contro un 60% per tutti gli altri partiti.

Anche se l’elettorato berlusconian-leghista rappresenta ormai meno di un terzo del totale degli aventi diritto al voto, il rischio che Berlusconi vinca le prossime elezioni è tutt’altro che scongiurato. Soprattutto se l’opposizione non si organizza in modo convincente per sbarrargli la strada. Anche con percentuali inferiori a quelle dell’ultima volta, potrebbe comunque vincere le elezioni, prendere il premio di maggioranza previsto dalla «legge porcata» della Camera (il 54% dei seggi) e con questo farsi eleggere alla Presidenza della Repubblica. Berlusconi al Quirinale libererebbe finalmente la casella della Presidenza del Consiglio, scatenando i vari pretendenti al trono: da Tremonti a Maroni, da Alfano a Formigoni. A quel punto, con in mano le quattro principali cariche dello Stato e il controllo totale su un Parlamento da lui nominato, potrebbe stravolgere la Costituzione, depotenziando il ruolo della Corte costituzionale e magari introducendo una forma di presidenzialismo plebiscitario che così bene si sposerebbe con la sua vocazione populista da dittatura dell’America Latina di un tempo.

Un’esagerazione? Allarmismo inutile e fuori luogo? Probabilmente oggi le possibilità che tutto questo avvenga sono molte di meno rispetto a qualche mese fa, quando il presidente del Consiglio non aveva ancora preso il doppio schiaffo delle amministrative e dei referendum. I suoi fedelissimi gli sono sempre meno fedeli e in realtà stanno cercando di convincerlo – per il suo e il loro bene – a passare finalmente la mano. Ma non dispongono delle sue risorse economico-mediatiche e per di più sono divisi tra di loro (il famoso asse tra Maroni e Tremonti, per esempio, è ormai rotto da tempo), quindi potrebbero utilizzare proprio la «carota» del Quirinale per convincerlo a schiodare da Palazzo Chigi. Resta il fatto che l’uomo si è dimostrato molto tenace e resistente alle difficoltà, capace di sorprese e colpi di coda. E comunque essere consapevoli di un rischio, per quanto improbabile lo si voglia considerare, serve anche ad attrezzarsi meglio per poterlo scongiurare.

Marciare divisi per farsi colpire uniti?

Subito dopo la vittoria delle amministrative e il successo dei referendum, le varie forze che in teoria dovrebbero impegnarsi ad evitare l’incubo appena descritto hanno dato un’impressione di grande unità. Le vecchie divisioni sembravano finalmente messe da parte, per potersi preparare allo scontro decisivo con il Caimano. Ma quest’unità è durata poche settimane e il consueto spirito di divisione ha di nuovo preso il sopravvento. I soldati prussiani erano soliti «marciare divisi per colpire uniti», ma la sensazione è che le opposizioni stiano marciando divise per essere meglio bastonate tutte assieme e ritrovarsi quindi unite nella sconfitta.

A pochi giorni dai referendum, ecco già che Di Pietro polemizza con Bersani e Vendola, mentre ci si torna a dividere sulle possibili vie d’uscita dal berlusconismo e un politico di grande esperienza (ma anche tante cantonate) come D’Alema non rinuncia a indicare, con la consueta umiltà, la sua ricetta per vincere: un’alleanza con il centro (il famoso «modello Macerata», anche se dopo le amministrative di maggio i titoli dei giornali erano tutti – inspiegabilmente – su Milano e Napoli…) che più o meno implicitamente prevede l’offerta della premiership a Casini (il quale, dal canto suo, continua a ribadire la sua «inconciliabilità» con Sel). Sembra di sentire Sabina Guzzanti che imitando D’Alema si chiedeva: «Perché mai la sinistra dovrebbe candidare… una persona di sinistra? È una scelta, diciamo… che la gente non capirebbe». E, prima del risultato di Pisapia a Milano, erano moltissimi quelli che si facevano la stessa domanda: perché la sinistra dovrebbe candidare proprio una persona di sinistra? Forse perché così finalmente comincia a vincere.

Il movimento 5 Stelle ha certamente il merito di sollevare temi importanti, dalle energie alternative alla questione morale e alla lotta contro gli sprechi della politica, anche se lo fa in modo spesso manicheo e semplicistico. Non c’è dubbio che per molti aspetti centro-destra e centro-sinistra tendano ad assomigliarsi e a fare politiche non così contrapposte, ma l’uscita di Beppe Grillo su «Pisapippa», che di fatto metteva sullo stesso piano i due candidati a sindaco di Milano, non è stata apprezzata neanche dal suo stesso elettorato, che infatti è andato a votare compatto per quello che, come minimo, poteva essere considerato di gran lunga il meno peggiore, anche dai grillini più esigenti. Anche dire – come ha fatto sempre il comico genovese – che con i referendum i cittadini hanno mandato a quel paese (non ha detto esattamente così) i partiti, è quantomeno azzardato. Piaccia o meno, il raggiungimento del quorum è stato possibile anche grazie alla mobilitazione di migliaia di militanti di Pd, Sinistra ecologia e libertà, Italia dei valori, Federazione della sinistra e così via.

I movimenti però sono stati una risorsa straordinaria per mobilitare gli elettori nei referendum e bene ha fatto lo scrittore Roberto Saviano a invitare la politica a «farsi contaminare» da queste energie nuove. Anche l’informazione deve fare la sua parte, capire i tempi che cambiano, non restare inchiodata ai vecchi schemi della politica «politicante». Non è possibile che la sera del 13 giugno, per commentare in studio i risultati del referendum, il Tg3 avesse invitato solo i politici Bersani e Quagliariello e il giornalista Sechi, mentre la folla che stava festeggiando in piazza a Roma, davanti alla Bocca della verità, veniva usata come scenografia di sfondo, con le bandiere colorate e le facce giovani e festanti. Dopo aver capito che la loro funzione era semplicemente quella di fare folklore (ma poi la politica vera la fanno i partiti: «spostatevi ragazzini, lasciateci lavorare!», sembrava il messaggio sottinteso), dal palco della manifestazione hanno cominciato a gridare «non ci rappresenta nessuno!» all’indirizzo di Bersani.

Intendiamoci: molti italiani, invece, si sentono ancora rappresentati da questi partiti e sarebbe altrettanto miope pensare che si possa fare a meno delle forze politiche organizzate che già esistono. Bisognerebbe provare a conciliare il meglio di ciò che già è in campo in Parlamento con ciò che sta emergendo nella società, che va ascoltato e in qualche modo – anche se si arrabbieranno – rappresentato. Ci vorrebbe il coraggio di garantire che, se dovesse vincere una coalizione di centro-sinistra, questa volta si guarderà bene dal commettere gli errori delle due precedenti esperienze e si terrà lontana dai poteri forti, dalle cricche, dalle logge, dai faccendieri alla Bisignani e da quel sottobosco politico-affaristico di cui gran parte dei suoi elettori vorrebbe finalmente liberarsi.