Il libro di Shlomo Sand e la politica identitaria del governo israeliano

Antonio Rolle
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Nella prefazione del libro Les mots et la terre, pubblicato in Francia presso le edizioni Fayard, e dedicato «Ai profughi che hanno trovato rifugio in questa terra (la Palestina) e a coloro che sono stati obbligati ad abbandonarla», l’autore, lo storico Shlomo Sand, si sofferma a riflettere: «Non abbiamo dubbi sulla nostra scelta obbligata (quella di abbandonare, durante l’ultima guerra mondiale, l’Europa per andare in Palestina) poichè l’Europa ci aveva “vomitato” e non avevamo un luogo dove andare. Ma, con questo atto, abbiamo confiscato beni e proprietà che erano dei palestinesi e, soleva dire mio padre, in futuro, dovremo pagarne il prezzo».

Shlomo Sand insegna Storia contemporanea all’università di Tel Aviv dopo aver insegnato ed essersi formato presso la prestigiosa “Ecole des hautes études en sciences sociale” di Parigi. Ha pubblicato varie opere tra le quali, l’ultima dal titolo: L’invenzione del popolo ebraico, tradotta dall’ebraico e pubblicata, a fine 2010, presso le edizioni Rizzoli. L’invenzione del popolo ebraico può essere considerato un libro di difficile lettura? Il grande storico Eric Hobsbawm commentò, con una punta di pessimismo, la sua lettura: «Forse non bastano libri che combinano passione ed erudizione per cambiare la situazione politica. Ma se potessero, questo lo farebbe».

È un libro eretico, una specie di “controstoria” che si discosta radicalmente dalla storia ebraica del pensiero dominante. Una genealogia della memoria ebraica che fa a pugni con il concetto di “unicità del popolo ebraico” che deriverebbe dalla sua origine biblica e che, nella sostanza, non ha mai deviato dalle prime narrazioni bibliche fino ai nostri giorni. Parole ed espressioni come “popolo ebraico”, “terra avita”, “esilio”, “diaspora”, “alyyah” (ritorno in Palestina/Israele), “terra d’Israele”, “terra di liberazione” ecc. vengono disaminate minuziosamente con una visione completamente diversa dagli storici ebraici del passato e contemporanei.

Per rendere più credibili le sue dimostrazioni, lo storico Shlomo Sand ha fatto ricorso a discipline proprie della storiografia moderna non evenemenziale: la sociologia, l’archeologia, la geografia, la politologia e perfino il cinema (sua fu l’idea di raccontare la storia del XX secolo attraverso lo schermo con l’opera Le XX siècle à l’écran pubblicato in Francia nel 2004).

In un’intervista, pubblicata su il Manifesto del 27 gennaio del 2011, Shlomo Sand affermava: «Volevo scrivere un libro che avesse solidità storica ma conclusioni politiche, perché sono uno storico, e in quanto tale sono tenuto a cercare la verità, ma rimango comunque un cittadino israeliano, vittima di una politica identitaria del tutto catastrofica». Ed è proprio sulla «catastrofica politica identitaria» adottata dal sionismo che lo storico israeliano concentra le sue critiche più rilevanti.

Il capitolo secondo del libro, rafforzato, come tutta l’intera opera, da un immenso apparato di note bibliografiche, mette in evidenza come il sionismo classico abbia sostenuto, sempre ed inequivocabilmente che «il certificato di nascita del popolo ebraico» sia stato la Bibbia. Con una certa ironia, il capitolo prende il titolo di “Mitostoria: in principio Dio creò la nazione”. La Bibbia attesta e «certifica il possesso (da parte del solo popolo ebraico) della terra originaria».

Ma, ha modo di affermare Shlomo Sand, «(…) il guaio, però, è che si tratta (la Bibbia) di un testo teologico, non storico, sebbene nelle scuole israeliane di ogni grado e orientamento continui a essere presentato come tale». Curiosa e stravagante è la posizione del padre dello stato israeliano David Ben Gurion. Dopo essersi chiesto, con una certa apprensione, come mai, «(…) dopo essere stati una sola nazione, sotto un’unica guida ai tempi di Mosè e Giosuè, gli ebrei si divisero in diverse tribù», formula la sua posizione perfettamente in linea con la storiografia ufficiale:

«Quando mi trovo dinnanzi a una contraddizione tra la narrazione biblica e le fonti esterne (ritrovamenti archeologici o epigrafici) non sono obbligato a privilegiare queste ultime. Non avrebbero infatti potuto falsificare o distocere i fatti? (Sic!). Da un punto di vista puramente scientifico sono autorizzato ad accettare la testimonianza biblica anche quando le fonti esterne la smentiscono (…)».

Shlomo Sand fa notare che «malgrado il suo approccio scientifico e laico (Ben Gurion era un socialista-laburista), in caso di necessità, Ben Gurion sapeva rifarsi anche ai comandamenti divini. Poteva, per esempio scrivere che “La promessa del paese di Canaan ad Abramo e Sara rappresenta un grande evento che riveste un significato decisivo nella storia ebraica”». (Pag. 173).

Il capitolo quinto del libro di Shlomo Sand tratta specificatamente dell’attuale politica identitaria dello Stato d’Israele. È un capitolo che può inquietare e, per certi versi, sconvolgere. C’è da rabbrividire nel leggere che negli anni Settanta, in alcune università israeliane, fu iniziato tutto un filone di ricerche sull’«antropologia genetica degli ebrei». Ricerche che affrontavano «l’origine del popolo ebraico e l’esistenza della razza ebraica».

Lungo quasi tutto il quinto capitolo si possono leggere amenità quali: «(…) affinità genetica tra le diverse comunità (…) tratti distintivi degli ebrei in base ai gruppi sanguigni (…) la biologia che avvalora la storia (…) l’idea sionista di un popolo-razza ebraico divenne (…) un dato scientifico fondato e solido e portò alla nascita di una nuova disciplina: “la genetica ebraica”. (…) L’università ebraica di Gerusalemme (…) scopre un’affinità sorprendente tra il tipo di mutazioni del cromosoma Y degli ebrei ashkenaziti e sefarditi e quello degli “arabi-israeliani” palestinesi (…). Scoperta del “marchio genetico sacerdotale” (…) studio (genetico) di tutti coloro che attualmente si chiamano Cohen (…) I “Kohanim”, antica aristocrazia ereditaria discendente da Aronne, fratello di Mosè, riscossero un grande successo nell’era della genetica molecolare (…). (Le ricerche sulla “genetica ebraica” vengono tuttora effettuate all’università ebraica di Gerusalemme e all’“Istituto Weizmann” di Rechovot e al “Technion” di Haifa)». Questo florilegio di frasi e notizie sono riportate da pag. 369 a pag. 412.

Interrogato, all’inizio di quest’anno, dal giornalista de il Manifesto Giuliano Battiston che chiedeva di specificare meglio che significato avessero le ipotesi genetiche «in cui (si) ricostruisce i legami di “sangue” e identità nazionale, tra il progetto ideologico sionista e l’idea del popolo ebraico come comunità di sangue (…)» lo storico Shlomo Sand così rispondeva: «Come abbiamo visto, affinché potesse essere “inventato un popolo ebraico”, c’era bisogno, da un lato di assumere come fonte storica la Bibbia, e dall’altro di dare per certa la storicità dell’esilio.

Eppure questi due elementi, da soli, non bastavano (…) La ricerca di una sorta di marcatore biologico, oggi portato avanti dai biologi genetisti, non è altro però che un sintomo di debolezza identitaria. E le sue conseguenze nefaste si fanno sentire tuttora, nella politica essenzialista dello Stato d’Israele». Si può affermare, senza che nessuno lanci l’anatema infamante di antisemitismo, che la “politica essenzialista” dello stato israeliano si sostanzia, oggi, con preoccupanti connotazioni razziste?