Il ritardo dell’Italia sui diritti

Stefano Rodotà
La Repubblica, 17 luglio

Se avessi le risorse finanziarie, e una organizzazione non affidata alla mia sola persona, manderei a
tutti i parlamentari, a commentatori assortiti, agli incalliti frequentatori dei talk show televisivi un
kit che potrebbe chiamarsi “Letture minime prima di fare qualsiasi dichiarazione sulle questioni
riguardanti le persone omosessuali”. Il kit dovrebbe comprendere due libri appena pubblicati dal
Saggiatore, Disgusto e umanità di Martha Nussbaum e L’abominevole diritto di Matteo Winkler e
Gabriele Strazio; una fotocopia dei saggi apparsi sulla rivista Aggiornamenti sociali nel 2008; una
fotocopia della sentenza della Corte costituzionale n. 138 del 2010.

Filosofia, etica, regole del dibattito pubblico, diritti: questi i punti di vista che s’intrecciano in quei documenti. Con un comune denominatore: tre parole forti – umanità, dignità, eguaglianza. E un
interrogativo comune: è legittimo escludere le persone omosessuali dal riconoscimento di diritti
fondamentali?

A New York hanno appena detto che non è possibile, e il Senato di quello Stato ha riconosciuto alle
persone omosessuali il diritto di sposarsi. Non è una novità in assoluto, perché sei Stati americani lo
avevano già fatto, e questa è la strada seguita in Europa da Spagna, Olanda, Belgio, Norvegia,
Svezia, Portogallo. Ci si allontana progressivamente dal “disgusto” per i comportamenti
omosessuali, che Martha Nussbaum analizza mostrando come quel disgusto altro non sia che «un
rifiuto fondamentale della piena umanità dell’altro». Un rifiuto che in Italia persiste, anzi si è
rafforzato negli ultimi anni con l’esibito ricorso a un linguaggio violento da parte di politici
autorevoli (si fa per dire), che ha accompagnato il ritorno esibito di una omofobia che sfocia in
aggressioni, e che ha impedito l’approvazione in Parlamento di una modesta norma in questa
materia.

È possibile riprendere il cammino verso quella “politica dell’umanità” invocata proprio da Martha
Nussbaum? O l’Italia è condannata a rimanere prigioniera, chi sa per quanto tempo ancora, di un
“abominevole diritto” che non garantisce alle persone omosessuali pieno rispetto, eguaglianza,
dignità? Qui si coglie l’eguaglianza nel suo momento più profondo, nel tessersi delle relazione
personali e affettive, nella libera costruzione della personalità. Qui, dunque, all’eguaglianza è
dovuto un particolare rispetto: per la delicatezza delle situazioni che le sono affidate, le garanzie
devono essere più intense e sincere. Ma non è soltanto una questione di eguaglianza. È anche, o
soprattutto, una questione di dignità.

Dopo la rivoluzione dell’eguaglianza, infatti, i tempi più recenti hanno conosciuto la rivoluzione della dignità. «La dignità umana è inviolabile. Essa deve essere rispettata e tutelata»: così si apre la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. E la nostra Costituzione ci dà una indicazione ancora più precisa. La norma sull’eguaglianza, l’articolo 3, si apre con parole particolarmente forti e significative: «Tutti i cittadini hanno pari dignità sociale».

Eguaglianza e dignità, dunque non possono essere separate, e quest’ultima si presenta
immediatamente come dignità “sociale”, dunque come principio che regola i rapporti tra le persone,
il nostro essere nel mondo, il modo in cui lo sguardo altrui si posa su ciascuno di noi.
«Per vivere – ci ha ricordato Primo Levi – occorre un’identità, ossia una dignità». La persona,
dunque, non può essere mai separata dalla sua dignità. La rottura di questo nesso ci precipita
nell’indegnità, nella costruzione di “non persone”, o almeno verso forme insidiose di segregazione.
Si devono, dunque, rimuovere gli ostacoli che impediscono il pieno riconoscimento dei diritti delle
persone omosessuali.

Insormontabile l’ostacolo rappresentato dall’opposizione della Chiesa cattolica? Ho ricordato
Aggiornamenti sociali, la rivista dei gesuiti, dove, sia pure con molta prudenza e una permanente
ostilità all’ammissione del matrimonio, si scrive che «risulterebbe contrario al principio di
eguaglianza escludere dalle garanzie certi tipi di convivenze, segnatamente quelle tra persone dello
stesso sesso». Poiché si tratta di diritti fondamentali della persona, il riconoscimento «è istanza
morale prima che garanzia costituzionale». E la Chiesa valdese, contestando una interpretazione
restrittiva dei testi biblici, proprio in questi giorni ha “benedetto” l’unione di due persone
omosessuali appartenenti alla sua comunità.

Insormontabili gli ostacoli giuridici? La sentenza della Corte costituzionale del 2010 è stata criticata
per aver dato una lettura chiusa della norma sul matrimonio invece di partire dal principio
d’eguaglianza. Ma ha comunque riconosciuto la rilevanza costituzionale delle unioni omosessuali,
poiché siamo di fonte ad una delle “formazioni sociali” di cui parla l’articolo 2 della Costituzione, sì
che alle persone dello stesso sesso unite da una convivenza stabile «spetta il diritto fondamentale di
vivere liberamente una condizione di coppia, ottenendone – nei tempi, nei modi e nei limiti stabiliti
dalla legge – il riconoscimento giuridico con i connessi diritti e doveri».

Sono parole impegnative: un “diritto fondamentale” attende il suo pieno riconoscimento. E la Corte aggiunge: «può accadere che, in relazioni a ipotesi particolari, sia riscontrabile la necessità di un trattamento omogeneo tra la condizione della coppia coniugata e quella della coppia omosessuale». Una barriera è caduta. Il Parlamento non potrà usare l’argomento, utilizzato in passato, di un presunto obbligo di non creare “contiguità” tra disciplina del matrimonio e disciplina delle unioni di fatto, argomento già divenuto improponibile in base alla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Gravi, allora, sono il silenzio e l’inerzia di un Parlamento timoroso e incapace di comprendere la società.

Certo, un matrimonio di “serie B” può esser visto come una rinnovata forma di segregazione. Ma
una ripresa del tema generale delle unioni civili, comprese quelle omosessuali, aprirebbe comunque
una fase diversa. Il diritto comincerebbe a riscattarsi dal suo abominio, riprendendo almeno la sua
forza simbolica, la sua funzione di legittimazione di comportamenti civili, di rispetto profondo per
l’altro. Martha Nussbaum ha detto che, «se mi risposerò, sarò preoccupata del fatto che sto godendo
di un privilegio negato alle coppie dello stesso sesso». Riecheggiava così le parole del suo
amatissimo Walt Whitman, il visionario cantore della libertà americana: «Io non accetterò nulla che
tutti non possano avere allo stesso modo».