La lotta oltre il girotondo

Paolo Flores d’Arcais
Il Fatto quotidiano, 15 luglio

La società civile non può più influire sulla politica se non partecipando direttamente. Senza di che, la propria rivendicata autonomia sarebbe solo vestibolo d’impotenza. Ecco perchè alle prossime elezioni occorre mettere in campo le “liste della società civile”.

Tra i movimenti di impegno civile degli ultimi dieci anni, “Se non ora quando” (ormai familiarmente Snoq) è l’unico ad aver imboccato la strada dell’organizzazione. Lo ha fatto con il mega-incontro di Siena, alcune migliaia di donne e 120 club locali (in rapida moltiplicazione). Una novità e una lezione. Tutte le altre esperienze di lotta della società civile, dai girotondi ai popoli viola alle varie “onde” studentesche, non ci sono riusciti o non ci hanno neppure provato. Colpevolmente.

La forza di ogni protesta di massa rischia infatti di passare dall’andamento “carsico” alla dissipazione e infine all’esaurimento, se non riesce a sperimentare una struttura minima, a “geometria variabile”, capace di garantire continuità (e accumulazione delle energie) tra una “esplosione” di piazza e l’altra.

I girotondi conobbero un intero anno (il 2002) di iniziative di massa, e l’onda lunga della “festa di protesta” si prolungò fino al 2004, quando in gennaio tutti i leader dei partiti del centro-sinistra si sentirono obbligati a un confronto al Teatro Vittoria con Nanni Moretti e gli altri leader (e Romano Prodi inviò un messaggio che era un “endorsement”). Ma da quella straordinaria e prolungata mobilitazione non venne nulla, nessun rinnovamento dei partiti e nessun indebolimento di Berlusconi, proprio perché non si volle tentare la strada dell’auto-organizzazione (di questo errore resto uno dei principali corresponsabili). Eppure, quel movimento sapeva che “con questi dirigenti non vinceremo mai”. Abbiamo perso dieci anni.

Ora le donne di Snoq affrontano il problema, e indicano con ciò la strada a tutto il magma di mobilitazioni e lotte latenti nella società civile. Anche loro, però, rimuovono la vera pietra d’inciampo, l’ineludibile “hic Rhodus, hic salta”: la scelta di fronte alle scadenze istituzionali e in particolare alle prossime elezioni politiche. Che saranno cruciali: se Berlusconi vince realizza il suo progetto di fascismo postmoderno.

Non basta perciò affermare che ogni movimento elaborerà le sue proposte programmatiche ma eviterà di impegnarsi ulteriormente nella vicenda elettorale (indicando partiti e candidati, impegnandosi direttamente, scegliendo una formula mista) proprio per mantenere la sua autonomia. Così non si garantisce l’autonomia ma la consunzione fino all’estinzione . Che senso ha contestare Rosy Bindi e Flavia Perina e poi rifiutarsi di affrontare la responsabilità che più che mai incombe su ogni movimento, quello di prendere posizione senza infingimenti, diplomazie curiali e altre perifrasi, rispetto al momento decisivo di una democrazia rappresentativa, le elezioni per il Parlamento?

Più che mai, lo ripeto. Se vivessimo in una liberaldemocrazia mediamente funzionante, avrebbe senso considerare sufficiente per un movimento elaborare rivendicazioni e influire con le proprie lotte sui partiti politici. Ma in Italia è ormai almeno da una generazione, e in modo crescente (e con l’ultimo governo Berlusconi, crescente in maniera esponenziale) che il problema strutturale è costituito dall’incapacità dei partiti di rappresentare gli elettori.

I partiti sono ormai macchine per espropriare la sovranità popolare anziché rappresentarla. Berlinguer lo aveva capito nell’intervista a Scalfari sulla questione morale, che è di trent’anni fa, e contava sulla “diversità” del Pci come alternativa. I piccoli dissipatori dell’eredità berlingueriana hanno invece omologato il post-Pci agli altri, ma nel frattempo il centro-destra è passato dalle sconcezze del Caf (per i più giovani: Craxi-Andreotti-Forlani) alla dismisura fognaria del regime cleptocratico delle cricche e della onnipervasiva caimanocrazia.

Che senso ha, in questa tragedia di macerie morali, istituzionali, culturali, economiche, e infine sociali (dove ogni giorno si toglie qualche euro a chi non arriva a fine mese, per coprire d’oro diadochi e lacchè del narcisocrate di Arcore), fingere che il disimpegno dal momento elettorale ci renda vestali dell’autonomia dei movimenti? È vero esattamente il contrario.

La società civile (Snoq ci è servito come positivo punto di partenza, il discorso riguarda tutti i movimenti, in atto e potenziali) non può più influire sulla politica se non partecipando direttamente. Senza di che, la propria rivendicata autonomia sarebbe solo vestibolo d’impotenza.

Il variegato mondo della cittadinanza attiva (bollata come “antipolitica” benché in realtà voglia più politica, ma radicalmente diversa da quella degli attuali partiti, anche di opposizione) deve perciò decidere COME partecipare, non SE. Ma con l’attuale legge elettorale, partecipare significa essere componente di una delle due coalizioni principali.

Ecco perché considero necessario che alle prossime elezioni vi siano una o più liste di società civile accanto ai partiti del centro-sinistra e con pari dignità. Più d’una, probabilmente, perché diverse sono le sensibilità (e radicalità) circolate nelle lotte, e tutte devono avere rappresentanza. La “porcata” (solo) da questo punto di vista è un vantaggio: dentro una coalizione, anche un risultato con percentuale minima non risulta sprecato.

Liste di cittadini senza partito, che giurino di fare i parlamentari per una sola legislatura. Liste che in più punti saranno in dissonanza tra loro e soprattutto con il Pd e gli altri partiti, di modo che il programma di governo nascerà dai risultati concorrenziali che usciranno dalle urne (ma anche a destra è così).

Non cominciare a discuterne TUTTI INSIEME e SUBITO sarebbe, mi sembra, irresponsabile e suicida.